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Un topolino allo spiedo
Nei giardini dell’Ospedale, all'ombra delle numerose piante che lo abbellivano e lo rendevano veramente un’oasi rigogliosa nel mezzo della savana, sostavano parenti e pazienti tutto il giorno.
I pazienti rientravano in reparto per il giro medici e per la terapia e alla sera per dormire.
Al tramonto era davvero uno spettacolo vedere i numerosi fuochi sparsi e la gente affaccendata a cucinare la polenta.
Passando per i corridoi aperti dell'Ospedale, vedevo ogni sera questo suggestivo spettacolo e potevo cogliere quegli aspetti di vita famigliare attorno al fuoco, altrimenti, per me, quasi impossibili da osservare.
In Karamoja, il piatto principale è rappresentato dalla polenta di sorgo, spesso l'unico alimento consumato nella giornata.
Al mattino, solitamente, la polenta è preparata aggiungendo un po' di latte di mucca, denso, cremoso che lo arricchisce in sapore.
La quantità di latte prodotta dalle mucche, che nell'intera regione sono proprio magrissime, come i loro pastori, è veramente minima, data la scarsità di foraggio ed acqua, molto meno di un litro al giorno.
Il pasto è spesso consumato insieme alla birra che è di bassa gradazione alcolica e sempre di sorgo. La birra è bevuta calda ed io la trovavo nauseante e ripugnante perchè densa e pastosa per il sorgo fermentato, che è, anch’esso, in mancanza della polenta, talvolta, l'unico pasto.
La birra viene bevuta in compagnia, insieme alla famiglia, agli amici o invitati, da un unico recipiente, scaldato sul focolare, chiuso da un coperchio perché si mantenga caldo. Si beve a turno succhiando da una cannuccia. Un po’ per uno, a rotazione, non di rado fino ad ubriacarsi.
Quasi tutti i medici, che hanno vissuto a Matany, hanno prima o poi dovuto bere, come me, questa loro bevanda e moltissimi hanno contratto un’epatite.
Il sorgo è l'unica pianta che cresce abbastanza bene in quella terra arida, se la stagione delle piogge è ovviamente regolare, altrimenti è fame e carestia. La polenta di sorgo è poco nutriente e poco calorica, ma sazia. Il piatto di polenta viene solitamente ben riempito, deve essere proprio ben colmo. Per me sarebbe stata un'impresa mangiarne una tale quantità che mi appariva veramente esagerata.
Gli inglesi definiscono, infatti, quest'alimentazione come “bulky food” cioè pasto voluminoso, che riempie soltanto la pancia.
Il pastore karimojong ne mangia un’abbondante quantità fino a sentirsi sazio ma quest’alimentazione, se non accompagnata da altro, produce specialmente nel bambino ipo e malnutrizione: è soltanto ricca in scorie e fibre.
Questo si vede molto bene da quello che produce poi il karimojong andando in bagno, cioè nei campi circostanti il villaggio: delle feci veramente enormi.
A chi segue questo tipo di dieta, la tazza di una normale toilette dovrebbe essere assolutamente proibita.
Ricordo che trovammo delle feci di quel genere nella toilette della sala operatoria riservata ai medici. Dovemmo rimuoverle perché erano così enormi e dure che l’acqua dello sciacquone era assolutamente incapace del benché minimo risultato.
Pur essendoci in Karamoja più mucche che abitanti, la carne non è l’alimento principale.
Le mucche, infatti, rappresentano per i karamojong quello che per un occidentale è il denaro o l’oro, ed è quindi soltanto una ricchezza preservata, custodita gelosamente ed accresciuta, o piuttosto rubata, ma non certo macellata o venduta.
Un piatto molto meno quotidiano ma assai prelibato, proprio una ghiottoneria, presso questa tribù, è il topo allo spiedo.
Il topo in questione è un animaletto di campagna, assai saporito se cucinato allo spiedo; si trova abbastanza facilmente ed è a buon mercato perché cacciato vicino ai villaggi.
La sua caccia è lo sport preferito dei ragazzi, dai più piccoli ai più grandi.
Questo topo di campagna è un animale stupido che percorre sempre la stessa strada per tornare alla sua tana, nascosta sotto terra.
Percorrendo sempre la stessa strada forma dei piccoli sentieri che i cacciatori esperti, seppur ragazzini, sanno riconoscere. Così preparano una trappola con un piccolo laccio a terra, ben fissato ad un ramoscello, piantato sul terreno. Periodicamente controllano che queste trappole abbiano catturato qualche topolino, rimasto preso per una zampina, nella corsa verso la tana.
Un altro modo per catturare il topolino è quello di aspettare che esca dalla tana, una volta individuata, e colpirlo con una mazza.
Quest'ultima tecnica era stata utilizzata un pomeriggio da due fratellini con i loro amici, tutti tra gli 8 e 13 anni come passatempo o sport, forse puro divertimento o, meglio, come aiuto per la cena dei loro genitori.
Purtroppo il fratellino maggiore, nell’eccitazione della caccia davanti alla tana, o forse per il cambiamento di direzione improvvisa del topo in fuga, aveva sferrato un impreciso, maldestro, ma micidiale colpo, mancando il topolino e prendendo, invece, la testa del fratello più piccolo.
Il colpo tremendo aveva fracassato quella piccola testa.
I ragazzini chiamarono subito aiuto e il bambino fu rapidamente portato in Ospedale, dove arrivò che aveva ripreso un po’ di conoscenza, ma era tutto in una pozza di sangue. L'esame della testa mostrava una ferita lacera, sporca di terra e sangue, e un avvallamento importante.
Eseguimmo, rapidamente, una radiografia che evidenziò un'importante frattura cranica con un ampio affossamento di una parte della volta. Decidemmo di operarlo subito.
In sala operatoria organizzammo tutto per l’intervento neurochirurgico che, seppur raramente, eseguivamo a Matany.
Tra gli strumenti operatori fu preparato il trapano per craniotomia e dei fili seghettati che permettono di segare l'osso cranico ed asportarne anche grossi frammenti.
Addormentai il bambino che collegai poi al respiratore e mi adoperai ad aiutare Daniele, il nostro direttore e chirurgo, ben preparato anche in questo tipo di emergenza chirurgica.
Fratel Daniele, religioso comboniano, prima di eseguire ogni intervento chirurgico e cimentarsi con il bisturi, recitava ad alta voce un’Ave Maria.
L'intervento cominciò e si espose bene parte della volta cranica; con il trapano Daniele eseguì quattro fori e con abilità e delicatezza, utilizzando leve ed anche cera d’api sterilizzata, per tamponare il sanguinamento dell’osso fratturato, rimosse i frammenti ossei che si erano approfonditi nel cervello.
La meninge, la pellicola che ricopre il cervello, era lacerata; fu difficile anche soltanto avvicinarla a fine intervento.
La pulizia della ferita fu eseguita in modo molto scrupoloso ma fu impossibile, però, riposizionare quella parte d’osso fratturato e rimosso dal chirurgo.
Si richiuse la pelle e si attese con ansia il risveglio del bambino.
Fui davvero felice quando, in poco meno di un’ora, il bambino riprese a respirare da solo ed infine aprì gli occhi e mosse gli arti.
Non avevo mai eseguito in Italia un intervento neurochirurgico, la mia unica esperienza era quella di Matany con il solo l’aiuto dei libri di anestesia.
Dopo qualche ora, seppur debole ma cosciente, il bambino fu riportato in reparto.
Attorno a lui si erano raccolti, disperati, i genitori, fratelli, ed amici.
Il bambino iniziò a parlare.
Era proprio commovente perché ricordava quasi tutto e rassicurava, con un filo di voce, il fratello, sempre lì vicino, in pianto, dicendogli che non l’aveva certo fatto apposta.
Il bambino visse altri due giorni e sembrava che tutti quegli attimi di vita fossero per confortare il fratello angosciato, affranto davanti al suo letto.
Lo rincuorava proprio lui; gli diceva: “Non sei stato tu, non sei stato tu, sono stato io ad avvicinarmi per vedere meglio”.
La sua voce si affievolì, sempre più, finché si spense.
Noi medici, a parte l’euforia del primo giorno, per l'esecuzione dell'intervento apparentemente ben riuscito, ci accorgemmo ben presto della grave fistola liquorale causata dall'impossibilità di ripristinare quella pellicola danneggiata, la meninge, che ricopre il cervello.
Liquido chiaro come acqua scendeva dalla ferita della testa ed inzuppava le garze della medicazione e a nulla valsero gli antibiotici somministrati copiosamente per prevenire la meningite.
Sconsolati ed impotenti, anche noi medici passavamo e ci fermavamo nella sua stanza, per salutarlo e lui ci rispondeva appena, ad occhi chiusi, con la sua voce, dolce e serena da bambino.
Non soffriva, nel senso di dolore fisico, ma capiva, secondo me, che non ce l’avrebbe fatta e aveva parole tenere per tutti, particolarmente per suo fratello più grande.
Fu uno strazio questa sua agonia, come tutte le agonie di un bimbo, in qualunque Ospedale del mondo.
Io mi sentivo incapace di assistere quei tristissimi momenti; passavo frettolosamente, toccavo leggermente il malato o la spalla dei genitori per far sentire la mia presenza e mi allontanavo, amareggiato di sentirmi inadeguato a lenire quelle gravi sofferenze, non solo del fisico, ma soprattutto dell’animo
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