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L'albero maledetto
In Ospedale, quel giorno d’Agosto 1994, il personale discuteva di una vicenda accaduta qualche giorno prima e che rappresentava l'argomento del momento, forse perché non c'era altro d’interessante, in quel periodo relativamente tranquillo, a Matany.
Fu Roberto, il responsabile tecnico dell'Ospedale, piemontese dalle mani d'oro, a parlarmene quel pomeriggio, mentre io, stupito e con la faccia di chi si sente tenuto all'oscuro di tutto e si domanda “come mai solo io non so nulla”, cercavo delle informazioni il più dettagliate possibili. Discutevamo davanti all'officina dell'Ospedale, quando arrivò John Bosco con aria da caporione che sa sempre tutto. Ci raccontò dell'accaduto come se fosse stato presente ai fatti, mentre io pensavo: "Qui in Africa, da un piccolo fatto si ricamano leggende infinite, che, passando poi di villaggio in villaggio, crescono in particolari, come da noi con la misura del pesce del pescatore”; facevo fatica a credergli, mentre John Bosco, con il sostegno di Roberto, appariva già deciso ad intervenire.
Il fatto, che mi pareva ricamato da tanta fantasia africana, era questo: un bambino era caduto dentro un albero.
Arrampicandosi sui rami di un grande ed ombroso albero sulle rive del fiume, assieme ad altri ragazzini, si era introdotto nel buco di un grosso ramo ed era scivolato, proprio come in uno scivolo, nel cavo vuoto del ramo fino alla base del tronco.
Fin qui niente di drammatico; mi appariva anzi proprio uno scherzo.
Il problema, che John Bosco riferiva serio, era che tutto questo era accaduto già da una settimana e il bambino era sempre lì dentro prigioniero. Veniva nutrito attraverso un buco nell'albero, però nessuno era riuscito a farlo uscire.
Si era intanto formato intorno a noi un bel capannello di persone ed ognuno che arrivava portava nuovi particolari come, per esempio, che il parroco del vicino villaggio e poi alcuni missionari avessero provato a tirare fuori il bambino senza successo.
"Ma come? " chiedevo io sempre più incredulo a questo racconto. “Con le corde e con le funi, ma il bambino era troppo debole" diceva uno, o " il cavo dell'albero troppo stretto " diceva un altro. Non sapevo se mi prendessero in giro o se tutto fosse frutto solo della fantasia. Chiedevo io: "Ma è possibile che non abbiano segato l'albero o fatto un buco per tirarlo fuori? ”. Anche qui ognuno diceva qualcosa di diverso: “L’albero è troppo grande”, oppure ”L'albero è sacro”.
“Ma come l'albero è sacro!" dico io, sempre più infervorato da questa vicenda che mi appariva assurda.
“Per la gente quell'albero è sacro e non si può tagliare”, questa fu la risposta degli infermieri karamojong che ormai sopraggiungevano sempre più numerosi. “Dobbiamo fare qualcosa; è nostro dovere tentare di tirarlo fuori; il nostro Ospedale non può non far niente per risolvere questo dramma”. Queste erano le conclusioni di John Bosco e Roberto.
Poco dopo arrivò Padre Walter, missionario Comboniano, tranquillo, sorridente come sempre e anche lui si unì a noi a parlare dell'accaduto come se quei fatti fossero riportati quotidianamente dal giornale.
Mi sentivo sempre più l'imbecille del villaggio che non sa nulla. Allora indispettito chiesi: “Dopo i tentativi falliti cosa hanno fatto i vari personaggi e missionari che sono passati di lì? ” “Se ne sono andati”, fu la risposta secca e conclusiva. “Ma come si può lasciare un bambino nell'albero e non tagliarlo? ”, continuai io. Walter molto sicuro di sé e pacifico, divertente nel parlare, disse che bisognava rispettare la gente del posto, le loro credenze e che se l'albero era sacro non era possibile tagliarlo. E poi aggiunse: ”Pensa che figura ci faremmo noi se fallissimo nel tagliarlo... non saremmo più credibili”.
Rimasi proprio male, in silenzio, stordito da quella risposta.
Walter continuò: “Ma se volete provarci voi... ”
Il gruppo mi sembrava proprio deciso e anch'io mi sentivo trascinato in questa incredibile impresa. Pensavo che nel nostro lavoro di medici dobbiamo risolvere problemi, intervenire, operare o al limite lenire le sofferenze, ma sempre fare qualcosa e qui si trattava di salvare la vita ad un bambino.
“Bene”, dico a Roberto, ”abbiamo tutta l'attrezzatura per tagliare o fare un buco nell'albero? ” Roberto ci aveva già pensato e poteva contare su vari attrezzi, corde, seghe, trapani con batterie, torce elettriche; bisognava solo decidere quando partire.
Erano le cinque del pomeriggio, presto sarebbe tramontato il sole e il luogo era lontano. “Partiamo subito”, disse, “con due macchine e tutto l'occorrente”.
Le nostre mogli, la mia, Monica, e Marcella, di Roberto, erano proprio preoccupate, spaventate da questa impresa serale appena appresa.
Salutai i miei figli dicendo, serio, che andavo a salvare un bambino caduto in un albero e che presto sarei tornato.
Salii in macchina con altri infermieri karimojong e Roberto si mise alla guida dell'altra auto. Eravamo in buona compagnia: le macchine piene di personale dell'Ospedale e di varia attrezzatura; provavo veramente la sensazione di vivere una grande avventura.
Le strade della Karamoja sono strade sterrate, via via rovinate dalla pioggia e percorrere la distanza dall'Ospedale di Matany al villaggio di Kangole richiede una durata variabile da mezz'ora ad un’ora, a seconda del tempo; per fortuna quel pomeriggio il cielo era sereno e da alcuni giorni non pioveva.
Le due Range Rover sobbalzavano sulla strada e, dentro, tutti noi eravamo in silenzio e pensierosi.
Guidando il fuoristrada tra una buca e quella successiva scacciavo i pensieri di quell'avventura e mi rasserenava l'idea che una volta giunto sul posto tutto probabilmente sarebbe già stato risolto e forse anche da tanto tempo.
Giunti a Kangole, chiedemmo alla gente del villaggio dove fosse l'albero con il bambino prigioniero. Alcuni pastori karimojong salirono in macchina per guidarci e una folla, sempre più numerosa, iniziò a seguirci lungo la strada.
Abbandonammo la strada principale per un piccolo sentiero e la nostra andatura rallentò a tal punto, per via del sentiero sconnesso, che la gente a piedi quasi ci precedeva. Dopo circa un'altra mezz'ora, raggiungemmo il fiume quasi in secca, poiché da alcuni giorni non pioveva. In Karamoja, infatti, i fiumi sono soltanto stagionali.
Alla luce del tramonto percorrevamo la sponda nord del fiume finché arrivammo.
Ricordo la scena che vidi come fosse un film al cinema e solo allora capii di essere entrato in una storia, un'avventura dell'Africa nera come se fossimo tornati indietro di mille anni.
Nella radura si vedeva una lunga fila d’alberi che delimitavano le rive del fiume e lì, più avanti, dove la guida che avevamo raccolto a Kangole puntava il dito, non c'era nessuno, anzi no….. Era il crepuscolo e non si vedeva chiaramente da lontano. Via via che ci avvicinavamo, però, appariva sempre più distinta una capra legata ad un ramo di un albero lì appresso.
Nessuna persona era presente, soltanto una capra legata; il buio che avanzava e il bambino prigioniero dentro un albero, con il silenzio tutt'attorno, rendevano quell’atmosfera davvero magica. Eravamo arrivati!
Mi guardai attorno e vidi una vera e propria folla che avanzava lentamente e si assiepava, incuriosita, attorno all’albero; molti prendevano posto sedendosi sui lunghi rami spioventi dei grandi alberi vicini, altri erano accovacciati, seduti sui talloni, nella posizione di riposo caratteristica dei karimojong.
Il bambino, dall'interno dell'albero, parlava e benché non capissi una parola di karimojong, avevo l’impressione, dall'intonazione della voce e dalle urla miste a pianto, che avesse proprio perso il senno.
Mi domandavo come era possibile che un bambino fosse lì, solo, abbandonato in compagnia di una capra (capro espiatorio) così lontano dai villaggi.
Mi era stato difficile, fino ad allora, capire la mentalità dei karimojong, ma in quel giorno mi fu chiaro quanto la superstizione condizionasse la vita di quella gente e la dominasse.
Quel bambino era per la gente del luogo condannato da una potente maledizione e tutto quello che potevano fare era lasciare una capra durante la notte nella speranza che gli spiriti del male si nutrissero di questa, risparmiando il bambino. Non potevo proprio immaginare il terrore che aveva provato quel bambino in quella settimana, da solo tutta la notte, sentendosi abbandonato e condannato.
Scaricammo le auto di tutto il materiale e andammo presso l'albero per capire come poter procedere.
L'albero aveva un grande fusto e rami possenti, lunghi e pesanti che prima si alzavano e poi ridiscendevano verso terra quasi a toccarla. Sui grandi rami, la gente era seduta comoda come in una arena.
Sembrava in effetti un’arena, con i rami di altri alberi vicini che quasi circondavano l'albero. Il semicerchio era chiuso dalle nostre auto che, con il calare delle tenebre, illuminavano, con i fari, la scena come i riflettori di un teatro.
E gli attori? Mi accorsi dopo poco che c’erano solo tre attori: il bambino prigioniero, Roberto e…. io. Tutti gli altri, i nostri infermieri karimojong, tutta la gente che da Kangole ci aveva seguito, erano solo spettatori di un dramma o di uno spettacolo macabro. Anche i più fedeli infermieri, tutti karimojong, che ci avevano sostenuto fin ad allora in quell'impresa, con nostro stupore, ci dicevano che non potevano toccare l'albero, perché l'albero era proprio sacro e su di esso era caduta una potente maledizione.
Mi sentivo male, bloccato, paralizzato come un gladiatore buttato nell'arena per essere sbranato da bestie feroci e tutto attorno, dagli spalti, un rumoreggiare da circo.
Roberto ed io eravamo le vittime sacrificali perché tutti erano davvero convinti, e continuavano a ripeterlo in modo quasi scherzoso, che saremmo morti, morsi da uno scorpione o da un grosso serpente velenoso, uscito, improvvisamente, da quell'albero maledetto.
Guardavo Roberto come fosse il mio salvatore, e gli dicevo, come per scusarmi, che io sapevo fare solo il medico. Anche Roberto era sorpreso dallo sviluppo della situazione, ma molto abile come tecnico tuttofare, non sembrava perso come me, e, raccolti gli arnesi, decise, senza perdere altro tempo, di praticare un foro, grande e profondo a sufficienza, per far uscire il bambino.
Roberto iniziò il lavoro e scese subito il silenzio come quando si apre il sipario e lo spettacolo inizia.
Si sentiva solo un sommesso vociare.
Il sudore calava sulla fronte di Roberto che dopo un po' di duro lavoro mi chiese il cambio. Era giunto il mio turno!
Presi martello e scalpello come se fossi in sala operatoria per un intervento ortopedico, e iniziai ad incidere il legno.
Il bambino, là dentro, mi osservava da una piccola fessura dell'albero e ogni tanto lanciava un grido di disperazione.
I nostri infermieri frequentemente si avvicinavano al buco e ci davano consigli sul lavoro. Allora io, per prenderli in giro, offrivo loro gli arnesi perché continuassero l'opera, ma loro con educazione e un sorriso sulle labbra, si allontanavano come per dire “non posso proprio” .
Quando lavorava Roberto, il legno si spaccava come burro e dopo un'oretta di lavoro cominciavo a nutrire grosse speranze di successo.
Già alcune torce erano scariche e cominciammo a temere anche per le batterie delle auto. Alcuni nostri infermieri, avvicinandosi preoccupati, ci consigliavano, gentilmente, di fermarci perché, dicevano, la gente era sempre più convinta che presto qualcosa di malvagio ci avrebbe punito.
Il buco cominciava finalmente ad avere una buona ampiezza e si poteva toccare il bambino, che non sembrava proprio consolato da questo nostro tentativo. Chissà se pensava che sarebbe fallito come gli altri!
Continuammo ad alternarci, noi due soli, spinti da un ansia crescente di fallire per mancanza di luce.
Le mani mi tremavano, quando scalpellavo, e il varco che facevo mi sembrava insufficiente anche perché non sapevo esattamente quanto fosse grande il bambino.
Piano piano il foro si allargava e riuscivamo a lavorare anche in profondità nel cavo finché apparve chiaramente il bianco degli occhi del bambino, illuminato dalle nostre torce.
La speranza di successo si mescolava all’orrore di qualcosa di misterioso e il vociare della gente attorno era sempre più acceso.
Molti c’incitavano a continuare, altri ci avvisavano del pericolo in un crescendo d’eccitazione finché un karimojong del nostro Ospedale, tra lo stupore di tutti, prese in mano il martello e lo scalpello e si mise con ardore al lavoro. “Almeno uno ha vinto la paura”, pensavo, e mi sentivo proprio grato verso di lui. Si cominciava a sentire, da quel momento, un'atmosfera mutata, di possibile vittoria.
Il foro sembrava ora abbastanza ampio. Roberto era proprio soddisfatto e guardandomi con un sorriso compiaciuto mi disse: “Tocca a te, dottore, tirarlo fuori! ”
Pensai chissà perché, subito, al parto e ai tanti parti eseguiti nella maternità dell’Ospedale di Matany e dissi proprio così: “Proviamo il parto podalico; tiriamolo fuori facendo passare prima le gambe”.
Il bambino, pian piano, introdusse i piedi nel foro e cominciai a tirarlo fuori. Uscì fuori anche il sedere ma quando arrivai al torace mi accorsi che non passava proprio più. Con grande delusione mia e disillusione di tutti, quasi mi vergognavo per la brutta figura, lo respingemmo con difficoltà, nuovamente nel cavo, e frenetici ricominciammo a lavorare per allargarlo ancora un pò. Pensavo che a differenza del neonato, il bambino non ha la testa più grande del corpo e così, passato dal foro il torace, sollevando in alto le braccia, sarebbe sgusciato completamente fuori.
Insistei che il foro fosse ben rotondo e smussato per non ferire il bambino che era nudo. Tutti erano euforici e l'incitazione dei presenti sempre più calda.
La gente spingendo si accalcava il più vicino possibile per vedere l'atto finale.
Le raccomandazioni dei nostri infermieri erano sempre più pressanti: “Attenti, ché dopo il bambino uscirà un serpente”.
Roberto aveva ben limato il foro che questa volta appariva come un cerchio perfetto. Ripresi in mano il comando delle operazioni sempre come fosse un parto.
Questa volta non potevo proprio fallire.
Il bambino infilò nuovamente le gambe, uscirono facilmente anche il sedere e l'addome. Ci fu un silenzio di attesa quando invitammo il bambino a trattenere il respiro e a sollevare le braccia sopra il capo, ed ecco, in un attimo fu tutto fuori, in piedi, nudo alla luce dei fari delle auto.
Fu un trionfo! Niente uscì dal cavo dell'albero, oltre il bambino, e tutti i karimojong con gioia incontenibile urlavano, saltavano e gridavano felici.
Quella gioia incontenibile, è stata per me un ricordo eccezionale, una grande gioia, ma la cosa più impressionante fu il coro e le grida all’unisono da parte di tutti, infermieri e locali: “Viva Gesù! Viva Gesù! ”
Lo gridavano a squarciagola come se un incubo fosse passato e l’isterismo generale li avvolgesse tutti come in una magia.
Il grido “Viva Gesù” continuò non solo quando tutti si misero in marcia verso Kangole e noi salimmo in auto con il bambino, muto e nudo, forse convinto di vivere l'ennesimo incubo notturno, ma per tutto il percorso fino al grande villaggio di Kangole.
Era notte fonda e la gioia incontenibile di tutti si sfogava nelle urla e nel canto, con il chiaro proposito di svegliare tutto il villaggio perché tutti sapessero dell’accaduto e si unissero a loro per festeggiare.
Spesso, raccontando questa storia, mi fermo a questo punto. Molti, però, degli ascoltatori, o il lettore attento, si saranno domandati dove fossero i genitori di quel bambino.
Il villaggio del bambino era lontano, al di là del fiume, e tutti i fatti raccontati non avevano assolutamente visto coinvolti né i famigliari né tanto meno gli abitanti del suo villaggio e lui era stato veramente lasciato solo, durante le notti, solo con la capra!
Il bambino, in macchina, era al mio fianco muto, con un'espressione incredula e triste come se tutto fosse irreale.
Ero sicuro che uno shock importante l'avesse psicologicamente sconvolto e fosse il caso di portarlo in Ospedale per osservarlo da vicino.
Decidemmo, in ogni modo, che fosse doveroso andare al suo villaggio per informare la famiglia, benché fosse notte e la strada da farsi ancora lunga, e che valesse la pena completare l’opera.
Per raggiungere questo lontano villaggio ben presto la strada si trasformò in uno stretto sentiero, adatto al passaggio solo di uomini e animali. Le auto faticavano ad avanzare e per noi, dentro, era un salto dopo l'altro.
Era tanto buio e a fatica riconobbi il villaggio karimojong che si mimetizzava molto bene con la boscaglia circostante. Le piante rampicanti, inoltre, nascondevano, in parte, la cinta, fatta di legni intrecciati, che circondava completamente il villaggio, come un solido muro.
Suonammo il clacson e gli infermieri karimojong una volta scesi, cominciarono a chiamare la gente.
L'aria umida e fredda della notte mi faceva preferire stare, nell’attesa, al caldo della cabina della macchina con il bambino.
Dopo pochi minuti, bambini e adulti cominciarono ad uscire dalle capanne e quindi dalla cinta, che circondava il piccolo villaggio, e comparvero pressoché nudi davanti ai fari accesi delle nostre auto. Guardando quella scena pensai che i Karimojong, coperti al massimo da un mantello o una gonnellina, fossero vestiti proprio uguali notte e giorno.
Il sonno pesante della notte africana, difficile da vincere anche per una grande novità come la liberazione del bambino, faceva sì che la gente uscisse lentamente, quasi stordita dalla luce delle auto e dalle urla di coloro che avvicinandosi riconoscevano il bambino, vivo e libero davanti a loro.
Per ultima uscì la mamma. Saltava, non metaforicamente, ma realmente saltava, ululando in quello che sembrava un balletto di felicità karimojong; a me apparve, in realtà, una sbornia alcolica, probabilmente l'unico rimedio per quella madre di prendere sonno, sapendo di aver lasciato un figlio solo, lontano, nella notte africana, dominata da bestie feroci e dagli spiriti del male, soltanto perché la tradizione e gli anziani volevano così.
Per tutti noi dell'Ospedale di Matany era una gran gioia averlo riportato a casa, da sua madre.
Il bambino era ora in piedi di fronte all'auto, fermo, immobile che guardava la madre avanzare in quella danza isterica.
Poi ci fu l'abbraccio! L'abbraccio della madre, non del bambino che rimase immobile.
La storia non finisce come nelle favole con un lieto fine…. e tutti vissero felici e contenti…, ed è per questo che, soprattutto se ci sono bambini, evito di raccontare il ritorno a casa, che, però, per gli adulti è davvero istruttivo.
Il bambino liberato, in realtà, era già morto per il villaggio e lui era quasi impazzito per sopravvivere ad una realtà che lo escludeva dagli affetti più cari.
Fuori dell’albero era muto, povero caro, gli occhi smarriti, il corpo immobile, ma, improvvisamente, di fronte alla madre e al villaggio intero e a tutti noi riacquistò vita.
Madre e figlio erano uno di fronte all'altro; la madre lo scuoteva dolcemente, chiamandolo per nome e lui finalmente si svegliò dall'incubo.
Con tutta la forza tirò un pugno in faccia a sua madre e riprese a vivere.
Per me, medico, niente di meglio poteva accadere.
Non c'era certo più bisogno di portarlo in Ospedale, in osservazione: era guarito da solo e aveva dato, inoltre, una lezione efficace a tutto quel villaggio ipocrita.
Il racconto merita ancora un'appendice riguardo al ritorno verso casa.
In auto con me sedeva Michael, il nostro amministrativo, laureato in statistica, capace, un ottimo leader della nostra comunità e uno dei più attivi nell'avviare quell'impresa.
Era raggiante, felice, lo si vedeva nel volto, nel modo di parlare continuo e nei commenti sull'accaduto.
Guidavo in silenzio, attento alla strada sconnessa, e lui, in modo molto confidenziale, mi disse : “Doctor Antonio”, così mi chiamavano in Ospedale, “questa notte è stata davvero importante per me, ho finalmente capito tutto. Quando arriverò a casa sveglierò mia moglie e le dirò che da ora in poi mi addormenterò senza più paura: ho capito che Gesù ha vinto il male e la morte”.
Rimasi muto ad ascoltare queste parole che scaldarono ancora di più il mio cuore già gonfio di felicità, ma capii anche quello che era già ben evidente nella società dei karimojong: un cristianesimo proprio recente, presente soprattutto come una vernice esterna, che cominciava però a far breccia nella gente, fortemente radicata nella religiosità tradizionale, ricca di tabù e superstizioni.
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