LA STIMA DEL RE
La chiamata gli giunse sul telefonino verso le sei del pomeriggio. Lo lasciò suonare un po' per ascoltare la nuova suoneria, "Imagine", poi dopo venti secondi rispose. Anche perché sul display c'era il nome di Brunone, il capo.
"Antonio, non prendere impegni per domani. Devi fare un viaggio in mattinata."
"Chi è, uomo o donna?"
"Uomo, uomo" rispose ridacchiando Brunone "Un viaggio breve ma ben pagato, come al solito"
"Da Roma a...?"
"Oddio, Rieti o Viterbo. Adesso non ricordo. Ci vediamo qui alle otto"
"Ok ciao"
Ripose il telefonino sul tappeto e rimise il film in play. Aveva lasciato Hannibal legato come un salame e in balia dei suoi rapitori e voleva proprio vedere come ne sarebbe uscito. Tutto questo due minuti prima di addormentarsi. Cazzo, quel "marocco" era proprio buono...
Quando il telefonino risquillò vide il nome di Franz, il bassista del gruppo. Era un trentenne alto e magro dai modi gentili.
“Pronto? Ciao Franz... ”
“Che fine hai fatto? Sono al bar che ti aspetto, stasera ci sono le prove. ”
Già, le prove. Porca puttana, aveva dormito più di tre ore.
“Arrivo, intanto fammi preparare un toast e una birra da Sammy”
Si alzò, strizzò l'occhio a Bruce che, incollato alla parete, cantava schiena contro schiena con Clarence Clemons, prese la vecchia Fender e uscì.
Il bar era a due passi da casa sua, era un bar frequentato da finta bella gente, quelli che cambiano macchina appena hanno il portacenere pieno e ragazze che alle quattro di mattina ti sembrano tutte Britney Spears, specialmente se hai bevuto abbastanza. Antonio lo frequentava solo quando ci lavorava Sammy, un suo compagno di scuola e di bravate notturne. Arrivò, salutò Franz, divorò il toast, ingollò la birra, non pagò (che amico Sammy...) e salì in macchina con Franz, destinazione sala prove. Oddio, chiamarla sala prove era esagerato. C'era posto a malapena per una batteria e due amplificatori, ma almeno era gratis. Era la cantina di Cico, il batterista. Cico era un pazzo scatenato che cominciò a suonare la batteria quando scoprì che tutti i più bravi batteristi sono dei pazzi scatenati. Quando entrarono lo trovarono col missile pronto per essere lanciato, come ogni volta che suonavano. Ma per loro era la musica la vera droga. Suonavano insieme da tanti anni, dai tempi della scuola, e ormai avevano un affiatamento che rasentava la perfezione.
“Che facciamo stasera? ” chiese Cico
“Quello che volete, basta che non facciamo troppo tardi che domattina lavoro” rispose Antonio
“Dove vai? ”
“Qui vicino ma mi tocca partire presto, alle otto”
“Io alle otto sono già a metà lavoro” disse Franz. Già, lui lavorava in fabbrica, faceva i turni. Cico invece era fortunato, faceva finta di lavorare nell'azienda di famiglia.
Partì Antonio con un riff di blues in minore e dopo quattro giri, senza neanche bisogno di guardarsi, Cico e Franz si aggregarono con la precisione di un metronomo.
Brunone era un ometto che arrivava a malapena al metro e sessanta, sempre allegro e con una MS perennemente accesa tra le dita ingiallite dal tabacco. Era il titolare di una piccola agenzia di autonoleggio e uno dei suoi due autisti era Antonio. Nel suo parco macchine aveva auto di lusso per matrimoni e feste varie ma anche auto più normali per chi voleva farsi un viaggio senza dare nell'occhio.
“Ciao Brunone, dove mi mandi stamattina? ” chiese Antonio
“Devi andare a prendere un cliente a casa sua e portarlo qui a Roma. Quando torni se trovi chiuso metti le chiavi della macchina nel solito posto”
Il solito posto era il bar a fianco di cui era titolare le moglie. Antonio prese la busta con l'indirizzo e i soldi per la benzina e uscì. Appena fuori guardò dentro la busta. Il cliente si chiamava Luciano Evangelisti ed abitava nell'entroterra laziale. Diede i dati al navigatore e partì. Durante il viaggio si sparò l'ultimo dei Negramaro, pensando a come sarebbe stato bello anche per lui campare con la musica. Ma con sei-sette serate all'anno era dura.
Quando arrivò a destinazione vide che era una villa col muro di cinta alto e un cancello più alto del muro. Suonò al campanello e una voce rispose subito.
“La stavo aspettando, arrivo subito”
Dopo soli due minuti uscì un signore ben vestito, magro e con i capelli bianchi e corti. In mano teneva una ventiquattrore di marca che appoggiò sul sedile posteriore.
“Posso sedermi davanti con lei? ” chiese con inaspettata gentilezza.
“Certo, non è contro il regolamento” rispose Antonio cercando di essergli simpatico.
“Bene, perché stare dietro da solo mi rende nervoso. Chi guida tende immancabilmente a guardarmi dallo specchietto e questo non mi piace. Meglio stare fianco a fianco. ”
C'era qualcosa in quella frase che piacque subito ad Antonio. Un mettere subito le cose in chiaro che era anche il suo modo di fare.
“E dove la devo portare a Roma? ”
“Viale Bixio, ma il numero non lo ricordo”
“Poco male, quando arriveremo mi dirà lei dove fermarmi”
Durante il viaggio Antonio accese la radio e la tenne ad un volume molto basso.
“Le dà fastidio un po' di musica? ”
“No no, anzi”
Non parlarono più fino all'ingresso del GRA.
“Le dispiace se ci fermiamo a mangiare un panino? Sa, sono con un caffè da stamattina” chiese il signor Evangelisti.
“Benissimo, anche io ho un po' di fame” rispose Antonio facendo fatica ad immaginarsi quel distinto signore nell'atto di addentare un “Rustico”.
Mangiarono due panini a testa e Antonio fu quasi lieto di vedere che all'uscita il signore si fermò a guardare l'espositore dei cd.
“Le piace la musica? ” gli domandò appena risaliti in macchina
“Sì, è un'ottima compagna di vita”
“Anche per me, suono ogni tanto con degli amici”
“Bravo. E cosa suonate? ”
“Di tutto. Rock, blues, anni ' 70... ”
“Anni '70... ” sospirò il signor Evangelisti.
Arrivati a destinazione pagò, intascò la ricevuta, prese la valigetta e congedandosi gli disse
“La settimana prossima devo andare a Milano, toccata e fuga. Lei guida tranquillo e mi sembra un bravo ragazzo, se non ha niente in contrario chiederò espressamente di essere accompagnato da lei”
“Certo, si figuri. Chieda di Antonio”
Si salutarono e tornò all'autonoleggio. Era aperto, Brunone era al telefono. Aspettò che avesse finito la conversazione e fecero i conti. La cosa bella di Brunone era che ti pagava subito.
Durante la settimana seguente i giorni si susseguirono uguali. Qualche viaggetto poco distante, le serate al bar e un paio di piacevoli suonate con Franz e Cico. Tutto nella norma, la stessa norma di ogni giorno. Forse fu per questo che quando Brunone lo chiamò per dirgli che il signor Evangelisti l'indomani doveva andare a Milano ed aveva chiesto di lui ebbe una sensazione piacevole. Faceva pochi viaggi lunghi e l'idea di stare lontano dalla norma per un paio di giorni gli piaceva. E poi non era mai stato a Milano, a parte quella volta a San Siro per Vasco. Ma vide solo lo stadio, la metropolitana e la stazione.
L'indomani mattina era all'autonoleggio di buon'ora, prese la busta con i soldi, salutò Brunone e partì. Non ebbe neanche bisogno di inserire i dati nel navigatore, la strada se la ricordava ancora bene, in fondo era il suo lavoro. Quando arrivò nei pressi del paese prese dalla busta il numero del telefonino del signor Evangelisti e lo avvisò dell'imminente arrivo.
Lo trovò davanti al cancello intento a telefonare a qualcuno, una valigia era appoggiata a terra.
“Salve! ” gli disse prendendo la valigia
“Finalmente, sono già 35 secondi che aspetto” rispose sorridendo e richiudendo il telefonino.
Gli piaceva il suo modo di fare
”Allora? Milano? ” chiese appena partiti
“Certo, ti sei portato qualcosa per la notte? Dormirai a casa mia. Ma non preoccuparti, mi piacciono le donne” aggiunse con fare sornione
“Peccato... ” rispose Antonio, fingendosi esageratamente contrariato. “Ma il capo mi aveva detto che avrei dormito in albergo”
“Se vuoi” e chiusero quel discorso.
Viaggiarono un paio d'ore parlando del più e del meno, ma soprattutto di musica. E Antonio non poté fare a meno di osservare la sua competenza in materia. Certe persone arrivano ad un'età in cui si ascolta Pavarotti e poco altro. Lui no, lui parlava di James Brown, Wilson Pickett, Bruce Springsteen, Beatles. Tirava fuori nomi, titoli, date, aneddoti. Sicché appena si ritrovarono all'autogrill, in piedi uno di fronte all'altro con un panino in mano prese il coraggio a due mani e gli fece la domanda che voleva fargli da un'ora circa.
“Mi scusi se sono indiscreto, ma lei di cosa si occupa?'”
“Di musica” rispose secco
“In che senso? ”
“Beh, diciamo che collaboro con alcune case discografiche. È per questo che sto andando a Milano”
Antonio stava per aprire bocca quando Evangelisti lo precedette
“Ma non farti illusioni, con i tempi che corrono mi occupo solo di quelli bravi”
Risalirono in macchina e per un po' non parlarono. Antonio pensò alla sua vita e alla sua musica, che poi erano la stessa cosa. Il suo più grosso cruccio era di non aver mai scritto un pezzo che si potesse definire accettabile. Oh certo, a fare le cover erano bravi, il loro sound essenziale fatto di chitarra-basso-batteria era una miscela perfetta di ritmo, virtuosismi, sudore, compattezza. Ma non avevano mai avuto la capacità di uscire dalla notorietà del quartiere. Di band come la loro ce n'erano mille, a Roma. E poi cambiavano nome ad ogni serata, chissà perché.
Arrivati a Milano si tuffarono nel traffico e Antonio diede prova della sua competenza in materia. Dietro le indicazioni del signor Evangelisti prese un paio di sensi unici, imboccò un viale e si fermò davanti ad un palazzo moderno, di quelli che ti fanno odiare l'architettura.
“Aspettami qui e se ti devi spostare avvisami al cellulare” lo congedò bruscamente prima di venir inghiottito dall'ammasso informe di vetro e cemento.
L'ufficio era sobrio ma nello stesso tempo emanava ricchezza da ogni mobile. Sulle pareti c'erano le foto di artisti famosi. Equipe 84, Ivan Graziani, Edoardo Bennato, La Formula Tre, Patty Pravo, Little Tony. La storia della musica di trenta anni prima. Sulla scrivania regnava un ordine perfetto ed anche se ci veniva raramente era ovvio che qualcuno puliva spesso. Evangelisti non si sedette sulla poltrona in pelle nera ma si incamminò verso la parete opposta dove faceva bella mostra una sua foto in cui se la rideva fianco a fianco con Mina. Quanti anni erano passati? Se lo chiedeva ogni volta e la risposta cambiava spesso, praticamente ogni anno. Spostò la foto ed apparve una piccola cassaforte. Beh, non è che avessero avuto una gran fantasia nel nasconderla. La aprì e ne prelevò un plico. La richiuse, mise il plico nella ventiquattrore ed uscì, non senza prima passare a salutare un paio di vecchi amici negli uffici a fianco.
Trovò Antonio dove lo aveva lasciato, intento ad ascoltare un brano degli Oasis. Piacevano anche a lui. Salì in macchina e disse
“Ora andiamo a casa mia, ceniamo e poi sei libero. Se vuoi rimanere mi fa piacere”
“Penso che rimarrò da lei, non mi va di affrontare un traffico sconosciuto. ”
“Bene, allora andiamo”
Sempre seguendo le sue indicazioni Antonio si destreggiò fra le auto e scoprì con sollievo che “casa sua” era a pochi isolati. Era una zona residenziale di Milano, quella dove abitano i ricchi. Quelli veri. Si fermarono davanti ad una villetta. Il dispositivo per spegnere gli allarmi rispose in pochi secondi, il cancello si aprì e si inoltrarono nel vialetto di ghiaia. La casa non era molto grande ma ben arredata, con un juke-box trasparente che faceva bella mostra di sé nel salotto. Evangelisti si dimostrò un ottimo cuoco e Antonio non fece complimenti, Spazzolò in tempo record tutto quello che gli metteva nel piatto bevendo dell'ottimo vino rosso. La conversazione partì dal viaggio pomeridiano, transitò per le previsioni sul viaggio di ritorno ed infine si stabilizzò sulla musica. Gruppi storici e meteore delle sette note. Finché il padrone di casa gli disse
“Ora se vuoi puoi andare a dormire. Ti mostro la camera degli ospiti, c'è anche un bel televisore con lettore dvd. I film sono pochi, ma belli”
“Ottimo” penso Antonio
Si salutarono separando la loro nottata. O almeno così credevano.
Ci sono film che vedresti e rivedresti di continuo. “The Blues Brothers” è uno di quelli. Ogni anno a Natale ti si ripresenta e se lo becchi facendo zapping lo guardi, non c'è niente da fare. Almeno fino alla prima pubblicità. Fu per questo che quando vide la copertina del dvd con Jake ed Elwood non seppe resistere. Si preparò una sigaretta truccata e cominciò a sorridere con la prima scena, quella di Belushi che usciva di prigione. Era arrivato alla scena in cui si ingozzano al ristorante quando gli parve di sentire della musica in sottofondo che nel film non aveva mai sentito. E sì che quel film lo conosceva a memoria ed avrebbe potuto interpretare ogni personaggio con relative battute. Incuriosito, mise il lettore in standby e tese l'orecchio. Era un pianoforte, senza alcun dubbio. E senza alcun dubbio non era un cd. Le melodie si alternavano a silenzi. Realizzò subito che era il signor Evangelisti. Si alzò, si diede una rassettata, si specchiò per controllare lo stato dei suoi occhi (“Cazzo, sono rossissimi” pensò) ed uscì dalla stanza. La musica proveniva dall'ultima stanza in fondo al corridoio, ma la porta era chiusa. Si appoggiò alla parete e rimase ad ascoltare. Era solo musica e nessuno cantava. In quel momento stava ascoltando una melodia che sembrava uno di quei jingle che si mettono in sottofondo alle pubblicità dei biscotti o dei detersivi. Ma a mano a mano che si ripeteva si aggiungevano note che la riempivano, la completavano, la rendevano qualcosa di... di... di bello, ecco. Antonio aveva orecchio per la musica e capì subito che quella melodia era basata su un giro di accordi apparentemente semplice ma in realtà composti da diminuite, settime più e dissonanze varie. Un po' come “The great gig in the sky” dei Pink Floyd. Cazzo, se era bella! Avrebbe voluto entrare per chiedere a Evangelisti di chi era quel pezzo e già si immaginava la scena
“Scusi dottore, di chi è? ”
“L'ho scritta io adesso”
“Ah sì sì ok e io sono Jimi Hendrix”
E mentre sorrideva pensando alla scena e alle sue varianti scivolò lentamente a sedere sul pavimento del corridoio e la schiena appoggiata alla parete. E il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi fu
“Più tabacco, porca puttana... ”
Quando riaprì gli occhi vide quello che non avrebbe mai voluto vedere. La faccia di Evangelisti vicino alla sua che lo scrutava con un misto di fastidio e simpatia.
“Cattivi vizi... ” sospirò scuotendo la testa
“No no, è che ho la pressione bassa ed ho avuto un mancamento”
“Sono stato in camera tua, potevi almeno aprire la finestra”
Quella frase ebbe il potere di risvegliarlo del tutto.
“Sono un cretino, mi scusi tanto”
Evangelisti lo aiutò a rialzarsi, o almeno ci provò perché appena gli passò le mani sotto le ascelle Antonio ebbe un moto di orgoglio e si tirò su immediatamente. Era lucido e voleva farglielo vedere.
“Ti va un caffè, o hai paura di non dormire? ”
“Ho già dormito abbastanza, credo” gli rispose capendo che non era arrabbiato. Si spostarono in cucina e mentre preparava la caffettiera si affrettò a giustificarsi.
“Comunque non si preoccupi, quando guido sono lucidissimo. Il lavoro è il lavoro, e su questo non transigo”
“Cosa ci facevi lì? ”
“Cercavo il bagno” rispose mentendo” Poi ho sentito il pianoforte e mi sono lasciato prendere. Quella musica era bellissima”
“Tanto bella che ti sei addormentato” ma lo disse sorridendo “Hai detto che suoni la chitarra, vero? ”
“Sì, ma non sono bravo come lei col pianoforte. Mi arrangio... ”
“Ti va di fare qualcosa insieme? ”
“Adesso? Cioè... voglio dire... ” Guardò l'orologio “Sono le undici e mezza e domani dobbiamo ripartire”
“Io non ho impegni urgenti per domani e se non li hai neanche tu... ”
Antonio pensò che l'unico impegno che aveva per il giorno seguente era andare da Mohammed alle otto e mezza di sera con 50 euro in mano e poi correre a casa a vedere la Roma giocare contro il Manchester. Ma poteva farcela ugualmente.
“Ha una chitarra per me? ”
Evangelisti lo guardò senza rispondergli e gli levò la tazzina ormai vuota da sotto il naso.
“Seguimi” disse con tono sornione.
Era quello che aveva sempre sognato. La stanza era grande, con le pareti bianche e senza finestre. In un angolo c'era una batteria. O meglio, si intuiva una batteria sotto un telo azzurro. Lungo una parete c'era una tastiera di ultima generazione. Nella parete opposta faceva bella mostra un mixer professionale ed una notevole quantità di diavolerie ad alta tecnologia. In un altra parete c'erano appese una mezza dozzina di chitarre. Fender e Gibson elettriche, una Takamine acustica ed un paio di marche a lui sconosciute ed addirittura una vecchia EKO 12 corde. Vide anche un paio di bassi elettrici. E poi spie, microfoni, amplificatori. Tutto delle migliori marche. E nel mezzo della stanza un Petrov a coda. Antonio si avvicinò alle chitarre.
“Le dispiace se provo questa? ”
“Scegli quella che vuoi, ma dammi del tu e chiamami Luciano. Quando si suona insieme ci si dà sempre del tu” rispose Evangelisti
Antonio prese delicatamente la Gibson nera, attaccò il jack, lo collegò all'amplificatore e lo accese. La accordò velocemente e, appena vide che l'altro si era sistemato al piano, accennò un timido blues.
Suonarono tutta la notte. Beatles, Rolling Stones, Prince, Clapton, Otis Redding. Ma la cosa che più lo colpì fu la padronanza di Evangelisti nel passare da uno strumento all'altro. Dopo il piano si sedette alla batteria e lo accompagnò in alcuni brani rock, compresa una “Whole lotta love” che durò una ventina di minuti. Poi prese il basso e lo accompagnò con grazia, spaziando fra Deep Purple e Vasco Rossi. Infine imbracciò l'acustica e insieme diedero vita a brani di Simon&Garfunkel, Donovan, Neil Young e John Denver. Antonio, che nel frattempo era passato alla EKO 12 corde, rimase impressionato dal suo modo di suonare. Non era un chitarrista ipertecnico e non eseguiva scale a velocità supersonica ma aveva un tocco “sporco” e nello stesso tempo preciso. Conosceva tutte le ritmiche di ogni brano e non perdeva mai il tempo. E poi aveva quel modo di muoversi... dove l'aveva già visto? Boh, magari da giovane aveva suonato in qualche gruppo.
Luciano lo guardava suonare. Antonio era bravo, si vedeva che aveva passione. Le sue dita scorrevano veloci sul manico, con precisione chirurgica. Ma aveva il gusto di “osare” che non tutti hanno ed ogni brano prendeva una vita diversa dall'originale. Quanti ce n'erano di chitarristi bravi? Quanti ne aveva visti? Con quanti aveva suonato? Tanti, troppi. Tutti stereotipati, tutti emuli di Van Halen, mai una nota fuori dagli schemi. Beh, a parte quelli con cui aveva diviso i suoi primi successi. Antonio aveva quel qualcosa che gli piaceva. Quando improvvisava lo faceva col gusto di creare qualcosa, trovava combinazioni di note sconosciute ai più. Sarebbe stato un ottimo jazzista, se solo avesse studiato un po'. E poi aveva una voce particolare, da vecchio bluesman di New Orleans. Non aveva acuti, non faceva gorgheggi e a volte sembrava che dovesse stonare da un momento all'altro. Ma non stonava mai, rimaneva sempre al limite. Come lui da giovane. Per questo gli piaceva.
La mattina seguente si prepararono per partire. Se si può chiamare mattina l'ora in cui la gente normale si siede a tavola per pranzare. Fecero una colazione leggera e veloce e ripartirono verso Roma. Durante il viaggio Antonio parlò della sua vita, del suo lavoro, delle donne che aveva avuto ma anche no. E del suo sogno, quello di scrivere un brano di successo. Così, tanto per vedere l'effetto che fa. Si trovava bene nella nuova dimensione in cui il “tu” lo aveva proiettato.
“Ma tu da giovane suonavi? ” chiese mordendosi la lingua per quel “da giovane”.
“Solo per divertimento, ho la fortuna di fare un lavoro che mi tiene sempre a contatto con l'ambiente musicale. ”
“Senti... non vorrei sembrarti indiscreto... ”
“Se vuoi farmi sentire qualcosa che hai scritto tu va bene. Ma nel mio lavoro non ho figli o figliastri. Quindi il mio giudizio, per quello che può valere, sarà il più obiettivo possibile. Ho scaffali pieni di cd di cantautori in erba che credono di aver composto un evergreen. Tutti preoccupati di mostrare una bella voce squillante, di suonare tonnellate di accordi, di scrivere un testo innovativo con arrangiamenti alla moda. E tutti che si dimenticano della melodia e delle frasi semplici. E così li scarto tutti. “
Antonio rifletté per parecchi chilometri su quelle parole e di quanto sembravano descrivere perfettamente il brano che voleva sottoporre alla sua attenzione. No, non era stata una buona idea.
Dopo aver preso lo snodo verso Firenze si fermarono al primo autogrill. Fecero il pieno, parcheggiarono e scesero avviandosi verso i bagni. Non si accorsero che ogni loro movimento veniva osservato da tre paia di occhi discreti. Entrarono, presero due panini e una birra a testa e si appoggiarono su una mensola sedendosi su due alti sgabelli. Antonio aveva appena assaggiato il sapore del prosciutto cotto quando uno strano movimento che vide attraverso la vetrata lo insospettì. All'esterno due figure stavano armeggiando intorno alla sua auto. Diede un colpo alla spalla di Luciano che a momenti lo fece cadere dallo sgabello e si catapultò all'esterno. Appena fatto un passo fuori della porta di vetro venne colpito da qualcosa che assomigliava ad un pugno. E lo era. Il dolore all'orecchio era lancinante e il suo equilibrio si prese qualche istante di ferie. Fece in tempo a vedere chi lo aveva colpito correre verso la rete di recinzione e scavalcarla agilmente. Stava già pensando a come dire a Brunone che gli avevano fregato l'auto quando si accorse che Luciano era uscito, evidentemente scavalcandolo mentre era a terra, urlando e roteando i pugni. Appena fu a tiro del più vicino lo colpi sulla nuca, talmente forte da slogarsi quasi il polso. Ma questo era grosso, molto grosso, e girandosi alla cieca lo stordì con un manrovescio tra naso e bocca che lo fece crollare a terra. Poi raggiunse velocemente i suoi due compari nei campi. Antonio si avvicinò barcollante a Luciano che perdeva un po' di sangue dal naso.
“Cazzo, che botta” ansimò più per la corsa che per il pugno ricevuto pochi secondi prima. ”Mi ha preso alla sprovvista. E tu come stai? ”
“Te lo dico appena mi rimetto in piedi”
Antonio lo aiutò a sollevarsi mentre un benzinaio, che aveva assistito a tutta la scena, si rese disponibile per una testimonianza.
“Non importa” disse Luciano “ la macchina non l'hanno presa e non sono neanche arrivati alle serrature. Loro non ci sono già più e perderemmo il resto della giornata per niente” e così dicendo cercò lo sguardo consenziente di Antonio. Figurarsi se anche lui aveva voglia di passare un paio d'ore in un ufficio della polizia stradale a firmare verbali... Per la seconda volta varcarono la soglia dei bagni ma stavolta per controllarsi ferite e contusioni varie. Antonio si lavò la faccia e notò una piccola escoriazione appena sopra l'orecchio. Niente di preoccupante, tutto sommato. Luciano invece aveva fermato la piccola emorragia con una salvietta di carta con la mano sana, mentre l'altra si stava gonfiando leggermente all'altezza del polso.
“Bel colpo! A momenti gli staccavi la testa”
“Già, e anche lui a me” Luciano non perdeva occasione per mostrarsi sarcastico, anche verso se stesso.
“Ma chi te l'ha fatto fare di rischiare così? Potevi beccarti una coltellata o qualcosa del genere. Male che andava tornavamo a casa in taxi, pagava l'assicurazione... ”
“Forse, ma comunque solo se c'è una denuncia. E avrebbe voluto dire tanto altro tempo e rotture di scatole” E aggiunse “E poi guarda che dentro l'auto ho cose di valore. Ho salvato qualche anno di lavoro”
“Dove hai imparato a tirare quelle sventole? ”
“Sono cresciuto per strada, come tutti. A volte ci si dimentica che anche un anziano è stato ragazzo”
Antonio annuì non potendo fare a meno di provare ammirazione per quell'uomo magro e brizzolato.
Ripartirono.
L'ufficio romano di Luciano (così aveva deciso di farsi chiamare da una decina d'anni) era grande e caotico. Niente foto commemorative alle pareti come in quello di Milano ma solo due enormi librerie dove erano ammassati libri, vecchi dischi in vinile, e tanti tanti cd. Gliene arrivavano da ogni parte dello stivale. Rock, funky, reggaeton, pop melodico, blues. Qualcosa di buono ogni tanto c'era, ma era quel buono che dopo poco tempo sa già di stantio. Tutti bravi, anzi bravini, ma in tanti anni che riceveva demo non era mai sobbalzato dalla poltrona. Possibile che non ci fosse proprio nessuno che facesse almeno lontanamente pensare al nuovo Modugno, o al nuovo Celentano, o Rino Gaetano? O al nuovo Vasco? “Sì, magari... ” pensò con una punta di amarezza. Nessuno capace di inventare qualcosa, e chi si trova bene con un genere lo porta avanti per tutta la carriera. L'unica cosa che non mancava erano le belle voci. In Italia il “bel canto” ha sempre avuto tanti esponenti. E anche tanti bravi musicisti. Ma il resto... Melodie piene di dissonanze forzate, messe lì tanto per far capire a chi ascolta che ci si è impegnati e non ci si è accontentati di un giro di DO. E i testi, poi... Chi è più capace di raccontare una storia in tre minuti? La poesia rude di “Scappo di casa” di Ivan Graziani. Le poche ma efficaci frasi di “Albachiara” di Vasco. La delicata storia di “Anna e Marco” di Dalla. Forse “Chicco e spillo” di Samuele Bersani si avvicinava a ciò che cercava, fra le ultime leve. O qualcosa sparso qua e là di Manuel Agnelli degli Afterhours. Per il resto un diluvio di banalità, di amori passati al tritacarne, di politica da bar. Non era questo che cercava, proprio no.
Antonio aveva una vecchia chitarra acustica. Era una sottomarca di un'imitazione di una finta Ovation. Ma aveva imparato che bastavano delle buone corde nuove per dargli anima. Quando aveva voglia di rilassarsi si metteva a gambe incrociate sul divano e cominciava ad arpeggiare lentamente. Gli piaceva suonare l'acustica, diceva sempre che una bella canzone è tale solo se rimane bella risuonata anche solo con una chitarra. Gli piaceva il suono morbido dei bassi alternato alle altre corde. Ed era affascinato dai “riff” che ti fanno identificare un brano dopo due secondi. Perché non era mai stato capace di tirarne fuori uno? A rifare quelli degli altri era un mago e aveva un orecchio che gli permetteva di non ricorrere a spartiti e tablature. Ma non era stato mai capace di scrivere qualcosa di suo. Oddio, c'era quel brano registrato mesi prima nella cantina di Cico e spedito un po' in giro. Ma più lo riascoltava più lo vedeva simile a ciò che un produttore scarterebbe a priori. Un giro di accordi standard, una melodia che te la dimentichi subito e un testo surreale che al confronto “Alice” di De Gregori sembrava chiara come un orario dei treni. Ora capiva perché non aveva mai ricevuto risposta. Chissà se anche Luciano l'aveva ricevuta ed ascoltata o se giaceva ancora in qualche scatolone in un sottoscala. Meglio non pensarci, stasera avevano le prove per quella serata al pub del venerdì sera. L'ultima volta che ci suonarono fu per San Valentino di tre anni prima. Litigarono col vecchio gestore per via delle bevute, sicuramente aveva messo nel conto qualche bicchiere in più e alla fine gli rimasero in tasca gli spicci per una pizza in centro. Ma si erano divertiti e avevano fatto divertire, e questa era la cosa più importante.
Luciano si era seduto ad un tavolo d'angolo con un suo amico. Una bottiglia di vino rosso piemontese, due bicchieri e patatine. Gli piaceva quel pub. Non c'era mai stato ma si capiva che era molto frequentato, tutti quelli che entravano salutavano qualcuno seduto ad un tavolo o al lavoro dietro al bancone. Il palco era abbastanza grande per farci stare un gruppo di 5-6 elementi ma i Doggystyle erano solo in tre. Il nome del gruppo per quella serata l'aveva scelto Franz “Prima che capiranno cosa vuol dire avremo già finito” chiosò allegramente mentre Antonio e Cico lo guardavano dubbiosi. Partirono subito col botto e “Sultan of swing” era l'ideale per caricare la gente. Poi “Roxanne” e “Born to run” fecero il resto.
L'amico di Luciano era un ometto che sembrava suo fratello, anche lui magro e canuto, e batteva il tempo col palmo sul tavolo.
“Allora Giulio che ne dici? ”
“Come tanti”
“No, dicevo la voce. Ti piace? ”
“È come me l'avevi descritta. È molto calda, ruvida, sporca. Il suo pezzo l'hai mai sentito? ”
“No, o almeno non credo. ”
Rimasero lì una mezz'oretta, pagarono ed uscirono tre canzoni prima della pausa.
Antonio sapeva che un bel disco va fatto decantare un po'. Appeno è finito il massimo che puoi fare è spegnere il lettore cd, accenderti una sigaretta e ricantartelo nella testa. “Breakfast in America” dei Supertramp era uno di questi. Chissà come succede che un gruppo di musicisti riesce a mettere insieme tante perle in così poco spazio. “Dischi-maiale”, li chiamava. Perché non si butta via niente. Una qualsiasi di quelle canzoni avrebbe fatto la fortuna sua e di quelli come lui. Perché a qualcuno era stato dato così tanto schifoso talento nel mettere insieme note e pause? Perché qualcuno appena si mette al piano o imbraccia la chitarra scrive “Summertime” o “Michelle” e lui no? Gli sarebbe bastata anche la hit di una stagione che poi nel tempo tutti ricordano. Gli andava bene anche, che so, una qualsiasi “Feeling” o “My sharona” anche se pochi si ricordano di Morris Albert o dei Knack. Ma almeno loro hanno lasciato un segno, no?
Passarono le settimane, la solita vita. Un giorno che doveva accompagnare Luciano a Roma prese il coraggio a due mani e con nonchalance mise su il cd con la canzone che aveva scritto. Dopo pochi secondi Luciano riconobbe la sua voce e gli chiese
“È il tuo pezzo? ”
“Sì, volevo che lo ascoltassi”
Mentre guidava sbirciò Luciano che nel frattempo aveva chiuso gli occhi e pareva assorto nell'ascolto. Quando finì gli chiese
“Allora, cosa ne pensi? ”
“Non vincerà mai il Festivalbar”
“No, dài dimmi la verità”
“Vuoi la verità? Non mi piace. ”
Antonio guidò in silenzio per alcuni chilometri finché Luciano improvvisamente esclamò
“Alla fine del viale c'è un bar, fermati che beviamo qualcosa”
Dopo cinque minuti erano seduti davanti a due birre. Antonio era deluso ma non voleva mostrarlo quindi avviò un discorso sul sedere della barista. Luciano lo guardava con aria sorniona finché disse
“Sei deluso, eh? ”
“Di cosa? ”
“Che non mi sia piaciuto il tuo brano”
“E perché dovrei? ”
“Perché sono un produttore. Perché posso decidere la carriera di un artista, il suo futuro. Perché quando porto qualcuno in una casa discografica esco con un contratto firmato. Ti basta? ”
“Senti Luciano a me non interessa poi così tanto il tuo parere. Io suono e canto per il gusto di farlo, se poi ci scappa dell'altro ben venga ma non me ne faccio una malattia. E tu in fondo chi sei per dire se una canzone è bella o brutta? ”
Luciano sorrise e si avviò alla cassa. Pagò e uscirono.
La sera seguente il cellulare di Antonio squillò verso le nove. Era Luciano. Per un momento pensò di non rispondere, era troppo arrabbiato. Anzi, più che arrabbiato era deluso. Ma rispose, quell'uomo aveva un fascino naturale per il quale non poteva essere odiato.
“Ué Luciano”
“Sei a casa? ”
“Sì, stasera non esco”
“Senti, sono qui in centro a Roma. Se mi dici dove abiti prendo un taxi e faccio un salto. Sempre che tu non abbia altro di meglio da fare”
Avrebbe voluto rispondergli che aveva un session con gli U2 ma rinunciò all'infelice battuta. Gli diede il suo indirizzo, calcolò che ci avrebbe messo una ventina di minuti e impegnò quel tempo per sistemare il solito casino dei single.
Quando sentì suonare il campanello ne fu in qualche modo felice. Aprì il portone e uscì sul pianerottolo.
“Sicuro che non disturbo? ”
“No no figurati e poi oggi sono di riposo. Ma tu non torni a casa tua? ”
“No stasera resto a Roma. Non te l'ho mai detto ma ho un monolocale in centro. Non ci vado quasi mai”
“E come mai qui, a casa mia intendo”
“È per via della discussione di ieri, mi dispiace”
“E di cosa scusa? ”
“Forse sono stato troppo duro. Vedi, tu mi hai chiesto chi sono io per dirti quelle cose ma io non ti ho detto tutta la verità. ”
Antonio trasalì e con circospezione chiese
“In che senso? Non sei un produttore? ”
“No... cioè sì... insomma non solo. Ascolta, hai una chitarra in casa immagino”
“Certo che sì”
E così dicendo si alzò ed andò a prendere la sottomarca dell'imitazione della finta Ovation..
Luciano la imbracciò, fece il gesto istintivo di accordarla ma si accorse subito che non ce n'era bisogno.
Attaccò con “Fiori rosa fiori di pesco”. Dopo pochi secondi Antonio ebbe un attacco di panico. Alla fine della canzone la sua salivazione era azzerata. Poi Luciano cantò in successione “Il tempo di morire”, “Il mio canto libero” e “Amarsi un pò”. A quel punto si sentì quasi male. Quella voce. Non era possibile. Non era possibile. NON ERA POSSIBILE.
Non so se avete presente Trevor Berbick. Era quel pugile nero grande grosso e cattivo la cui mascella si schiantò contro il destro di un giovane Mike Tyson. Per tre volte cercò di rialzarsi barcollando incrociando le gambe, con le braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso a cercare inutilmente l'angolo amico troppo lontano. E per tre volte ricadde al tappeto come schiacciato da una forza di gravità troppo forte anche per lui. Ecco come si sentiva Antonio in quel momento. Aveva appena capito che l'anziano signore con cui aveva passato alcuni momenti della sua vita e che si faceva chiamare Luciano Evangelisti in realtà era Lucio Battisti. Si sentiva uno stupido. Crederci era da stupidi, non poteva essere. Non crederci lo era altrettanto, poteva essere. In ogni caso si sentiva uno stupido. Come tutti conosceva le leggende che circolano sulla morte di Elvis Presley, di Syd Barrett, di Jim Morrison. Ma cosa c'entrava Battisti?
“Perché? ” chiese con voce più ferma di quello che si aspettava
“Perché te l'ho detto? ”
“Anche. Ma soprattutto perché fingersi... morto? ”
“Perché volevo una vita diversa. Mi era stancato di vivere isolato, in un mondo che non mi apparteneva più. Il mondo delle star che non vanno mai a fare la spesa o in posta a fare un versamento. Non riuscivo più a fare niente di buono, la mia vena si era esaurita. E ho capito che era perché ero uscito dalla realtà. Vedi, io vengo da un paesino dove ci si conosce tutti e anche quando ho vissuto in città ero sempre in mezzo alla gente. Poi mi sono stancato e mi sono isolato. Da tutto e da tutti. E questo mi ha inaridito. Ma tornare indietro come Lucio Battisti sarebbe stato impossibile. Ti immagini i media? Non sarei più potuto tornare alla vita di prima. Sarebbe stato impossibile andare a mangiare una pizza, o allo stadio. O andare al cinema. Nel periodo di “isolamento” una volta uscii per andare in un negozio a comprare dei cd. Ne uscii dopo due ore e mezza passate a fare foto e firmare autografi. La gente non mi vedeva più e quindi era un evento.
“Beh, a me non farebbe schifo l'affetto della gente”
“Sì, è bello ma ormai ero diventato una leggenda. Lucio Battisti, la primula rossa. L'introvabile. I giornali si contendevano a suon di milioni una mia foto in giardino fatta col teleobiettivo, anche sfocata. Ti immagini ritornare “sulla piazza”? L'unico modo per farlo era attraverso un'altra persona. Ho fatto una piccola modifica ai miei lineamenti. Labbra, zigomi e taglio degli occhi. I capelli mi stavano già diventando bianchi, e il tempo ha fatto il resto. E Giulio mi ha suggerito il nome nuovo. Lucio Battisti. Luciano Evangelisti. A lui è sempre piaciuto scherzare con le parole. ”
“Giulio? Chi è? ”
“Giulio Rapetti. Mogol. Il mio paroliere”
“Chi è che lo sa, oltre a me? ”
“Solo chi lo deve sapere. I parenti stretti e qualche amico fidato. Tra cui il chirurgo plastico” aggiunse annullando la domanda di Antonio.
“E chi ti assicura che io taccia? ”
“Nessuno, ma mi fido. E poi c'è un'altra cosa che devi sapere. Sto male, molto male. La malattia ce l'avevo veramente ed ora dicono i dottori che mi è rimasto poco. Troppo poco”
Così dicendo si alzò e si avviò verso la porta.
“Ora vado a dormire, ci vediamo a breve”
Uscì lasciando Antonio alle prese col doppio KO.
“In fondo tutto questo talento me lo sono anche meritato”
Era passato quasi un mese e a questo pensava Lucio mentre, verso le dieci di sera, riponeva il telecomando della TV sul comodino di ferro. Aveva sempre pensato che ognuno di noi nasce con un determinato talento nel fare qualcosa. Dipingere, guidare, recitare, vendere. Lui aveva avuto il talento nello scrivere canzoni. Ma il talento è nulla senza la tenacia. Pensava a Django Reinhardt. Il destino gli aveva assegnato dalla nascita una malformazione alla mano sinistra ma quando per la prima volta si ritrovò una chitarra fra le mani non si lasciò vincere dallo sconforto di poterla suonare con due sole dita, e diventò uno dei più grandi chitarristi di sempre. Come anche Garrincha, l'ala del grande Brasile di Pelè. Garrincha aveva una gamba più corta di alcuni centimetri ma riuscì a trasformare l'handicap della zoppia in una micidiale arma contro i difensori che quando lo vedevano partire non sapevano mai da che parte sarebbe andato. Il tutto condito da una tecnica straordinaria. Anche Lucio aveva avuto una “malformazione” agli inizi delle carriera. Quelli che gli dicevano che non sapeva cantare, e nemmeno suonare la chitarra. Sì, scriveva belle canzoni ma se le cantavano altri era meglio. Ma lui sapeva che non era così. Che la sua voce era perfetta per le sue canzoni e che il tempo degli acuti e dei gorgheggi era finito. E che poteva suonare la chitarra meglio di chiunque altro, nelle sue canzoni. Certo, avrebbe potuto smettere di combattere contro i mulini a vento e rifugiarsi nel più comodo lavoro di autore. Ma lui sapeva di essere il Re.
Pensava che in fondo aveva avuto una bella vita. Si era imposto con quello che gli piaceva di più fare, chi può dire altrettanto? Aveva conosciuto gente importante e spesso, vicino a loro, quello importante era lui. Dopo la sua prima morte aveva toccato con mano tutto l'amore che la gente aveva per lui. Per il decennale della “scomparsa” era stato in piazza, a Roma, per un concerto-tributo in suo onore e si era mischiato alla folla, irriconoscibile. Si era messo a cantare a squarciagola il ritornello di “Anna” fianco a fianco ad una donna sulla cinquantina con figlia accanto, che le sapeva tutte. E mentre guardava i suoi amici che si alternavano sul palco e la gente che cantava “Emozioni” si sentì felice come non lo era più stato da anni. Avrebbe voluto salire sul palco, avrebbe voluto gridare “Eccomi, sono qui! ” ma si limitò a mandar giù quel piacevole groppo alla gola.
“Sì, in fondo tutto questo talento me lo sono proprio meritato” pensò di nuovo mentre il silenzio pesante dell'ospedale gli aumentava a dismisura i dolori in tutto il corpo.
Lucio morì quella notte.
Il notaio gli aveva mandato la raccomandata con ricevuta di ritorno ma lo aveva anche formalmente avvisato per telefono. Doveva presentarsi nel suo ufficio quella mattina alle dieci in punto. Mentre cercava il parcheggio si chiedeva cosa avesse potuto lasciargli Lucio di così importante da essere affidato ad un notaio. Forse la Gibson nera. Magari. Quando morì seppe della sua morte solo perché Brunone glielo riferì avendolo saputo a sua volta dalla persona che gli rispose al cellulare. Doveva consegnargli una fattura e voleva sapere alcuni dati. “Il signor Luciano è morto” gli disse una voce femminile. Del resto lui da quella sera non aveva più avuto il coraggio di cercarlo. Come cazzo fai a telefonare a Lucio Battisti che dovrebbe essere morto da una decina d'anni? È assurdo. Ogni volta arrivava fino al punto di visualizzare il nome sul display ma poi ci rinunciava. Solo una volta c'era riuscito ma tirò un sospiro di sollievo quando sentì il disco della segreteria telefonica. Ora sapeva perché era “irraggiungibile”...
Quando entrò nell'ufficio il notaio si alzò e gli si fece incontro stringendogli la mano con vigore.
“Lucio era un mio amico di infanzia. Ero uno dei pochissimi a sapere sempre tutto di lui e ha voluto che la convocassi per consegnarle una cosa. Si accomodi”
Si sedettero e il notaio gli consegnò un plico sigillato.
“È per me? ”
“Certo”
“E cosa contiene? ”
”Non lo so. O meglio, il notaio non lo sa ma l'amico di Lucio sì”
“Scusi ma è la prima volta che entro in uno studio notarile. Cosa devo fare? Lo devo aprire qua o lo devo portare a casa? ”
Il notaio si alzò, gli sorrise e gentilmente lo accompagnò fino al corridoio. Quando arrivò all'uscita lo chiamò e gli disse “Mi raccomando, ne faccia buon uso. ”
. Era tornato a casa con la velocità del fulmine. Non sapeva neanche lui come avesse potuto resistere dall'aprire il plico mentre guidava ma ora era finalmente arrivato a casa. Si accese una sigaretta, si sdraiò sul divano e lo aprì. Dentro c'era un CD e una lettera.
“Ciao Antonio, chiaramente se leggi queste righe vuol dire che stavolta sono morto per davvero. Ti lascio questo CD. Dentro ci sono i miei ultimi anni di lavoro. Ho scritto 33 canzoni che volevo far uscire in un doppio album ma la malattia mi ha fregato. Così ho pensato di regalartele. Sono tue. Ora ti chiederai perché. E la risposta è semplice. Perché tu hai quel qualcosa in più degli altri, come persona e come musicista ed hai tutta la mia stima. Se facessi cantare queste canzoni ad un artista affermato le canterebbe a modo suo ma tu no, tu le canterai “alla Battisti”. Lo so. Ovviamente nessuno saprà mai che le ho scritte io e non le ho neanche registrate alla SIAE: Sono tue. Ti consiglio di non utilizzarle tutte in una volta. Dovresti fare un CD doppio e di questi tempi un giovane emergente non può permetterselo. Io sì ma questo è un altro discorso. E già che ci sei infilaci anche il tuo pezzo che mi hai fatto ascoltare in macchina, non è mica così male.
Lucio. ”
Soffocando l'emozione prese il CD e lo infilò nel lettore. Spense la luce, si accese una sigaretta al buio e premette “play” sul telecomando. Quando partì la prima canzone sorrise. Era quella che aveva ascoltato a casa di Lucio a Milano, appoggiato al muro del corridoio. Ed era stupenda.
Ci aveva messo quattro anni. Era uscito il primo cd e in poco tempo era arrivato ai vertici delle classifiche. In due anni era stato sviscerato dalle radio, ogni brano era stato trasmesso. Anche quello che aveva scritto veramente lui. Anzi, era la canzone con cui aprivano i concerti ed ogni volta era un delirio. Era diventato un fenomeno di massa ed era passato in TV. Da Fazio, da Costanzo, dalla Bignardi, persino da Marzullo. Le cover-band avevano inserito le “sue” canzoni nel repertorio ed il ora il direttore della banca lo chiamava solo per proporgli vantaggiosi investimenti. Poi era uscito il secondo cd e il successo era stato anche maggiore. Ci aveva messo quattro anni anche a far capire a Franz e a Cico che in sala prove andava bene, ma che sul palco bisognava salire lucidi. Per rispetto di chi ti viene ad ascoltare, diceva. Ma in realtà era per rispetto verso Lucio. Anche a questo pensava mentre in migliaia lo stavano aspettando al buio con le loro collanine fosforescenti e mentre saliva quei gradini che lo conducevano verso la folla. Ci aveva messo quattro anni ed ora stava sudando freddo pensando che stava per esibirsi in quell'immenso stadio dove anni prima aveva visto suonare Vasco. Chissà se fra la folla avrebbe intravisto un signore anziano con i capelli bianchi che cantava le “sue” canzoni. Tirò un sospiro e si immerse nel buio del palco.
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