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Il dentista
Mi svegliai, quella mattina di metà novembre, con un forte mal di denti e durante la colazione cercai sollievo con un analgesico, sperando che quel dolore fosse passeggero.
Lavorai tutto il giorno con quel piccolo tormento in bocca che non mi dava pace.
Ero tornato soltanto da un mese dalla mia vacanza in Italia e, preoccupato, pensavo che avrei dovuto aspettare quasi un anno, prima di rientrare a Padova per un'altra vacanza, e potermi curare da mio cugino Nanni.
Quando andai a letto, la sera, non presi sonno per il mal di denti e al pensiero di come risolverlo.
In Ospedale non c’era il dentista, non c’era neppure l’attrezzatura per la cura delle carie, soltanto gli strumenti, i ferri, per le estrazioni dentarie.
Quante estrazioni di denti avevo fatto a Matany! E solo per un mal di denti!
I Karimojong, per loro fortuna, non hanno gran che bisogno di uno specialista dentista, grazie alla loro ottima dentatura e alla efficace pulizia dei denti eseguita con uno spazzolino ricavato dai rami di una pianta locale. Tutte le settimane, però, mi capitava di osservare qualche piccola carie che raramente produceva grosse lesioni.
Questi pazienti con il mal di denti arrivavano nell’ambulatorio dell’Ospedale già decisi per l’estrazione e, a noi medici, non rimaneva che sudare quattro camicie per togliere questi denti robusti con tutta la radice.
Durante questi interventi sudavo abbondantemente dalla fatica e la mia mano, dallo sforzo continuo ed intenso, al termine mi sembrava quasi paralizzata. Dovevo inoltre fare tanta attenzione a non fratturare quei denti, tra l’altro robustissimi, e aiutarmi con delle leve, per lussare pian piano quel dente malato, per facilitarmi quel mio lavoro davvero tutto muscolare.
Dopo aver eseguito l’anestesia, facevo sedere il paziente su una sedia dell’ambulatorio; quale poltrona! Quale luce se non quella della finestra!
Sudavamo in due. Anche il paziente con la bocca aperta per venti, anche quaranta minuti, sicuramente pativa, almeno come me, sentendosi quella grossa pinza in bocca e la mia potente trazione.
Il giorno successivo presi la decisione di andare in capitale; sicuramente là avrei trovato un dentista.
500 chilometri per una carie, 12 ore di viaggio di sola andata, erano incredibilmente tanti per togliermi quel maledetto mal di denti, ma non vedevo altra alternativa.
Quanto ero fortunato ad essere un ricco bianco che poteva spendere tutti quei soldi! Ero solo nato dall’altra parte del pianeta, nel Nord invece che nel Sud!
Questa fortuna me la sentivo sulla pelle, mi sentivo un vero miracolato guardando così da vicino, a Matany, le disgrazie di quel mondo povero, poverissimo, spesso davvero misero per i lunghi anni della guerra appena finita.
Per tantissimi anni, ai miei figli e a mia moglie ho sempre detto, con convinzione, alzandomi la mattina, che mi sentivo felice come se avessi vinto la lotteria. Ero solo nato nel Nord del mondo!
E facevo tanta fatica, una volta tornato in Italia, a capire le piccole, banali sofferenze che vedevo intorno a me.
Non occorreva prendere appuntamento dal dentista a Kampala, ci si metteva in fila nella sala d’aspetto e si attendeva il proprio turno. Ero soltanto angosciato, non certo dal pensiero della cura dentaria, ma dalla possibilità che gli strumenti non fossero sterili. Quanto AIDS, pensavo, è stato trasmesso in Africa anche dai ferri chirurgici malamente e inadeguatamente disinfettati o sterilizzati!
Questo pensiero mi metteva proprio tanta paura e, quando sedetti sulla poltrona, al dentista, in impeccabile camice bianco, dissi subito che ero un medico, nella speranza di aver un trattamento di riguardo.
Il dentista ugandese non mi fece l’anestesia e, con il trapano, affrontò la carie sul dente mentre io stavo immobile come una statua, a bocca spalancata, e in pochi minuti completò il suo lavoro con una otturazione.
Tra le mie gambe tenevo stretto il mio zainetto, pieno di mazzi di banconote ugandesi, non sapendo assolutamente quale fosse l’entità del lavoro e il suo costo.
Ricordo che bastò un solo mazzo. Ero guarito!
Poco dopo camminavo per il centro della città ancora stordito dalla tensione vissuta in quella sala d’aspetto, ma felice, soprattutto, che nessuno strumento mi avesse ferito: non c’era stata nessuna perdita di sangue.
Benedicevo il Signore, ad alta voce, percorrendo quelle vie affollate di Kampala, piene di venditori di ogni tipo di mercanzia.
Mi fermai davanti ad un povero venditore che per terra, sul marciapiede, esponeva pochi libri usati. Mi attrasse un libro con il titolo in inglese “La storia di San Michele”. Pensai che leggere la vita di un santo mi avrebbe fatto proprio bene e sarebbe stato inoltre un buon esercizio d’inglese. Presi qualche banconota dalla tasca e, senza contrattare, come ero solito fare, pagai il libro.
Quel libro fu per me una bellissima esperienza; lo lessi a Matany con tanta passione perché, diversamente da quello che credevo comprandolo, raccontava la storia di un medico svedese, Axel Munthe, vissuto a cavallo tra l‘800 e il ‘900. Lo scrittore, medico di successo della Parigi bene di quel tempo, visse anche in Italia, dove si adoperò moltissimo nel curare soprattutto i poveri, e questo suo cambiamento mi affascinò enormemente.
Conquistato dall’isola di Capri, a quel tempo selvaggia e povera, ma per lui, nonostante tutto, il posto più bello al mondo, decise di costruirsi una casa a S. Michele di Anacapri, da cui il titolo del libro, e lì passò il resto della sua vita.
Il libro, comprato sul marciapiede di Kampala, mi piacque così tanto che, tornato in Italia, ne comprai un’edizione in Italiano, che rilessi con maggior gusto, e scoprii che, per decenni nella metà del ‘900, era stato un noto best seller.
Nel 2000, ebbi l’occasione di partecipare ad un congresso di Anestesia a Napoli e decisi, l’ultimo giorno, di recarmi a Capri alla ricerca proprio della vecchia casa del dott. Munthe. Non fu difficile trovarla ad Anacapri, dove numerosi cartelli la segnalavano come meta turistica.
Provai una fortissima emozione nel visitare la casa e il giardino, ora museo svedese, minuziosamente descritti nel libro di questo affascinante medico di quasi 100 anni fa.
Dalla terrazza del giardino, curato con la stessa passione dell’autore, e che guarda sul golfo di Napoli, potevo osservare, per la sua splendida e alta posizione, gran parte dell’isola. Proprio da quella splendida terrazza telefonai a Monica, a Padova, per raccontarle di quelle intense emozioni per quella bella scoperta e la fortuna di aver fatto un tuffo nel mio passato africano, così ricco di forti ricordi.
“La storia di S. Michele” è stato uno dei tantissimi libri che mi hanno accompagnato nei tre anni di Africa, soprattutto durante le lunghe serate, al termine del lavoro.
Tra i tanti libri, un altro, che ricordo con piacere, fu “ I love you”, sempre in Inglese, che mi diede Mary, un’infermiera del mio reparto, pochi mesi dopo il mio matrimonio. Per Mary, infermiera esperta, instancabile, autorevole anche con i banditi e guerrieri più feroci, provavo un rispetto reverenziale. Sentivo che lei era una persona veramente speciale, dedita al servizio del prossimo e in particolare del malato con uno spirito evangelico travolgente che mi lasciava ogni volta stupefatto. Ogni sua azione, ogni sua parola sembrava un autentico, spontaneo, gesto d’amore.
Accolsi, quindi, quel suo libro come un dono importante, pensando che, dato da lei, avesse un significato speciale.
Il libro, scritto da un Reverendo africano protestante, in realtà, era un manuale per una sana vita sessuale tra sposi, per rendere la relazione matrimoniale più solida, intensa, e ricca di affetto e di reciproco rispetto.
Un regalo davvero opportuno a chi, come me, aveva appena iniziato la vita matrimoniale e un modo interessante per conoscere anche più da vicino un aspetto importante della realtà dell’Africa.
Le fui molto grato e ancora una volta ero ammirato per quella sua attenzione speciale verso chiunque e, in Ospedale, soprattutto per i malati, i poveri e i bisognosi.
L’Ospedale di Matany rimase ancora per diversi anni senza dentista, ed era affidato ai medici, solitamente al termine delle visite ambulatoriali, il compito di eseguire quelle faticose estrazioni, che mi sembravano sempre vere mutilazioni, necessarie soltanto per lenire un odioso mal di denti.
Nel 1994, ai primi d’agosto, arrivò dall’Italia un vero dentista, giunto però nel nostro Ospedale, incredibile a dirsi, non per fare il dentista, bensì il medico.
Dopo tanta mia insistenza, ma ci vollero molti mesi per convincerlo, si impegnò finalmente a cambiare la realtà di Matany, nel campo odontostomatologico.
Questo dentista, dopo una carriera di professionista in Italia, era stato folgorato dall’idea di dedicare ai più bisognosi un anno della sua vita.
Alla Direzione CUAMM a Padova, in quell’anno di pesanti tagli governativi alla cooperazione sanitaria italiana per l’Africa, non pareva vero che si presentasse un ricco medico che si auto finanziasse completamente, e, in più, disponibile per molti mesi, per qualunque progetto sanitario.
Fu mandato rapidamente a Matany, sotto le mie direttive, perché ne facessi un valido medico.
Quell’agosto 1994 fu per me pesantissimo, non solo per la mole di lavoro ordinario tra i reparti e la sala operatoria ma anche per l’arduo compito, capitatomi tra capo e collo, senza preavviso, di insegnare medicina ad un dentista che da più di 12 anni faceva soltanto, onestamente il suo mestiere.
Più volte ho cercato di convincerlo, inutilmente, in quel primo mese, a dedicarsi a svolgere, anche in Africa, il suo prezioso lavoro di dentista. Lui, risoluto, aveva escluso che i denti fossero una priorità medica, ed era veramente deciso a dedicare all’Africa, per un anno, la sua laurea di Medicina, riservata prima, esclusivamente, ai denti dei suoi pazienti.
Il suo impegno nello studio era ammirevole e passava tutte le ore di riposo e molte ore della notte sui libri, mentre, in Ospedale, era la mia ombra.
Per lui tutto era nuovo e tutto una scoperta sbalorditiva, e, perciò, perdevo molto tempo a spiegargli davvero tutto, in reparto, in ambulatorio e in sala operatoria.
Alla sera, quando tornavo a casa da Monica, le dicevo che ero disperato e che avrei mille volte preferito insegnare ad un africano, mentre ero costretto a sfinirmi dietro all’incredibile sogno di quel dentista.
Dopo un mese, l’impaziente dentista cominciò a chiedermi, con rispettosa insistenza, tutti i giorni, di poter operare e io non sapevo più cosa fare, per trovare delle scuse e per rinviare quel suo traguardo tanto desiderato.
Un pomeriggio, venne in sala operatoria, molto determinato. Si lavò, con cura, per dieci minuti le mani con acqua e sapone, osservato attentamente da me. Indossò infine i guanti sterili e con questi si aggiustò gli occhiali e il cappellino!
Gli urlai, preso dal furore: “Fuori dalla sala operatoria, non sei ancora pronto per operare! ”
Quella sera, via radio, con voce tremante ed alterata, informavo il Coordinamento di Kampala che il tirocinio del dentista, a Matany, era finito e che lui sarebbe stato accettato ancora in Ospedale soltanto come dentista, non più come medico.
Avevo sicuramente perso la pazienza, forse ero davvero sfinito da quell’impegno gravoso. Un mese era effettivamente troppo poco per valutare una persona e giungere a delle conclusioni definitive. Concordai infine, con il Coordinamento in capitale, che sarebbe stato salutare, anche per me, che il dentista andasse in un altro Ospedale, al centro dell’Uganda, dove un altro medico, una ginecologa, l’avrebbe istruito nel difficile campo dell’ostetricia, indispensabile per poter lavorare in un Ospedale rurale africano.
Il tenace dentista partì e tornò a Matany qualche mese dopo, a Natale, alla mia condizione, che, finalmente, si dedicasse ad avviare un ambulatorio dentistico.
Questo suo nuovo lavoro nell’ambulatorio dentistico, anche se di poche ore al giorno, mi compensò ampiamente della mia fatica nella sua formazione di medico ospedaliero.
Fummo veramente tutti soddisfatti, quando fu messa in funzione la poltrona da dentista, con tutti i principali strumenti per curare le carie dei denti dei Karimojong.
Con il tempo il dentista riuscì anche a formare un tecnico ugandese e si ridusse, finalmente, il numero delle estrazioni dentarie, quel pesante lavoro, tutto muscoli, che lasciava inoltre orrendi buchi a quei bei sorrisi, così bianchi e splendenti, sui volti neri dei Karimojong.
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