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I fissatori del dottor Castaman
Davanti al reparto maschile era arrivata un'ambulanza e gli infermieri stavano scaricando un ferito adagiandolo con delicatezza su una barella. Il mantello di questo giovane era zeppo di sangue.
Lo seguii dentro all'ambulatorio e, cercando i guanti sterili, iniziai subito a domandare cosa fosse accaduto.
Sampson, l'infermiere Karimojong, traduceva e mi riferì che il giovane, mentre camminava per i campi, improvvisamente aveva sentito uno sparo e, subito, aveva provato un forte dolore al braccio sinistro e visto tanto sangue.
Questo era il classico racconto di tutti i guerrieri Karimojong che arrivavano feriti all'Ospedale.
Non dicevano assolutamente altro e poi…. non eravamo certo noi a dover indagare sulle numerose sparatorie che avvenivano in Karamoja.
Ogni volta, però, m’innervosivo a questa risposta banale, quasi avessi domandato se era scapolo o sposato; certamente non avevo chiesto la data di nascita che avrebbe richiesto un tempo di risposta più lungo perché si sarebbe dovuto risalire ai fatti importanti, avvenuti nell’anno presumibile della nascita, come una grande battaglia, un raccolto eccezionale, la grande siccità, il nuovo presidente in Uganda e non sarebbe certo stato facile.
Era disteso sulla barella, sofferente, impaurito, quando cominciai ad esplorare la brutta ferita al braccio. Non sanguinava più, ma il braccio, proprio sotto la spalla, era spappolato; l'arto era immobile, tenuto fermo dall'altra mano.
Gli chiesi di provare a muovere le dita della mano, ma fu inutile: il braccio e la mano erano freddi, come morti. Non mi restava che portarlo in sala operatoria per amputarlo, come avevo già fatto tante volte in casi simili.
Le ferite da guerra erano la prima causa di ammissione nel reparto maschile, ed ero abituato ad estrarre proiettili o frammenti di granata ed esplorare i loro tragitti all'interno del corpo per capire i danni anatomici procurati.
Il guerriero era accompagnato dal padre ed alcuni altri guerrieri della sua tribù. Il suo sguardo, fisso nei miei occhi, era gelido, come per dire che in Ospedale era venuto per niente.
Ripetei lentamente, in modo che fosse chiaro a tutti, che la ferita era devastante, il braccio morto, e che presto sarebbe subentrata un'infezione; la ferita era, infatti, tutta sporca di terra per la caduta dopo la sparatoria.
Bisognava far presto a decidere, al massimo qualche ora.
L’uomo sembrava molto deciso, convinto, irremovibile: amputazione mai!
Cercai di dirgli che con un braccio solo si poteva benissimo fare il pastore e sicuramente anche sparare con il fucile e che, per fortuna, il braccio destro era sano.
Il padre e gli amici attorno lo rincuoravano, dicendo che essere vivi era molto meglio, ma lui, bello, forte, risoluto scuoteva la testa.
Si fece forza, mettendosi seduto e chiese che l'accompagnassero al suo villaggio. Aveva deciso: era meglio morire da guerriero.
Tornai a casa, quella sera, con una fitta allo stomaco. Probabilmente avevo commesso qualche errore: com'era possibile che non avessi convinto quel giovane a farsi operare e l’avessi lasciato, invece, andare a morire lontano?
Era la prima volta che ottenevo un netto rifiuto e quella sconfitta mi bruciava proprio tanto e... che tragica conseguenza evitabile!
Il ricovero di un ferito d'arma da fuoco costava caro all'Ospedale.
La direzione dell'Ospedale, già da diversi anni, aveva decuplicato il conto del ricovero per ferita d’arma da fuoco, nel tentativo di limitare e punire in qualche modo questa triste abitudine dei Karimojong di impiegare troppo spesso le armi. La degenza, infatti, di questi feriti era molto lunga, gli interventi chirurgici numerosi e le infezioni concomitanti richiedevano lunghi cicli di antibiotici.
Erano pazienti impegnativi e, tra questi, i peggiori erano quelli con ferite d'arma da fuoco alla coscia.
Sempre, che io ricordi, c'erano in reparto uno o due di questi feriti alla coscia, con ferite devastanti e grande perdita di tessuti, che richiedevano cure continue e una assistenza infermieristica intensa.
Il proiettile che entrava nella coscia produceva, in genere, un piccolo foro d'ingresso, ma, colpendo il femore, lo frammentava in mille pezzi. Quando il proiettile roteando usciva dalla coscia, produceva un altro foro, questa volta di oltre 20-25 centimetri, e trascinava con sé all'esterno frammenti d’osso.
I feriti che arrivavano vivi in Ospedale, per la grave emorragia richiedevano un intervento in sala operatoria di pulizia e controllo dei grandi vasi per scongiurare altre perdite di sangue. Si procedeva quindi a posizionare un robusto filo d’acciaio sull'estremità prossimale della tibia, appena sotto il ginocchio, per mettere in trazione il femore che così si sarebbe messo bene in asse, impedendo gravi deformità.
Il malato veniva adagiato, infine, in un letto speciale che permetteva di appoggiare la coscia su una base inclinata, con l’arto ben teso, grazie alla trazione di due o tre pesanti sacchetti di sabbia che garantiva una certa immobilità della coscia e di conseguenza favoriva la guarigione anche se molto lenta.
Questi malati, infatti, restavano distesi in quella posizione per molti mesi, mentre giornalmente si eseguivano le medicazioni.
Nelle prime giornate, preferivo medicarli anche due volte al giorno per pulire le ferite dal pus che quasi sempre si formava rapidamente in queste grandi cavità.
Ero ammirato da come questi feriti sopportavano, in modo incredibile, questa lunga degenza in Ospedale, apprezzando le cure delle generose infermiere che li accudivano con grande amore, anche se il tempo sembrava non passare mai.
Un pomeriggio, riuniti nella veranda della nostra casa, parlavamo, noi medici, proprio di questi pazienti, avendo quel giorno ricoverato un terzo ferito alla coscia, senza avere la possibilità di curarlo degnamente per mancanza di un terzo letto dedicato.
La discussione era animata sulle strategie da impiegare e sui nuovi materiali inventati, tutto condito anche da proposte di aggiungere altre multe a questi guerrieri, perché, tutto sommato, ci sembrava che l'Ospedale ci perdesse veramente molto, in termini di tempo infermieristico, materiale e farmaci.
In quegli anni, ne eravamo a conoscenza, molte ortopedie del mondo, e così in Italia, avevano iniziato a fare uso dei cosiddetti fissatori esterni. Questi strumenti di varia foggia, costituiti da lunghi chiodi impiantati nelle ossa, sono saldamente fissati tra loro, esternamente, da fissatori che bloccano perfettamente l'osso fratturato permettendo, come novità, la rapida mobilizzazione dell'arto.
Quella nostra discussione, molto animata e un po’ fantasiosa (nessuno di noi medici, infatti, era ortopedico e non aveva mai visto in Italia pazienti trattati in quel modo) suscitò un profondo interesse a trovare una soluzione per questi feriti.
Mancava solo l'occasione opportuna per approfondire e saperne di più e, questa, per fortuna, non tardò molto ad arrivare.
Era il dicembre 1988 e non mancava molto a Natale, il mio secondo in Africa, il primo da sposato.
La mia attesa era ovviamente piuttosto sentita, perché sarebbe tornata Monica, mia moglie, dopo due mesi e mezzo di lontananza in Italia per frequentare l'Università.
Contavo i giorni ed ero proprio impaziente.
Eravamo rimasti solo in tre medici in quello scorcio dell'anno; il buon raccolto dell'estate, l'assenza di malaria in quel periodo della secca, aveva, per nostra fortuna, ridotto notevolmente l'afflusso dei malati in Ospedale e resistevamo bene anche in pochi.
Andrea, mio fratello, aveva deciso di rientrare in Italia per una breve vacanza a Natale, indispensabile per riprendersi dalla lunga sofferenza e stress per la sua fidanzata che, in Italia, sembrava incapace di perdonargli la partenza per l'Africa per più di due anni.
Andrea volò in Italia per cercare consolazione, durante le feste natalizie, ma non gli fu facile.
I suoi pochi giorni di vacanza stavano per finire quando si ricordò di quelle discussioni sui feriti che giacevano per mesi in Ospedale e, con la scusa di cercare informazioni al riguardo, riuscì a posticipare il ritorno di qualche giorno ancora.
In ortopedia a Padova gli dissero che a Vicenza lavorava un certo dottor Castaman molto all'avanguardia nel trattamento delle fratture con moderni fissatori esterni.
Quando mio fratello Andrea lo chiamò al telefono, l’ortopedico fu cortesissimo, capì subito la situazione grave che vivevamo in Africa e decise di aiutarlo, invitandolo in sala operatoria in ortopedia a Vicenza già il giorno successivo.
Ad Andrea mancava solo il modo di documentare quella visita così felice; telefonò quindi a vari parenti in cerca di una telecamera, finché trovò nostra cugina Marina che ben volentieri gliela prestò.
Il giorno dopo, a Vicenza, il dottor Castaman tenne la seduta ortopedica come una lezione didattica proprio per insegnare, a noi in Africa, a mettere questi famosi fissatori esterni sulle ossa fratturate dei pazienti, il tutto accompagnato da un suo validissimo commento che venne perfettamente registrato da Andrea con la telecamera.
Il dottor Castaman non poteva immaginare quale fu il profitto che riuscimmo a trarre da quella sua unica lezione pratica!
Quante volte poi, a Matany, avremmo rivisto quella videocassetta, prima di accingerci al nostro primo intervento ortopedico!
Il dottor Castaman, però, non era solo un ortopedico, era anche un inventore: aveva, infatti, costruito e brevettato, proprio lui, un sistema di fissatori, semplici e per noi, tra l’altro, preziosissimi perchè avremmo potuto sempre riutilizzarli una volta sterilizzati.
Ci mancava solo il denaro per acquistarne almeno tre!
Andrea passò a salutare, in quegli ultimi giorni, don Esterino, parroco della nostra parrocchia di Sant’Alberto Magno che, cosa da non credere, lo attendeva con un assegno di alcuni milioni di lire raccolti fra i parrocchiani per Natale, proprio per il sostegno del nostro lavoro in Africa.
La cifra non era però ancora sufficiente ed Andrea, prima di partire, passando per l’Antonianum a salutare i Padri Gesuiti, uscì anche da lì con un altro assegno, sicuro, a quel punto, di avere in mano tutta la somma necessaria per il prezioso acquisto.
Questi aiuti generosi e inaspettati mi hanno sempre indotto a chiedermi se tutto ciò fosse dovuto a una semplice coincidenza o alla Provvidenza.
Anche a me era capitato, l'estate precedente, di interessarmi per l’acquisto di una bilancia di precisione per il nostro laboratorio. Proprio lo stesso giorno in cui dovevo acquistarla, ero passato a salutare, a Galzignano Terme, nei colli Euganei, don Raffaele, viceparroco del paese di Monica, e avevo ricevuto da lui, senza che gli chiedessi nulla, un assegno con l'importo esattamente uguale al costo della bilancia.
Quando a fine gennaio arrivò tutto il materiale ortopedico, organizzammo una seduta operatoria esclusivamente per quell'intervento, e conservo sia alcune foto sia un filmato che abbiamo spedito alle parrocchie dei generosi benefattori.
L’intervento fu eseguito ovviamente da mio fratello Andrea, l'unico che, in effetti, avesse partecipato ad un intervento simile, mentre io, in sala, oltre all'anestesia fotografai questo grande evento.
L'impiego dei fissatori di Castaman, così furono sempre chiamati a Matany, segnò un momento importante per l'Ospedale, per la possibilità di mobilizzare adeguatamente, nel letto, quei gravi feriti agli arti e permettere loro, in tempi veramente brevi, di deambulare con le stampelle, fabbricate nella nostra officina, invece di rimanere distesi a letto per tanti mesi.
I fissatori esterni impiegati furono costantemente riutilizzati nei feriti.
Ricordo che il primo fissatore si ruppe soltanto dopo sei anni d’ottimo servizio, quando ero già ritornato in Africa, nuovamente a Matany, dopo cinque anni passati in Italia.
Quante gambe aveva aggiustato, in quegli anni, quell’incredibile strumento Vicentino!
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