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panog
“Il Sonno della ragione genera mostri”
Goya
Ero ormai giunto all’apice della mia distruttiva malattia depressiva. La memoria, la nostalgia e i sogni il tutto si fondeva in un'unica creazione deformata e incomprensibile, del tutto simile per astrazione - se la si vuole prefigurare- a quei sorprendenti quanto mirabilmente complessi dipinti del pittore spagnolo Pablo Picasso.
Un Male talmente radicato nelle mie ormai arrendevoli viscere terrestri, paragonabile per insopportabilità e dolore alle più sanguinose e truculente torture che solo chi, come Dante, ha potuto esplorare le indicibili voragini a spirale del regno di Lucifero per poi tornare a raccontarlo, potrebbe comprendere.
Vivevo quindi preda inerme di questi maligni “Demoni” della mente, in una piccola e modesta abitazione a Toxer nello stato del Missouri, arrancando sugli specchi della speranza, quando un freddo giorno di novembre il mio medico curante, il dott. Alexander Salomon, uomo di grande cultura e di rare nozioni mediche conoscitore, accortosi del degenerante progredire della mia ignobile infermità, mi prescrisse una cura.
Questa soluzione, chiamiamola così, si può tranquillamente definire naturale in quanto consisteva nel recarmi per qualche tempo (un periodo imprecisato) in un sanatorio, un centro di salute mentale a Topeka nel Kansas.
Per quanto rimasi al principio non poco contrariato a quella soluzione, e devo aggiungere leggermente sospettoso, che io ritenevo alquanto estrema e nonostante ne fossi anche turbato, decisi di accettare, spinto dalla mia profonda stima per il dott. Salomon, il quale non solo mi era stato accanto come curatore ma soprattutto come una specie di genitore putativo, essendo io rimasto orfano nello sbocciare della mia terribile vita.
Accettai coi più lugubri presagi che come ragni velenosi, tessevano ingannevoli tele fra le marcite travi che avevano preso il posto dei miei nervi.
Così partii.
Il cigolio che le rotaie emettevano mentre il treno correva veloce sulle rotaie, unito allo sbuffo del vapore che sgorgava fischiettante dalla piccola ciminiera che si trovava sul dorso della carrozza d’acciaio facevano strillare le mie già dissanguate orecchie.
Nel vagone il sentore delle stridule voci degli altri passeggeri, ben pochi, uomini, donne, vecchi e bambini mi fecero venire un principio di emicrania, l’intolleranza di ogni cosa mi aveva attanagliato.
E i miei occhi? Già ostaggi del delirio, squadravano ad uno ad uno con innaturale meticolosità gli altri pendolari; altro non scorsero che automi, volti anonimi intagliati nel marmo da uno scultore divino che non aveva avuto il buon senso di portare a termine l’opera.
Il panico, l’ansia assoluta si insinuarono come gelido ghiaccio nelle mie viscere, l’aria incombeva pesante come una stalagmite sui miei polmoni, che pregavano giungesse loro l’ossigeno che come un pugno di sassi spigolosi e taglienti precipitava nella trachea.
Il mio essere si intorpidì totalmente e divenne assente, la mia mente vagava ebbra e leggera sulle nere ali di corvo della paura.
Le mie mani erano talmente sudate che sembravano essere divenute due anguille mentre le sfregavo l’una sull’altra freneticamente.
Scavai a fondo nella tasca interna della mia giacca, fino a che le mie dita frementi non trovarono ciò che stavano cercando.
Estrassi la piccola fialetta con sopra un etichetta, che recava la scritta, a mano, ALPRAZOL, staccai il tappo con un morso ed ingogliai in un solo sorso tutto il contenuto liquido ed acre.
Le sostanze chimiche mescolate a quelle naturali di qualche pianta dell’oriente all’interno del calmante cominciarono subito a fare effetto; entrando nel circolo del mio sangue, i muscoli, prima rigidi come tronchi di quercia, ritornarono a rilassarsi e la respirazione, prima ostruita (o meglio che sembrava ostruita), tornò regolare, il tutto avvenne nell’arco di pochissimi secondi.
Mi accasciai stremato sul sedile come se tipo Ercole, avessi affrontato dodici fatiche, lì nel mio box che fortemente avevo voluto in erema disparte lontano dagli altri, diressi l’attenzione al panorama che rapido fuggiva fuori dal finestrino.
Il paesaggio montuoso in alcuni tratti pianeggiante scorreva nel primo crepuscolo, tra le ombre spiranti del giorno, alcuni pascoli di splendidi cavalli che correvano, seguiti a ruota, sopra il loro austero muso, da un anomalo e scoordinato stormo di uccelli (dei quali non riuscii a definire la specie ) fecero riapparire per un fugace istante la calma assoluta nel mio animo.
Avevo smarrito la concezione del tempo, o forse non vi avevo mai dato importanza.
Eravamo partiti da Toxer all’incirca da un ora, magari di più, forse di meno non ricordo con esattezza, ipnotizzato da quell’incantevole quanto per certi aspetti macabra vista, con le tenebre ormai ascese, che si contorcevano tra i secolari passi scavati in mezzo alle piccole catene montuose, barcollai incerto nel dormiveglia, poi precipitai definitivamente fra le braccia di Morfeo.
Era da Tempo immemorabile che agognavo il sonno, oppio e tempio di contemplazione della mente, era veramente da molto che non mi era stato concesso dormire, quindi accolsi con gratitudine quel dono e scordandomi di tutto ciò che mi circondava, mi feci rapire dal buio.
Nella selva arcana che domina la vita
Solo la paura si cela indomita ed agguerrita
Queste parole galleggiavano nelle mie riflessioni dormienti, completamente inondate di sogni, e quando mi destai, tutto venne spazzato via come un granello di sabbia dalla tempesta tranne questi versi che continuano ancora oggi a veleggiare nel mio cervello.
Subito mi resi conto che il treno era fermo, mi alzai dalla posizione quasi supina che avevo e mi misi a sedere composto sospettoso di essere giunto a destinazione.
Mi guardai attorno, gettando lo sguardo nel vagone prima colmo di una ressa di persone, ora completamente vuoto, pieno solo di silenzio.
Quel silenzio che scoprii con grande diniego essere peggiore di qualsiasi baccano terrestre, era assordante.
Tutti erano scomparsi, le stesse donne, gli stessi uomini, gli stessi vecchi e fanciulli che prima tanto urtavano il mio ego, altro non erano divenuti che spettri che infestavano il mio debole senno.
L’apprensione che già mi braccava si fece più intensa e soffocante quando scrutai di nuovo fuori dal finestrino, il bel vedere armonioso e lussureggiante tempestato di splendidi cavalli e reali volatili gracchianti era totalmente mutato.
Una distesa completamente desolata aveva preso il posto dei campi coltivati, piccoli dossi di roccia alcalina, affiancati da minuscoli tornadi di sabbia padroneggiavano fino al remoto orizzonte, componendo assieme a dei cactus pungenti e salici piangenti l’unica vegetazione o ambiente naturale del sito.
Ora, io non avevo mai visto il Kansas ma dalle frammentarie informazioni e illustrazioni che mi erano state esposte, di certo quel luogo gli era simile come l’oceano lo è con il deserto.
È incredibile quanto l’uomo, seppure trascinato dinnanzi all’evidenza soprattutto del bizzarro e assurdo, cerchi, nel sempre incerto salvagente della verità e della ragione, un appiglio a cui far sempre ricorso quando ci si sente smarriti.
Qualcosa non tornava e questo era fuori dubbio, eppure la mia scriteriata coscienza richiedeva conforto, evocandolo e strillando a squarcia gola, ma come in una grotta piena di gole abitate dal vento e dall’umidità, tutto ritornava indietro sottoforma di eco.
È lecito che l’essere umano tema ciò di cui non ha alcuna conoscenza, più giusto per ciò che non comprende.
Rimasi nonostante queste elucubrazioni al mio posto senza muovere un arto.
Mille ipotesi mi frullavano innanzi, le più accreditate erano due; prima eravamo effettivamente giunti in Kansas, a me del tutto ignoto, facendo tappa ad una fermata a me sconosciuta (anche se il viaggio risultava diretto per Topeka), dove il resto dei passeggeri era sceso, ma tutti quanti?
Secondo il treno aveva subito un guasto e il capo treno ed i suoi collaboratori avevano fatto scendere tutti, per potere riparare meglio il danno, ma perché non svegliare me?
Rimasero solo anomale supposizioni senza fondamenta.
Restai ancora alcuni minuti in quella immobile stasi, poi resomi finalmente conto che oltre a sembrare assurdo parevo anche ridicolo, mi alzai e lasciai il mio posto deciso ad esplorare il treno.
Camminai lentamente, lungo tutti i sei vagoni gemelli che componevano la locomotiva, il nulla totale.
Giunsi fino alla parte anteriore o posteriore (dipende dal punto di vista) del treno, guardai nella sala comandi ed in quella delle macchine dove il carbone nero era infilzato da una pala solitaria e la caldaia era spenta e fredda al tatto, non vi era traccia di anima viva, da nessuna parte.
La medicina doveva avere un effetto di circa otto ore ma la situazione più che allarmante aveva messo in allerta i miei neuroni.
Tornai verso la carrozza da me prenotata, correndo vagone per vagone, scompartimento per scompartimento, per raggiungere il mio cappotto che mi ero tolto per usare come coperta, custode della mia sicurezza imprigionata in una fialetta.
Dopo avere tracannato nuovamente “La miracolosa pozione”, stetti per un po’ con le palpebre serrate attendendo il desiderato effetto.
Ero incapace di ideare un qualsiasi stratagemma o qualsiasi altra cosa da potere attuare come mio solito, Nisba, non mi posi neppure la classica e fatidica domanda che seppure anacronistica qualsiasi uomo degno di essere definito con questo nome si sarebbe posto: Dove? Perché? Ma soprattutto che diavolo sta succedendo?
Io invece inerme e indifeso aspettavo dritto e inutile come un palo su un’isola deserta che l’ALPRAZOL facesse il suo piccolo gioco di prestigio, scacciando i tarli che scavavano nella mia scatola cranica. Finalmente mi sentii nuovamente meglio, lentamente riaprii le palpebre liberando il mio sguardo.
La vidi, era una casa, stava lì immobile e solitaria, decadente e abbandonata ma inspiegabilmente maestosa, sembrava un relitto, una salma immobile logorata e smunta, avvolta nel sudario grigio della calce e dei mattoni, assalita dal veemente sole che sembrava quello leone di agosto, nonostante fosse inverno inoltrato.
A questo punto un'altra considerazione mi si parò davanti, ricordavo di essermi addormentato al calar del sole poi quando mi sono svegliato era di nuovo giorno inoltrato, mi chiedevo come fosse possibile che un insonne cronico come me avesse potuto dormire tutto quel tempo.
Ma come la vita tutto stava in equilibrio sulla lama dell’impossibile in quel momento, e niente era affine con la logica, sentii che nulla aveva più senso o valore, mi abbandonai ciecamente all’idea che ormai fossi divenuto folle, come mi ero da tempo autodiagnosticato, o che magari, e quella ancora ad oggi è una speranza, che stessi semplicemente sognando.
Mi aggrappai a queste improbabili certezze come un uomo che sta annegando, stremato e privo di forze, attaccato ad un pezzo di legno in balia delle onde.
Ad appesantire il sacco già stracolmo del mio senno intorpidito c’era quella casa, la quale ovviamente, non solo, stonava lì in mezzo a quel deserto dimora di fantasmi, ma come un puntino di inchiostro su un foglio bianco si scostava del tutto da quello che la psicologia (e non solo) definisce come normale.
Quanto nudi e vulnerabili siamo senza normalità.
Forte dell’idea che di certo, nonostante la mia incompetenza nell’agire, non potevo rimanere immobile senza fare niente, per una di quelle rare volte che hanno costellato la mia esistenza, presi una decisione: sarei entrato in quella casa, lo avrei fatto perché pensavo e speravo che al suo interno avrei forse trovato risposte, e lo avrei fatto perché non vi era altra cosa da fare.
Ed io lo sapevo.
All’esterno del treno che poggiava su misteriosi binari che correvano verso il nulla, il territorio era muto ed immobile, morto nella sua sepolcrale aridità, veramente ero errante in un deserto, magari lontano dal mio parallelo universo, ma comunque un deserto.
Il vento anche stava immobile e assente, il cielo una cupola senza confini ombrosa con al centro l’occhio sovra terrestre che come un faro spandeva la sua luce.
La costruzione era poco lontana da me austera dimora di chissà quale inconciliabile culto e religione, era priva di finestre ma non cieca, un rosone mirabilmente intagliato in quello che sembrava gesso, sovrastava la porta ad arco in legno, conferendogli l’apparenza della testa di un ciclope semi sotterrato.
L’occhio di gesso guardava con ammonimento, un ammonimento a quei curiosi che, come ero io, volevano violare il suo interno.
Non mi angustiai le meningi, domandandomi chi l’avesse costruita o altre questioni che riguardassero la casa ma ammetto che lo feci per pigrizia e non per responsabile cauzione.
L’architettura blasfema quanto idolatrata a chissà quale infernale divinità mi accolse nella sua ombra assente.
Nulla sollecitava di più la mia curiosità, che accrebbe man mano che mi avvicinavo alla costruzione, come quella prospettiva di non continuità quella continuità che la natura ha eletto a legge.
Non feci il giro della casa, come avrei voluto al principio, avevo paura che sul retro di quello strano luogo, avrei potuto trovare un precipizio che, senza remore, mi avrebbe ingoiato negli abissi oscuri di qualche infero.
Spinsi la porta che si rivelò molto pesante, la feci fremere e crepitare sui suoi cardini arrugginiti, mi sentivo come un novello archeologo che si avventura in una piramide antica appena riportata alla luce del tempo, spaventato ma eccitato al contempo.
L’interno era diverso da come mi ero immaginato, un ampio salone con tappezzeria color marrone mi accolse, adagiate in fondo alla sala, una rampa di scale saliva a zig-zag verso il piano superiore, il tutto era illuminato dai frammenti di vetro segmentato color arcobaleno che il rosone emetteva su quel polveroso abbandono.
Come l’esterno anche l’interno era in decadimento. Nessun mobilio arrecava il segno di una qualche civilizzazione, mi sentivo naufrago nelle volte celesti infinite e inspiegabili di cui si dice siano state create le stelle.
Percorsi il salone, sotto l’egida del rosone, poi salii le scale con calma nessun odore esisteva, niente mi turbava. Ero solo e nulla mi avrebbe fatto alcun male o almeno speravo, feci scivolare il palmo della mia mano sullo scorri mano, quando giunsi in cima mi accorsi che una piccola lanugine di polvere aveva coperto la faccia volare della mano.
Per un tratto fu come se qualcosa mi stesse trainando verso il piano superiore, qualcosa di pericoloso che, da prima che l’uomo nascesse, si annidava tra gli angoli bui di quel luogo maledetto.
A ricevermi stavolta fu un lungo corridoio, di terra rossa, senza fine, era illuminato da torce la cui fiamma immortale e tremolante sembrava minacciare, con le sue ardenti lingue, chiunque si avvicinasse.
Sembrava un tempio, un santuario di un altro tempo. Percorsi il corridoio col solo rumore dei fuochi a farmi compagnia, alcuni pezzi del muro stavano per terra sparpagliati e ricoperti da qualche cosa che sembrava una specie di liquido corporeo viscido e denso, marcati solchi avevano sfregiato la terra rossa in graffi irregolari, lì al contrario del piano terra un odore nauseabondo, si assimilava nelle mie protestanti narici, era simile a quello di una fossa comune, dove sfilze di cadavere, si degradano lenti nell’aria silente.
Qualcosa di viscido come bava mi cadde tra i capelli, non feci in tempo ad alzare il capo che un essere mi franò addosso scaraventandomi a qualche metro di distanza accanto all’apertura da cui scendevano le scale.
Lo vidi, quel mostro, aberrante creatura, aborto figlio dell’orrore lussureggiante con il male.
Come poterlo descrivere? È solo per concludere questa cronaca che attingerò ancora alle rimarginate ferite dell’orrore bandendo per sempre la mia credibilità, ma la gente deve sapere.
Aveva le caratteristiche proprie di un gigantesco Elope, ondeggiava il suo viscido corpo come una bandiera in balia del vento, la sua testa feroce e appiattita, aveva una piastra oculare, anteriore e posteriore, le orbite mescevano le insostenibili dicotomie delle creature serve di Ade, ciò che destò più repulsione in me tanto che per poco non diedi di stomaco, furono le gambe, due anteriori a circa venti centimetri dalla testa e quelle posteriori alla stessa distanza però dalla coda, tra le dita putride ventose membranose putride e pulsanti completamente insanguinate.
A chiudere la figura scabrosa c’erano i denti a sciabola, due sotto il mento, e uno sopra la mandibola scheggiati dalle vite che la creatura aveva strappato a chissà quale altra razza oltre l’uomo.
Era sceso da una botola che si apriva nel soffitto, un quadrato nero che ammiccava e che conduceva in chissà quale tetro mondo, la osservavo e sembrava mi volesse per questo aveva mandato il suo terribile emissario.
Tentai invano di scrollarmi quelle terribili sensazioni, il respiro mi si era di nuovo fatto affannoso, l’essere veniva verso di me beffardamente, con i residui delle mie ultime forze tentai di muovermi, ma come si può reagire quando le essenze delle tue più intime paure prendono vita e si fondono in un incubo a occhi aperti
Il mostro si contorce mentre si sporgeva nella mia direzione, la sua lingua triforcuta fendeva ad intervalli la putrescente aria, il suo furente respiro tanfo di morte mi era sempre più vicino, sempre di più, di più, di più.
Piegò gli orripilanti arti e mi balzò addosso, nello stesso istante fortunatamente riuscii a riprendere mobilità (che fosse veleno immobilizzante quella bava che mi aveva buttato addosso?), riuscii ad evitare il suo attacco ma uno dei suoi denti apri uno squarciò sulla mia spalla, un urlo di dolore mi scappò dalle viscere.
Rotolai sbracciando giù per le scale, con il sangue che zampillava da sopra la scapola nella ferita aperta, saltai in piedi con un’agilità a me non convenzionale e comincia a correre verso la porta.
Piangevo e mi chiedevo se il suo morso non mi avrebbe ucciso, forse era velenoso, urlavo e strillavo invocando un aiuto inesistente.
Arrivai all’uscio, rimasto semi aperto come lo avevo lasciato, mi volsi indietro e con timore mi accorsi che l’essere era a pochi passi da me, varcai veloce la soglia e spinsi verso di me il portone con tutta la mia forza, incastrai la sua testa nello spiraglio, con un ultimo e sprezzante attacco allungò il viscido collo e cercò di addentarmi poi scomparve nell’oscurità che lo aveva vomitato.
Un verso gutturale atroce e di sconfitta implose da dentro la casa e si divulgò per tutto l’infinito spazio, il sangue mi si gelò nel udirlo.
Distrutto ebbi prima dei conati di vomito, poi svenni e caddi per terra.
Rinvenni legato ad un letto nell’ospedale psichiatrico di Topeka, i medici incluso il dott. Salomon hanno detto che ho tentato il suicidio gettandomi dal treno in corsa e che per un tempo indeterminato sono stato svenuto tra la boscaglia del Kansas, e che ciò che avete appena letto altro non è che semplice delirio un “introspezione del proprio io” l’hanno definito gli illustri professori.
Dicessero pure ciò che più li aggrada ciò che vi ho raccontato è reale come lo è la dolorosa ferita sulla spalla che i dottori hanno diagnosticato essere un taglio che mi sono fatto urtando una roccia nel tentato suicidio.
Ho fatto alcune ricerche negli anni nella biblioteca del sanatorio, divenuta mia fissa dimora, in un libro di mitologia che riguarda il credo degli Unni e del loro Dio Odino ho trovato un iconografia, del tutto simile al mostro da me (purtroppo) incontrato.
Sotto il disegno una postilla a margine lo identifica come – Panog - guardiano del regno degli incubi e delle fobie profonde.
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