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Notte senza luna
Pregare. Ci sono momenti in cui non posso fare nient’altro.
Seduta su queste scomode poltroncine di plastica, in questi squallidi corridoi verdi che odorano di medicinali, prego un Dio che non conosco. Prego perché i medici riescano a salvarlo. Prego perché il chirurgo varchi le porte della sala operatoria con un sorriso e mi dica che Francesco ce l’ha fatta.
Crescono l’ansia ed il terrore. I secondi passano lenti ed inesorabili, diventano minuti, diventano ore e l’aria è sempre intrisa di paura e di speranza. Cresce la mia inquietudine, insieme al senso di impotenza. Non c’è nient’altro che possa fare. Pregare è tutto quello che mi resta.
- “Tieni, ti ho portato qualcosa di caldo” - È Maria che mi porge una tazza di tè bollente - “Devi cercare di prendere qualcosa, almeno tu”.
- “Grazie, non la voglio”.
- “I medici non si pronunciano. Dicono che è grave, che fanno il possibile. Nient’altro”.
Sospira trattenendo le lacrime e si siede accanto a me. È così vicina che potrei toccarla solamente allungando la mano, eppure il suo sguardo è spento e distante, perso in un mare di ricordi; forse lo stesso mare dove è perso il mio.
Ho conosciuto Francesco nel dicembre del ’70 sul treno. Ricordo quel giorno come se fosse ieri: eravamo entrambi diretti a Roma, ma per motivi completamente diversi. Lui ed i suoi amici andavano ad aderire per solidarietà ad una manifestazione. Io andavo a dare il mio esame di diritto romano.
Ricordo che cercavo di dare un ultimo sguardo distratto agli appunti che tenevo in mano, ma una numerosa comitiva seduta dietro di me mi disturbava con il suo chiacchiericcio continuo. Mi sono girata per dire loro di smetterla ed è stato allora che l’ho visto per la prima volta. Mi ha colpito subito.
Francesco era sicuramente bello. Aveva un viso pulito, due grandi occhi azzurri, ombrati da ciglia folte e scure ed un magnifico sorriso sicuro di sé. Il fervore carismatico dei suoi discorsi destava l’attenzione di ogni ragazzo dello scompartimento. Parlava di lotte pacifiche per un mondo migliore, senza ingiustizie, senza disuguaglianza sociale, senza differenze tra uomini e donne. Parlava di sogni che potevano essere realizzati. Ma non aveva fatto i conti con la realtà.
Sono anni difficili, pericolosi. Non è più possibile protestare perchè ogni parola diventa la scusa per scatenare un nuovo scontro di piazza. Ogni insulto sfocia in una rovinosa rissa armata ed ogni giorno trascina con se un considerevole numero di feriti da una parte e dall’altra. Anche gli studenti come Francesco, che protestavano pacificamente, restavano coinvolti in scontri disastrosi, diventando pedine inconsapevoli di una guerra che ancora non riuscivano a capire.
Le mani di Maria stringono improvvisamente la mia gamba; con lo sguardo indica un’infermiera che sta uscendo dalla porta della sala operatoria. La fissiamo entrambe con aria interrogativa. L’infermiera scuote la testa.
- “Ancora non ci sono novità. Vi comunicheremo qualcosa appena ci sarà una prognosi sicura”.
La ragazza procede lungo il corridoio, togliendosi i guanti sporchi di sangue, il sangue di Francesco. Maria sospira di nuovo. Quest’attesa ci sta uccidendo.
Maria è entrata nella mia vita due mesi dopo Francesco, quando già stavamo insieme. L’ho vista, per la prima volta, seduta con lui ai tavolini esterni di un bar. Parlavano e ridevano, dividendosi amorevolmente la stessa Coca-cola. Ricordo che ho avuto paura, perché Francesco non la guardava come si guarda un’estranea, e mi sono avvicinata al tavolo senza saper bene che cosa pensare. Francesco mi ha osservato divertito e ha detto sorridendo:
- “Giulia, ti presento il secondo amore della mia vita: la mia bellissima sorellina”.
Mi sono affezionata subito a quella ragazza, alla sua risata simpatica e familiare, ai suoi riccioli neri, straordinariamente simili a quelli di Francesco, ed ai suoi grandi occhi castani, dolci come quelli di un cerbiatto.
Adesso Maria è seduta accanto a me. Divide con me l’ansia e la speranza. Divide con me l’amore per quel ragazzo buono, che lotta tra la vita e la morte.
L’infermiera di prima riattraversa il corridoio. Ha cambiato i guanti e porta con sé uno strumento che non riesco ad identificare. Ci guarda, con un espressione mista tra la compassione e la speranza. Mette la mascherina ed entra in sala operatoria. Maria giocherella nervosa con il suo braccialetto.
È il regalo di Natale che le ho fatto l’anno scorso. Lo ammirava attraverso la vetrina di un negozio ogni volta che ci passavamo davanti, ma non lo comprava mai. Maria non acquista mai niente di superfluo: ha conosciuto la povertà e non l’ha più dimenticata.
Quando ha trovato il bracciale sotto l’albero, ha sgranato gli occhi e ha sfoderato il suo bellissimo sorriso, ringraziandomi di cuore. So che non erano parole di convenienza, ma gratitudine sincera. Maria è una persona vera, trasparente come l’acqua dei torrenti di montagna.
Il mio stomaco brontola, ma non ho fame. Mi porto le mani sulla pancia e Maria, attentissima, se ne accorge.
- “Giulia vai a mangiare qualcosa, resto io qui”.
Scuoto energicamente la testa.
- “No, non se ne parla”.
Non insiste. Sa che sono testarda, ma soprattutto sa che voglio esserci quando ci faranno sapere. Nel bene o nel male. Sospira.
- “D’accordo, ma almeno mangia. Ho un pacchetto di cracker nella borsa”.
Prendo la bustina che mi porge, ma ne addento uno solo. Poggio il resto del pacchetto aperto sul tavolino, accanto al tè che mi ha portato prima. Lei non mangia nulla.
Maria è fatta così. Quando è preoccupata dimentica tutti i suoi bisogni, non mangia, non beve, non dorme. Continua però ad accorgersi dei disagi degli altri.
La guardo e le sorrido. Le voglio bene, come se ne vuole ad una sorella. Non risponde. Le prendo le mani.
Mi guarda. Ha gli occhi assenti, lo sguardo annebbiato dalla tristezza e dalla paura. Francesco per lei è tutto, non ce la farebbe se lui non sopravvivesse.
Maria e Francesco sono fratelli, amici e compagni. Sono figli e genitori l’uno dell’altra forse perché, rimasti orfani da piccoli, si sono cresciuti a vicenda. Sono sempre stata felice e gelosa della loro complicità. All’inizio ne ho avuto paura: pensavo che, se io e Maria non fossimo andate d’accordo, lui mi avrebbe messa da parte. Poi ho conosciuto meglio Maria ed ho capito che non andarci d’accordo sarebbe impossibile. Ricordo ancora la prima volta che abbiamo cenato con lei.
Maria viveva in un appartamento al centro, lo stesso dove viveva anche Francesco prima di trasferirsi da me. Aveva un piccolo andito che profumava di fresco e di fiori. A sinistra si aprivano un salone, che in precedenza era stato la camera di Francesco, un bagno piastrellato d’azzurro e la stanza di Maria. A destra dell’andito, invece, c’era la cucina.
Quando abbiamo suonato Maria è venuta ad aprire con addosso un grembiule da cuoca ed il suo sorriso più bello: quello che riserva a Francesco. Profumava di cioccolato e di pasta frolla. Sono arrossita: aveva l’odore che ha un’ottima cuoca, mentre io non so cucinare. Lui l’ha abbracciata ridendo, poi le ha sussurrato:
- “Sorellina, sei l’unica che conosco che riesce ad essere affascinante anche vestita così”.
Lei gli ha rivolto uno sguardo di rimprovero per la sua indelicatezza, si è sfilata il grembiule e me l’ha messo addosso. Poi mi ha fatto l’occhiolino ed ha aggiunto:
- “Adesso non sono più l’unica”.
Maria ha impostato da subito il nostro rapporto sulla complicità, forse per questo non siamo mai state in competizione. Inoltre Francesco non ci ha mai dato motivo per esserlo. Io sono la sua compagna, lei sua sorella. Con lei ricorda il passato, con me sogna il futuro.
Chissà se ci sarà ancora un futuro insieme.
Un’altra infermiera esce dalla sala operatoria, rientra poco dopo. Ancora niente. Squilla un telefono, un’infermiera risponde. Mette una mano sulla cornetta e mi fa segno di avvicinarmi. Vado.
Dall’altra parte dell’apparecchio sento una voce conosciuta e poco piacevole, una voce lontana:
- “Giulia, sono Marco. Novità? ”.
Marco. Se anche avessi delle novità sarebbe l’ultima persona a cui le direi, ma non ne ho.
- “No, ancora nulla. Ti chiamo quando sapremo qualcosa”.
- “Vorrei poterti raggiungere, ma sai che, purtroppo, non mi posso muovere da qui... ”.
In fondo al cuore sono contenta che non sia qui, non vorrei nemmeno che Francesco continuasse a frequentarlo, ma non è una decisione che devo prendere io. Respiro e gli rispondo più cordialmente possibile:
- “Non importa, grazie. C’è già Maria”.
È l’unica persona che voglio accanto in questo momento, l’unica che può capirmi.
Marco è il migliore amico di Francesco, se così lo si può definire. Sono nati lo stesso anno, hanno vissuto nello stesso palazzo, frequentato la stessa scuola, eppure sono completamente diversi. Marco è una persona violenta, convinta che l’unico modo per affermare le proprie idee sia imporlo agli altri con la forza. Francesco non sopporta la violenza. Probabilmente, se non fossero cresciuti insieme, si disprezzerebbero. Ma i legami così profondamente radicati sono impossibili da recidere, nonostante la diversità delle loro scelte.
Le telefonate di Marco non portano mai buone notizie. L’ultima volta è successo quest’estate, durante la settimana che io e Francesco abbiamo passato in Sardegna dai miei.
Stavo seduta sulla scogliera ad osservare Francesco nuotare; era bravo, molto più bravo di me. Il sole stava già tramontando, e lui si divertiva a giocare con le onde che gli si infrangevano addosso.
- “Tu non ti tuffi? ” - Mi aveva chiesto mentre emergeva con un sorriso - “Si sta benissimo”.
Ho scosso la testa:
- “No, ho freddo”.
Mia madre ha interrotto i nostri discorsi, chiamandoci a gran voce dal sentiero. Francesco è uscito dall’acqua e le siamo andati incontro.
- “C’è una telefonata per te” - Ha detto rivolta a Francesco, quando le siamo arrivati davanti - “Un certo Marco”.
- “Grazie Teresa”.
Le ha risposto sorridendo, poi è corso veloce verso casa con un’espressione sospesa tra il preoccupato, lo spazientito e l’ammutolito. Marco non l’avrebbe mai chiamato a casa dei miei genitori, solo per chiedergli come stava andando la vacanza.
Io e mia madre siamo arrivate, a passo più lento, solo cinque minuti dopo. Sono entrata subito in salone, la stanza dove era sistemato il telefono. Francesco stava discutendo animatamente con Marco:
- “… non mi interessa.. Ti rendi conto della gravità di quello che hai fatto?? .. se non ci vai tu, andrò io a raccontare quello che è successo... Non mi interessa se vi scoprono.. ”.
È stata la prima volta che ho sentito Francesco così arrabbiato, in genere è una persona pacata e serena anche nei modi di fare.
- “.. non credo che sarai ancora libero quando tornerò.. in ogni caso non te lo garantisco... certo.. ciao. ”.
Ha salutato Marco, piuttosto seccato, ed ha poggiato la cornetta.
- “Cos’è successo?.- Gli ho domandato, curiosa.
Ha risposto in maniera frettolosa, non voleva parlarne:
- “Marco.. giuro che non immaginavo sarebbe arrivato a tanto. Lui.. ha sparato.. ha sparato davvero su delle persone.. E dire che gliel’ho sempre detto che non è un gioco... Che è sbagliato... ”.
Si è preso la testa tra le mani e ha sospirato esasperato. Ho capito che non era il caso di insistere, l’ho abbracciato e gli ho spiegato che non era colpa sua, che non avrebbe potuto fare nulla per fermarlo.
Al nostro rientro Maria mi ha spiegato che Marco era stato arrestato con un’accusa di tentato omicidio e partecipazione a banda armata. Tuttora si trova agli arresti, in attesa di un processo.
Forse Francesco avrebbe dovuto chiudere per sempre con lui, ma non se l’è sentita. Marco è stato il suo primo vero amico e sentirà per sempre il dovere di stargli accanto, perché gli vuole davvero bene, come se ne vuole ad un fratello che ha preso la strada sbagliata.
Un infermiere mi risveglia dai miei pensieri. Dice che è tardi, di andare a riposare. Ci vuole mostrare la sala d’attesa. Io scuoto la testa. Maria accanto a me fa la stessa cosa. L’infermiere rinuncia e se ne và. Maria si alza in piedi e si avvicina alla finestra. I secondi scorrono. Diventano minuti. Il tempo passa. Francesco lotta per la vita.
Francesco tiene alla vita. Si era stancato di scontri armati, risse e feriti, da tempo avrebbe voluto trasferirsi all’estero con me e Maria; ma non riusciva a trovare il coraggio di abbandonare alla loro sorte amici e compagni di università.
Con gli anni la situazione è andata peggiorando. Uscire di casa è diventato impossibile. Ovunque esplodono bombe, scoppiano incendi, volano proiettili omicidi. Ogni via, ogni sbocco, ogni piazza, diventa il possibile teatro di una nuova battaglia. Anche chi non c’entra niente viene coinvolto in questa guerra che ha spaccato il paese. Le divisioni si sentono all’interno delle stesse famiglie. I padri litigano con i figli, le mogli discutono con i mariti, gli amici si dividono per sempre.
Non avrei mai voluto fuggire dalla mia terra, lasciare i miei amici ed i miei genitori, ma l’aria è diventata davvero irrespirabile. Se fossi stata sola sarei rimasta nonostante i rischi, ma adesso so che non lo sono più. Aspetto un figlio, un bambino innocente che non c’entra nulla con questa guerra.
Avevamo deciso di partire, di farlo per nostro figlio. Non volevamo farlo crescere in questo clima, non volevamo vivere senza la certezza di poter tornare a casa ad abbracciarlo la sera. Saremmo dovuti partire venerdì prossimo: io, lui e Maria. Francesco aveva trovato lavoro a Londra. Chissà se occuperà mai quel posto, o se resterà lì per sempre ad aspettarlo.
Un’infermiera mi porge un piatto di minestra. Lo prendo. Non ho voglia di discutere. Mi siedo. Inizio a mangiare, lentamente.
Il tempo passa. Maria guarda l’ora. Lo faccio anch’io. Sono appena le undici. È solo un paio d’ore che siamo qui, due ore lunghe una vita.
Era quasi l’ora di cena quando il telefono di casa ha squillato. Sono andata a rispondere sicura che fosse Francesco: era uscito per comprare le ultime cose necessarie per il trasferimento, ma non era ancora rientrato.
- “Pronto? ”.
La voce dall’altra parte della cornetta aveva smentito le mie certezze:
- “Giulia, sono Maria. Raggiungimi subito al “Gemelli”, per favore. Ti chiamo da lì. ”.
Aveva la voce rotta dal pianto, ho avuto un brutto presentimento.
- “Perché all’ospedale?? Cos’è successo?? ”.
- “È per Francesco.. gli hanno sparato.. c’era uno scontro.. lui.. è finito.. in mezzo.. ”.
No. No, non è possibile. È tutto quello che sono riuscita a pensare. Non Francesco. Ti prego. Sono salita in macchina ed ho raggiunto di corsa Maria in questi squallidi corridoi.
È colpa mia. È anche colpa mia. Sono stata io a voler partire a tutti i costi. Sono stata io a chiedergli di comprare le ultime cose perché non avevo voglia di uscire. È come se l’avessi spinto io in mezzo a quella sparatoria. Se non avessi insistito con questa stupida idea del trasferimento, se non avessi insistito perché tutto fosse a posto entro questa sera, lui sarebbe ancora sano e salvo, non starebbe lottando contro la morte sotto i ferri. Se mio figlio nascerà senza un padre, sarà colpa mia. Mi odio per avergli chiesto di fare quella dannata commissione. Lo odio per avermi accontentato senza battere ciglio, senza dirmi che era tardi, che avrebbe potuto farlo domani. Lo odio. Ma se dovesse morire, non so che cosa farei.
Sposto lo sguardo fuori dalla finestra. È buio. Una notte senza luna.
All’improvviso un’infermiera esce dalla sala portando dei macchinari.
- “Abbiamo finito. Tra un minuto potrete parlare con il primario. ”.
Silenzio.
Improvvisamente non voglio più sapere.
Maria si gira verso di me. I secondi scorrono troppo veloci. La abbraccio. Mi abbraccia. Gli ultimi secondi.
Potrebbero essere gli ultimi secondi che restiamo legate all’illusione di Francesco. Il cuore di Maria accelera i battiti. Forse è il mio. Battono insieme, veloci.
Fuori è ancora buio. Buio fuori. Buio dentro di me. Buio dentro di lei. Paura.
Guardo Maria. Vorrei dirle tante cose, ma non ci riesco. Si è cancellato tutto il resto. C’è spazio solo per la paura. Speranza. Fiducia. Paura. Pregare.
Le parole si bloccano in gola. Non respiro. Paura. Il mio cuore batte. Il cuore di Maria batte. Un cuore ancora più piccolo batte dentro di me. Prego.
Ancora buio fuori. Ancora buio dentro.
La porta della sala operatoria si apre. Paura. Maria stringe il mio braccio. Io stringo più forte la sua mano. I passi del primario risuonano sul pavimento. Prego più forte. Paura.
Non voglio più sapere. Lasciatemi nella mia illusione.
Il primario mi guarda, poi rivolge a Maria un’aria interrogativa. Vuole sapere se può parlare davanti a me. Non sono una parente. Non ancora. Maria annuisce.
Il primario apre la bocca. Parla. Non sento quello che dice. Non voglio sentire. Se Francesco fosse morto sarebbe colpa mia. Per favore, no. Farò qualsiasi cosa. Per favore. Sto pregando per lui. Se esiste un Dio da qualche parte in quest’universo, prego perché lo salvi. Prego perché non lasci un bambino senza suo padre.
Non si può spegnere così la gioia di vivere di Francesco. Non possono sparire così i suoi sorrisi, le sue carezze, i suoi complimenti scherzosi. Non può calare la notte sui suoi occhi, la morte non può vincere su quell’azzurro così vivo.
Maria molla la presa. Sto guardando il primario, ma non lo vedo. La voce è lontana. Sta parlando con me. Devo ascoltare cosa dice.
- “Signora, ha sentito? ”.
No, non ho ascoltato. Scuoto la testa. Ripeti. Voglio sapere. Voglio sapere che è vivo. Ti prego.
- “È ancora debole, ma è fuori pericolo”.
Respiro.
Oddio, Grazie. Grazie. Grazie ai medici. Grazie a tutti. Grazie a Dio, dovunque egli sia.
Non ci credo. È vivo. È davvero vivo. Maria mi abbraccia. Parla, finalmente. Un fiume di parole che prima era bloccato in gola. È vivo. Il medico sorride. Ce l’ha fatta.. Maria salta. È felice. È vivo. Mio figlio scalcia dentro di me. Per la prima volta lo sento muoversi. Sembra aver capito che suo padre ce l’ha fatta. È vivo.
Maria mette una mano sulla mia pancia e sussurra:
- Hai sentito piccolino? Tuo padre è vivo. Ho sempre saputo che era una scorza dura.. e poi non ti avrebbe mai lasciato solo.
Le sorrido e la abbraccio di nuovo. Mi fa l’occhiolino e va a chiedere al medico quando lo potremo vedere.
Io sposto lo sguardo sul cielo oltre la finestra. Adesso si vede la luna.
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0 recensioni:
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- Wow... bellissimo, mi è piaciuto molto. Semplice, scorrevole, duro e sincero.
Complimentissimi...
- coinvolgente e scorrevole.
- nono non far caso a ciò che dico, più che una critica (da te tanto richiesta=) ) è un mio capriccio

- Grazie molte ad entrambi =)
La prossima volta proverò a scrivere qualcosa di + allegro XD
- Scritto bene e scorrevole.
Benvenuta tra noi.
grazie a presto e a rileggerci. 
- Si legge benissimo, un ottimo uso di flashback per dare forma al contesto della vicenda e la narrazione in prima persona rende al meglio l'introspezione.
A me è piaciuto molto 
ah, i complimenti: brava! 
manca un po' di umorismo (mah! sarò io che voglio sempre trovare qualcosa per cui sorridere
), ma forse spezzerebbe la serietà del racconto
- Fatemi sapere cosa ne pensate per favore.. Anche se avete qualche critica da fare, servono moltissimo x migliorare =)

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