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Anestesia con l’A maiuscola
Camminavo di fretta nel corridoio verso la sala operatoria, arrabbiato e risentito quel pomeriggio, rimuginando tra me e me “voglio proprio vedere come andrà a finire " e " adesso gli dico io cosa farò!". Entrato in spogliatoio mi cambiai in fretta. Indossai la divisa operatoria senza dire una parola ed entrai dentro in sala.
Il paziente era già sul letto operatorio, disteso e in attesa; il chirurgo stava preparando tutto l'occorrente per quel delicato intervento chirurgico al polmone. Si trattava di una infezione da echinococco, malattia parassitaria diffusa tra i pastori karimojong, trasmessa dagli ovini e presente anche in Italia, tra i pastori sardi.
Stimavo il chirurgo, un bravo operatore, ben preparato da un'ottima scuola chirurgica in Africa, con un grandissimo numero di interventi alle spalle.
Non mi andava, però, proprio giù, che m’imponesse quale anestesia dovessi fare. Egli era convinto, dopo anni d'Africa, che l'anestesia generale si potesse fare sempre e solo con un farmaco, la Ketamina, con il paziente in respiro spontaneo, non attaccato al respiratore, e ripeteva che così aveva imparato in Africa e non vedeva la ragione di cambiare.
Ero deciso e gli dissi, tutto d'un fiato, che quel pomeriggio non avrei operato assolutamente con lui, perché sarebbe stato assurdo, in quel delicato intervento, non impiegare una buona e più sicura anestesia generale. Gli dissi, ancora, che sarei rimasto in sala operatoria, pronto soltanto a salvare il paziente in caso di necessità.
Quasi neanche mi badò, mentre parlavo e allora, visto il mio rifiuto di operare con lui, fece lavare un altro, al mio posto, perché lo aiutasse. Pensavo tra me: “È impossibile fargli cambiare idea tanto è cocciuto e testardo”.
L'intervento iniziò dopo la somministrazione della solita Ketamina ed io, in sala, mi detti subito da fare per controllare tutta l'attrezzatura del respiratore e il numeroso armamentario necessario per praticare un'anestesia generale.
Tutta quell’attrezzatura, disponibile in sala, era proprio vecchiotta, apparentemente funzionante, ma mai utilizzata prima, poiché, a Matany, non aveva mai lavorato un anestesista, ma solo chirurghi e suore infermiere, di buona volontà, che si tramandavano semplici tecniche di anestesia.
Niente di strano, perciò, che anche con la mia presenza di giovane anestesista in formazione, in quei primi mesi dal mio arrivo, l'anestesia continuasse come sempre si era fatto.
Quando, durante l'intervento, iniziò la fase delicata dell'apertura del torace, diedi un'ultima occhiata ai farmaci che avevo preparato e messo in ordine sopra al respiratore; ero tutto teso, contratto come un centometrista pronto a scattare sui blocchi di partenza allo sparo della pistola.
Passò meno di un minuto e i due chirurghi, in grande agitazione, si affannarono a guardare al di là del telo, che separa il campo operatorio, verso la testa del paziente. Il pastore karimojong era in arresto respiratorio!
I miei muscoli, tesi fino allo spasimo, scattarono come una molla e saltai verso il paziente per rianimarlo ed impadronirmi della gestione di quel povero disgraziato, altrimenti condannato da un’anestesia troppo rischiosa e inadeguata.
Fu l'inizio, a Matany, dell'Anestesia generale con la A maiuscola, sebbene eseguita con farmaci più vecchi rispetto a quelli utilizzati in Europa e con un’attrezzatura molto semplice. Un salto di qualità, doveroso e necessario, era stato finalmente fatto in quel giorno!
Fui proprio molto soddisfatto perché l'intervento ebbe il successo sperato e il respiratore aveva funzionato a dovere, nonostante fosse rimasto fermo e impolverato per molti anni, in un angolo della sala operatoria.
Quell’intervento mi aprì, finalmente, uno spazio importante nell'Ospedale dove sapevo di poter dare un buon contributo e questo mio ruolo non fu più messo in discussione.
Oltre al respiratore, in un altro angolo della sala operatoria, coperto da un telo e posto su un carrello, c'era un vecchissimo apparecchio d’anestesia, costituito da un vaporizzatore per etere, che assomigliava proprio ad una grande pentola a pressione, e una concertina, una sorta di mantice a mano, per ventilare il paziente.
Quell’apparecchio m’incuriosiva tanto ogni volta che entravo in sala operatoria; catturava la mia attenzione e toccandolo con meraviglia giravo la leva e mi domandavo sempre: “Chissà se funziona?! Come mi piacerebbe utilizzarla! ”.
Quell’apparecchio era sempre stato lì, vale a dire da quando era stata costruita, quasi vent'anni prima, la sala operatoria, e mai utilizzato. Rappresentava per me l'antichità, la preistoria dell'anestesia, e l’ammirazione per i pionieri di quell'arte medica.
Quell'apparecchiatura per anestesia con etere, era stata impiegata negli anni sessanta in Vietnam, dagli americani negli ospedali da campo, mentre l'antico etere rappresentava, per noi anestesisti, il caposaldo degli anestetici, di cui si sapeva proprio tutto, in particolare era l'unico anestetico che produceva degli affetti clinici, così evidenti, da permettere di conoscere sempre il livello o la profondità dell'anestesia. Era stato abbandonato, però, definitivamente alla fine degli anni sessanta per altri più potenti anestetici e per il pericolo potenziale d’esplosione, se utilizzato con ossigeno o un altro comune gas anestetico, il protossido d'azoto.
Continuai per molti mesi, mentre operavo o facevo anestesia, a sognare di poter utilizzare anche quell’apparecchio e mi misi a leggere tutto quello che trovai nella piccola biblioteca della sala operatoria. Mi fu soprattutto d'aiuto un libro di anestesia, Primary Anaesthesia, che avevo comprato a Padova e non solo mi fu indispensabile, vista la mia limitata esperienza, ma mi diede la possibilità di esplorare, in quegli anni d’Africa, con successo, vasti campi dell'anestesia.
Quando iniziai a Matany l’anestesia generale, impiegando il respiratore automatico, mi accorsi subito che molti farmaci presenti in buona quantità, erano scaduti da alcuni anni.
Il successo del primo intervento, però, mi convinse che potevo ancora utilizzare quelle abbondanti scorte prima di ordinarne di nuovi, data la ristrettezza economica in cui si trovava l'Ospedale.
Cominciai inoltre ad insegnare anche agli altri medici i rudimenti dell'anestesia, come loro insegnavano a me la chirurgia, perché, dopo alcuni mesi, sarei partito per una vacanza e mi dispiaceva che fosse abbandonata una tecnica da me introdotta e che funzionava bene.
Un pomeriggio di una domenica, per fortuna non di guardia, ero, con molti infermieri, tutto preso dall'organizzazione di una partita di pallavolo.
Arrivava una squadra dalla cittadina di Moroto e volevamo, noi di Matany, fare bella figura preparando a fine partita un simpatico rinfresco in onore degli ospiti, ed ero veramente indaffarato in mille cose che neanche avevo il tempo per pensare che di lì a poco sarei entrato in campo come capitano della squadra.
Ero nella scuola infermieri con i compagni di squadra e le infermiere, disponibilissime quest’ultime ad aiutare per l'arrivo dalla città di molti ragazzi, quando il direttore dell'Ospedale mi venne a riferire che, presto in sala operatoria, sarebbe iniziato un intervento chirurgico importante, un'urgenza, e c'era bisogno di me per fare una buona anestesia.
Non potevo certo tirarmi indietro da quell’urgenza, ma sapevo che la squadra di pallavolo, senza di me, non sarebbe stata certo competitiva.
Si giocava in casa e il pubblico, solitamente molto numeroso, già cominciava ad arrivare e bisognava mettercela tutta per vincere.
Decisi di dare una mano in sala operatoria, non tutte e due, e di giocare anche la partita.
Andai in sala operatoria, preparai il paziente e, quando fu tutto pronto, iniziai l'anestesia. Ottenni, per tutta la durata dell'intervento, che si preannunciava tra l’altro lungo, la presenza di un altro medico, che così avrebbe fatto esperienza, e di un’allieva infermiera che mi venisse a chiamare in campo, in caso di necessità.
Lasciai quindi la sala operatoria, andai a cambiarmi ed iniziammo subito la partita.
Il gioco era nervoso, caratterizzato da errori da parte di tutti e io urlavo continuamente, arrabbiato, rimproverando i miei compagni di scarsa concentrazione, di non stare agli schemi preparati, ma anch'io non giravo come al solito e facevo proprio pochi punti.
Perdemmo il primo set in poco tempo.
In panchina avevo portato il camice, lo indossai e corsi in sala operatoria per vedere come si arrangiavano senza di me. Tutto procedeva bene; iniettai alcuni farmaci, diedi qualche consiglio e corsi di nuovo al campo.
Il secondo set era iniziato da poco e sostituii subito il giocatore entrato al mio posto.
Ogni partita era una festa e il pubblico, veramente tifoso della nostra squadra, ci sosteneva con un entusiasmo che mi dava tanta grinta.
La partita prese finalmente la piega giusta: pochi errori, buona concentrazione di tutti e qualche punto ben fatto che lasciava gli avversari sconcertati. Il secondo set era nostro!
Mi accorsi che l'infermiera della sala operatoria era venuta a chiamarmi. Lasciai il posto ancora una volta. Presi il camice e la seguii di corsa.
Entrai in sala sudatissimo e ansimante, con la divisa da gioco, le scarpe da ginnastica e il camice aperto appena infilato. Il chirurgo mi disse che il respiratore sembrava non funzionare bene; controllai tutto e risolsi il piccolo problema. Pensavo tra me e me che, per fortuna, tutto procedeva bene e chi mi sostituiva in sala stava facendo bene il suo lavoro.
Vincemmo a fatica, forse troppa, vista la qualità degli avversari che avevamo di fronte e finì bene anche l'intervento chirurgico.
La festa del dopo partita, quindi, fu per me doppia: ero proprio felice! Il ricevimento era stato preparato con cura ed io, dopo tutta la tensione provata in quelle ore, mi sentivo rilassato.
Il ricevimento dava una gran valenza alla partita; mi ricordava tanto il famoso terzo tempo, il dopo partita nel rugby, quando, pochi anni prima, giocavo a Padova con il Petrarca.
Anche lì a Matany ero convinto che l'accoglienza degli avversari fosse molto importante perché, seppur nemici in campo, dopo la partita tutto cambia: è l'occasione per intrecciare relazioni, conoscersi, organizzare altri incontri.
Passavano i mesi tra l’intenso lavoro del reparto, gli ambulatori e la sala operatoria, ma l’idea di impiegare l’etere per l'anestesia e soprattutto di utilizzare quell’apparecchio EMO, mi allettava sempre.
Ero venuto a sapere, infatti, che Mauro, un altro medico volontario, pure lui specializzando in anestesia come me, aveva iniziato da poco ad utilizzare l’etere nel suo Ospedale, unica alternativa alla ketamina e in mancanza di un respiratore, che io, invece, a Matany avevo!
Mauro lavorava ad Angal nell'ovest dell'Uganda, vicino al Nilo, ad oltre 800 chilometri di distanza dal mio Ospedale, due o tre giorni di viaggio, per le condizioni delle strade e per la guerriglia, a quel tempo, molto accanita nel centro nord dell’Uganda.
Mi sarebbe tanto piaciuto andare a fare un'esperienza dall'altra parte dell'Uganda, presso un'altra popolazione, con un'altra lingua, un'altra cultura e, soprattutto, avrei avuto l’occasione di imparare ad utilizzare l’etere!
Come avrei fatto però a convincere il direttore a farmi partire? Mi sembrava un’impresa impossibile.
Un giorno, però, arrivò l'occasione giusta e mi bastò solo insistere un po’ per ottenere il suo benestare.
Una mattina, infatti, come succedeva spesso, il mio lavoro tra reparto e ambulatorio venne interrotto da un'urgenza. Quella volta la faccenda era particolarmente seria ed era la prima volta che mi ci trovavo di fronte.
Una povera donna, a fine gravidanza, era stata portata all'Ospedale, da molto lontano, con il feto morto nel grembo, ormai da molti giorni. Dopo la visita mi accorsi che la posizione del feto era anomala e non sarebbe potuto uscire con un semplice parto indotto con farmaci opportuni.
Non sapevo cosa altro fare se non il taglio cesareo e andai a chiedere aiuto al chirurgo, impegnato in quel momento in sala operatoria con un’altra urgenza.
Mi risuonano ancora nelle orecchie le parole che mi disse, con disprezzo, a proposito della mia scarsa capacità e conoscenza in ostetricia.
Mi ordinò lo stesso cosa dovevo fare e tornai rapidamente in sala parto per preparare tutta la strumentazione ed eseguire l’estrazione del feto morto, perché il cesareo era improponibile ad una donna karimojong alla sua prima gravidanza.
Fu questa, però, l’occasione per ripetere al mio capo che, in quell'Ospedale, dato il bassissimo numero di parti, il ridotto numero di tagli cesarei e di complicanze ostetriche, la mia preparazione in ostetricia era proprio scarsa. Inoltre, quasi un anno prima, il mio periodo di tirocinio nell'Ospedale di Kalongo, dove tutti i medici italiani transitavano per essere ben preparati ad affrontare le principali emergenze, era saltato a causa della guerriglia.
Riuscii a convincerlo ed ottenni di andare proprio ad Angal, dove si era intanto spostata, da alcuni mesi, una scuola per ostetriche a causa della guerra, e dove avrei potuto trovare qualcuno ben preparato che mi avrebbe insegnato bene l’ostetricia.
Ad Angal, poi, avrei lavorato anche con Mauro, il mio collega ed amico anestesista: mi si prospettava una nuova avventura ed ero convinto che non poteva esserci una combinazione migliore per imparare l'ostetricia e far anestesia con etere come da tempo sognavo.
Avevo con me la cassetta degli attrezzi, che fratel Carlo mi aveva prestato quel pomeriggio, e mi stavo dirigendo verso la sala operatoria. Fremevo dall'eccitazione per il lavoro che stavo per fare e speravo che nessuno mi disturbasse in quelle due ore che mi ero ritagliato, prima di riprendere, alle cinque, il lavoro nel reparto.
In sala tolsi il panno che riparava dalla polvere il vecchio vaporizzatore EMO per etere e mi fermai a contemplare quell'agognato strumento di anestesia. Di lì a poco avrei saputo se funzionava e se potevo utilizzarlo in anestesia su un paziente.
Cominciai, con la brugola, a svitare tutta la serie di bulloni che ermeticamente chiudevano la parte superiore del vaporizzatore, come se dovessi aprire il coperchio di una pentola a pressione, perfettamente chiuso con bulloni.
Avevo memorizzato bene tutta la procedura, tante erano le volte che l'avevo ripetuta a mente.
Era stato ad Angal, nell’ovest dell'Uganda e vicino al confine con il Congo, che qualche settimana prima, con Mauro, avevo aperto un vaporizzatore per etere per capire esattamente come funzionasse, carpirne i segreti e poi impiegarlo efficacemente in anestesia in sala operatoria.
Mauro stava lavorando sulla tesi di specialità in anestesia e ormai sapeva tutto sull'etere, almeno così mi sembrava in quei giorni, e aveva inoltre costruito, con lunghi tubi corrugati, un sistema d’evacuazione dei gas anestetici, per non inquinare l'ambiente della sala operatoria e minimizzare i rischi di esplosione, permettendo al chirurgo di lavorare senza pericolo con l'elettrobisturi.
Era stata per me un'esperienza magnifica e tanto desiderata.
Con Mauro avevamo studiato, discusso e rivisto tutte le procedure, tutte le difficoltà e le problematiche che si sarebbero potute presentare durante tutte le fasi dell'anestesia, dall'induzione al risveglio. Registravamo nella cartellina di anestesia tutti parametri vitali del paziente, per poi confrontarli e discuterli insieme.
Era un'anestesia che ci appariva magnifica, innanzitutto per il paziente che, durante l'anestesia, dormiva profondamente in sicurezza, respirando etere ed aria, spontaneamente, attraverso un tubo, ben tollerato, posto in trachea; poi per il chirurgo, convinto di operare in un addome completamente rilassato e, infine, per noi anestesisti che ottenevamo un'ottima stabilità dei parametri cardiocircolatori. Anche il risveglio, seppur molto lento, era completamente indolore per moltissime ore, e ci permetteva, comunque, di mandare l'operato in reparto, a fine intervento, in buona sicurezza.
Davanti a quel vaporizzatore, con la brugola in mano, intento a controllare i numerosissimi pezzi che via via svitavo, ero eccitato e impaziente, con la paura di perdere, per la fretta, qualche piccola parte. Cercavo di dominarmi, ricordando come con Mauro, con calma, attenzione e abilità, avessimo fatto ogni cosa.
Il periodo ad Angal, un mese in tutto, era passato, purtroppo, in fretta. Ero stato proprio bene, come se fosse stata una splendida vacanza.
Ad Angal non avevo la responsabilità di nessun reparto, ero solo d’aiuto, collaboravo senza lo stress a cui ero abituato a Matany.
Ogni mattina, dopo il giro pazienti in reparto, per discutere con gli altri medici i casi più difficili, andavo in ostetricia dove le docenti della scuola ostetriche mi attendevano: con loro facevo le visite alle gravide e alle puerpere.
Dalle 10. 30 alle 11. 30 restavo invece solo con suor Caterina, la Capo Ostetrica e Direttrice della scuola, che aveva organizzato, per me soltanto, ogni giorno, una lezione di ostetricia.
Devo a suor Caterina moltissimo, non solo per l'accoglienza, l’attenzione massima che mi serbava ogni giorno, ma anche perché mi trasmetteva quella passione, quella lunga esperienza in sala parto, il controllo della situazione in ogni circostanza, soprattutto nelle emergenze, che mi hanno permesso di lavorare con profitto, una volta tornato nell'Ospedale di Matany.
Ricordo ancora, con profonda stima, come suor Caterina avesse costruito un simulatore del canale da parto, con uno scheletro del bacino, ricoperto da lei con stoffa, utilizzando, inoltre, una bambola ben sagomata che riproduceva, veramente molto bene, il feto. Come se fossi stato alla consolle di un video giochi, ed era solo l'aprile del 1988, facevo pratica, in quell'ultima settimana di lezione, a quel simulatore.
Suor Caterina mi bendava gli occhi e faceva scendere la bambola, ogni volta in una posizione diversa, lungo il canale da parto, e, sempre, dovevo descrivere perfettamente i reperti anatomici che le mie mani esploravano attentamente, ed analizzare la situazione, l'evoluzione e le possibili complicanze.
Se la mattina era per l'ostetricia, dopo pranzo mi dedicavo all'anestesia e alla passione comune con Mauro: l’anestesia con etere.
Il pranzo lo consumavo nella casa dei medici scapoli dove alloggiavamo in cinque. Le suore preparavano, ogni giorno, il pranzo e la cena per tutti noi, ed io, abituato ad organizzarmi tutto a Matany, con l'aiuto di mio fratello, e raramente di qualche altro medico, ebbi la possibilità di passare questo bellissimo tempo ad Angal come se fossi in un albergo, sereno, rilassato, dedito allo studio e ai miei pensieri.
Fu veramente un mese indimenticabile che diede, in realtà, una svolta importantissima e felice alla mia vita.
Non pensavo certo, andando ad Angal, di ritornare poi a Matany, dopo più di un mese, con un ottimo bagaglio di esperienze e soprattutto dire alle suore e agli altri medici che avevo anche, lì, deciso di sposarmi.
Sarà stato il mese passato in serenità, il riposo, la bella coppia di sposi milanesi conosciuti ad Angal, le lunghe lettere scritte in ogni momento libero a Monica, la mia ragazza in Italia, a farmi decidere di chiederle di sposarmi per vivere insieme quella magnifica avventura che è la vita perché, in due, mi appariva in quel momento decisamente più affascinante e deliziosa.
Tornando a Matany in macchina mi sembrava di volare ad un metro da terra anziché guidare; ero ebbro di felicità, perché Monica per telefono, in capitale, mi aveva detto il fatidico sì, che coronava tutti i miei sogni romantici, vissuti ad Angal, con grande passione e desiderio.
L'arrivo a Matany fu invece traumatico, come una tegola caduta sulla testa; era anche per quello che in sala operatoria, mentre armeggiavo con il vaporizzatore per l’etere, ero così nervoso ed impaziente.
Tornato con un bagaglio di novità strepitose, eccitato, contento, mi trovai davanti un ambiente freddo, non accogliente; non c'era neppure mio fratello che aveva anticipato la sua vacanza in Italia.
Se la partenza di mio fratello, anticipata, quasi frettolosa, era stata vista da tutti, suore, missionari e medici italiani, come un segnale di debolezza, di grande crollo psichico, emotivo e sentimentale, a causa della sua ragazza lontana, il mio arrivo fu accolto con lo spavento di chi si trova di fronte ad una persona in una situazione ancora peggiore, d'un folle, andato via di testa, uno dei tanti scoppiati che non reggono l'urto della vita dura, della lunga solitudine dell'Africa e soprattutto della Karamoja.
Fu un mese di grande, grandissima solitudine, di sconforto dopo l'ebbrezza.
Quasi mi convincevo, anch'io, che era stato tutto un sogno o una pazzia, tutto quello che era accaduto ad Angal. Inoltre, non mi era proprio più possibile parlare con Monica per telefono, che in quell'anno funzionava solo a Kampala, la capitale dell'Uganda, a 500 chilometri.
Ero solo con i miei pensieri, i miei progetti…… erano veri o erano falsi?
Tanti erano i pensieri che mi passavano per la mente, davanti a quell'apparecchio EMO per l’anestesia, e la convinzione che, innanzitutto, dovevo dimostrare a tutti cosa fosse servita la mia permanenza ad Angal. Forse, pensavo, mostrando le mie capacità, i risultati acquisiti in quel lontano Ospedale, avrebbero creduto, alla fine, a questo mio desiderio di matrimonio, non fantasioso o folle, ma veramente concreto.
L'apparecchio era tutto smontato, pezzo per pezzo, in ordine in ogni sua singola parte. Esaminai tutto attentamente.
Con sorpresa e forte delusione trovai che la valvola termostatica era rotta, probabilmente lesionata accidentalmente, chissà quando, magari cadendo a terra negli anni passati.
Mi sentivo smarrito e incredulo; così presi i libri in biblioteca e rilessi attentamente la modalità di funzionamento della valvola.
Era chiaro che quel regolatore termostatico serviva a mantenere stabile l'erogazione del vapore anestetico, man mano che l’etere, durante l'anestesia, si raffreddava.
Senza la valvola regolarmente funzionante si rischiava che la quantità di vapore si riducesse nel tempo, alleggerendo il livello di profondità della anestesia stessa.
Bastava, però, pensavo in quel momento, aumentare progressivamente la leva graduata dell'etere, seguendo scrupolosamente i segni clinici nel paziente addormentato, e si sarebbe ovviato a questo guasto. In ogni caso non ci sarebbe mai stato un incremento spontaneo del vapore, ma piuttosto una riduzione e ciò comportava che non avrei corso il rischio di mettere in pericolo di vita il paziente, ma solo di alleggerire, lentamente, il piano di anestesia.
Non vedevo quindi rischi importanti e decisi, infine, che utilizzare l'apparecchio valeva proprio la candela.
Non dissi a nessuno, almeno nei primi tempi, del problema ma invece che tutto avrebbe funzionato a dovere, non volevo certamente mostrare di non sapere gestire quello strumento.
Aspettai che il chirurgo andasse a Kampala, la capitale, (fu duro con me anche in quell'occasione per i suoi dubbi sulla pericolosità dell’etere) per cimentarmi in sala operatoria con i primi pazienti e confermare che l'apparecchio, utilizzato ad arte, funzionava bene, senza rischi, proprio come ad Angal. Si poteva inoltre impiegare l'elettrobisturi, molto amato dai chirurghi di Matany.
Quei primi successi mi sollevarono molto, riprendevo coraggio ed entusiasmo, fiducia in me stesso per affrontare bene e con fermezza anche l'argomento matrimonio che tutti a Matany avevano rapidamente congelato, come qualcosa che bisognava dimenticare o su cui far finta di niente.
Il lavoro mi occupava tutto il giorno e pure la sala operatoria era pesante perché il capo chirurgo, durante quel mese, andò nella capitale due volte, lasciandoci solo in due in chirurgia.
Per me era piacevole ma anche uno stress non indifferente fare l'anestesia e l'aiuto operatore insieme.
Accadde che arrivasse proprio in quei giorni in Ospedale, in gravi condizioni, un famoso e temuto capo tribù.
Ci parve subito chiara l'urgenza della sua malattia addominale, e le lastre, eseguite in radiologia, confermarono la gravità, ma non ci diedero assolutamente indicazioni sulla sua causa.
Non ci rimaneva che aprirgli la pancia e sperare che il danno fosse facilmente riparabile.
Il chirurgo ugandese, Emmanuel, più giovane di me di un anno, ma con una buona esperienza acquisita da specializzando in chirurgia, durante la guerra civile, in un importante Ospedale della capitale, si trovava veramente in grande imbarazzo ad eseguire un intervento su una persona così importante e, tra l'altro, di una tribù non amica. Sentendosi, però, ben protetto dalle suore missionarie Comboniane dell'Ospedale, che avevano fatto quadrato attorno a lui, decise, senza esitare, di operare. Non c'era, infatti, tanto tempo da perdere, viste le gravi condizioni del paziente, ed organizzammo bene, con le suore, quella seduta operatoria d'urgenza.
A me toccava il compito dell'anestesia e decisi di impiegare proprio l'apparecchio EMO per l’etere: l'intervento durò circa tre ore e mezza e fu sicuramente il più lungo che feci con quella tecnica di anestesia.
Indotta l'anestesia e portata, dopo alcuni minuti, la leva dell'indicatore dell'etere al 7%, mi lavai per aiutare il chirurgo ugandese.
Aperto l’addome, ci trovammo di fronte ad un intestino globalmente sofferente, scuro, immobile senza le caratteristiche onde peristaltiche che lo fanno somigliare ad un bruco in movimento. Cercammo di muoverci tra le anse che apparivano legate tra loro, come una corda raggomitolata male che non si riesce a dipanare per i tanti nodi presenti.
Eravamo proprio in difficoltà. Non capivamo assolutamente la causa di quell'aspetto dell'intestino in nodi stretti. Dopo un’ora d’intervento eravamo al punto il partenza: non si riusciva a trovare il bandolo della matassa.
Ci sentivamo impotenti e, intanto, l’intestino diventava sempre più scuro.
Non sapendo proprio come aiutare il chirurgo nel suo campo, io mi preoccupavo soprattutto del malato addormentato, che respirava etere attraverso un tubo posizionato in trachea. I parametri cardiocircolatori erano ancora soddisfacenti e questo mi permetteva di tranquillizzare Emmanuel a lavorare senza troppo affanno, anche se i minuti passavano inesorabili e noi sembravamo inconcludenti.
Emmanuel, sudava in modo copioso e suor Fausta, sempre presente in sala, gli passava frequentemente un panno sulla fronte, facendogli capire che eravamo tutti con lui.
Mi venne in mente che sarebbe stato utile informare i figli del capo tribù della gravità della malattia, prima che succedesse qualcosa di irreparabile, visto il tempo già trascorso e le nostre notevoli difficoltà. Pensando che i karimojong sono abituati, secondo una pratica molto comune tra loro, a squartare gli animali per leggere nei visceri il futuro, decisi di far entrare in sala operatoria il figlio più grande, un guerriero karimojong dall'aspetto apparente di trent'anni.
Uscii dalla sala con il camice, il cappellino e la maschera e, facendomi tradurre in karimojong dal mio inglese, spiegai a questo giovane, in modo semplice, che la malattia che aveva colpito suo padre era davvero grave e desideravo che se ne rendesse conto di persona entrando in sala operatoria con me.
Gli feci indossare un camice e lui a piedi nudi mi seguì. Vide il padre con la pancia aperta, come un vitello sacrificale, con gli intestini scuri, violacei, come appaiono subito dopo la morte.
Capì subito la gravità delle sue condizioni, ma, convinto che fosse già morto, uscì spaventato, mentre io, accompagnandolo, lo confortavo, dicendogli che avremmo fatto di tutto per salvarlo.
Dopo quell’intervallo, riprendemmo ad esplorare la cavità addominale ed Emmanuel decise di iniziare a resecare qualche tratto di intestino più sofferente per capire meglio il da farsi. Fu così che capimmo il mistero della malattia di quell'uomo che ha un nome forse troppo semplice ed innocuo, “ernia intestinale interna”, che non dice nulla della devastazione di fronte alla quale ci trovavamo.
Un semplice e rarissimo buco (un’ernia) di una piega peritoneale, il rivestimento che avvolge e collega tra loro le anse intestinali, aveva permesso a più anse di entrarvi e le aveva strozzate come un cappio attorno al collo, provocando un danno alla circolazione sanguigna di tutto l'intestino tenue.
Dovemmo eseguire varie resezioni ricollegando, quindi, tra loro le anse intestinali, nell'ordine corretto. Tutto fu eseguito a mano, come un ricamo preciso, robusto e al tempo stesso delicato, senza l'impiego di suturatrici meccaniche, già in uso da molti anni nei nostri Ospedali in Italia, che abbreviano, e di molto, il tempo chirurgico.
L'intervento, finalmente, terminò; le anse intestinali ripresero lentamente il loro colore naturale, roseo, e ricominciarono i leggeri movimenti oscillanti, ancora molto deboli, ma indici di vitalità.
La pancia fu chiusa, l'indicatore dell'etere fu messo sullo zero e pian piano quell'uomo, il capo tribù, il temuto guerriero, riprese vita.
È difficile descrivere la sorpresa dei parenti, riuniti in attesa nel corridoio, fuori della sala operatoria, quando videro quell’uomo, ancora incosciente, ma vivo, uscire in barella per essere trasportato in reparto.
Circa tre ore dopo iniziò a pronunciare qualche parola e in pochi giorni gli fu permesso di mangiare e quindi di alzarsi.
Non vidi il progresso e la ripresa di quell'uomo perché, dopo pochi giorni, ero in partenza per l'Italia per una missione speciale, difficile, impegnativa, incerta.
Sentivo, però, una grande forza interiore che mi guidava verso quello che a me, innamorato, sembrava una cosa naturale: andare a sposare la ragazza che amavo. Mi amareggiava, invece, tantissimo, leggere negli occhi degli altri, a Matany, il dubbio per una mia incipiente pazzia.
Pochi giorni prima della mia partenza, il capo chirurgo ritornò dalla capitale, dove si era recato per una breve missione di impegni burocratici per l’Ospedale. Alla sua partenza, lo avevo pregato di andare in ambasciata per farsi rilasciare un certificato che attestasse che, come residente, non avevo contratto matrimonio durante la mia permanenza in Uganda, documento indispensabile, in Italia, per sposarmi. Lui, però, nonostante fosse passato per l'ambasciata, si era rifiutato di richiederlo, perché convinto che la mia richiesta fosse priva di fondamento.
Ebbi però la grandissima fortuna di trovare, il giorno prima del volo per l'Italia, l'ambasciata aperta, e partire così con le carte in regola.
A Kampala, nella casa dove i volontari transitavano per tornare in Italia o partire per l'Ospedale ugandese di appartenenza, trovai finalmente un clima diverso che mi fece proprio bene: erano sì sorpresi, ma anche entusiasti nei confronti della mia decisione.
La moglie del responsabile del centro, Nicoletta, mi tagliò addirittura i capelli per rendermi più presentabile a Monica e mi accompagnò in ambasciata per tutte le formalità.
In un negozietto di artigianato locale trovai dei bellissimi cestini africani che, pensai subito, potevano servire da bomboniere.
Il negoziante rimase stupefatto quando decisi di comprarli proprio tutti, erano cinquanta, e come se non bastasse ne ordinai altri cinquanta, che i gentili volontari di Kampala mi spedirono in Italia dopo pochi giorni.
Nel negozietto avevo pure trovato dei deliziosi biglietti con un disegno Batik sulla prima pagina. Anche quelli naturalmente, finirono nella mia valigia!
Tornavo in Italia per incontrare Monica, a cui avevo chiesto per telefono, soltanto un mese prima, di sposarmi, dopo otto mesi e mezzo di lontananza. Tornavo con una valigia piena di bomboniere e biglietti per le partecipazioni e... tanti sogni che desideravo realizzare insieme con lei……
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