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Il monte Moroto
Ogni mattina, appena alzato dal letto, aprivo le tende delle due finestre della camera. La prima finestra, rivolta esattamente ad est, aveva un panorama davvero suggestivo e perciò era sempre la prima che andavo a spalancare perché la vista sulla sconfinata savana africana, senza nessun edificio che ne limitasse la visuale e con il maestoso massiccio del monte Moroto all’orizzonte, era di una bellezza straordinaria. L’altra finestra, invece, rivolta a sud, era assolutamente anonima, si apriva soltanto sul nostro piccolo orto, chiuso da un'alta siepe che separava la nostra casa dal giardino dell'ospedale, sempre molto affollato di pazienti e dei loro parenti.
La vista della montagna di Moroto, oltre che affascinante, mi destava sempre un immenso desiderio di scalarla, di esplorarla. Appariva così vicina, soltanto 40 chilometri, così bella e imponente che mi sembrava impossibile, per più di due anni nella mia precedente missione a Matany, non aver avuto modo di organizzarvi una sola escursione. L'altezza non era proprio proibitiva, solo 3100 metri, la cima più alta, e l'aspetto non era certo quello di una montagna impegnativa. Il Moroto era abitato da una popolazione, i Tepes, presente anche negli altri due massicci principali del Karamoja, il Kadam e il Napak, ed erano loro, probabilmente, i più antichi abitanti di quella remota regione dell’Uganda, emigrati sulle montagne per sopravvivere all’arrivo dei Karimojong, pastori nomadi, forti guerrieri, insediatisi in quel territorio qualche secolo fa.
Ad un occhio inesperto, come era il mio, non c'era una grande differenza tra questa popolazione delle montagne e quella dei Karimojong. La semplicità e la povertà del loro modo di vestire e di vivere era assai simile. Qualche differenza si poteva più facilmente osservare sugli ornamenti delle donne, in modo particolare sul numero di collane attorno al collo, molto più numerose nelle donne Tepes. La povertà di questa popolazione era anche legata al fatto che, timorosa della più forte popolazione dei Karamojong, viveva segregata sulle montagne. Inoltre era ben noto ai medici dell’ospedale che il loro accesso ai servizi sanitari era così raro che, ricordo bene, ne ho anch’io curati proprio pochi.
L'arrivo recente di un medico italiano nella cittadina di Moroto, alle pendici del massiccio, aveva finalmente indirizzato una parte delle risorse sanitarie verso questa gente, grazie anche al lavoro di un'associazione di volontari di Piacenza, che da qualche anno aveva aperto un ambulatorio in una vallata del versante sud del massiccio.
È incredibile come una società povera come quella dei Karimo jong avesse al suo interno delle minoranze ancora più povere ed inoltre così difficilmente visibili ed accessibili per le pochissime piste che salivano sul massiccio.
Il mio pensiero fisso al mattino, aperta la finestra, era sempre, dopo la grande meraviglia per il colpo d’occhio, come poter salire quella montagna! La realtà, purtroppo per me, era che di occasioni per andarci non se ne presentavano proprio, perché il lavoro mi impegnava tanto in ospedale, dal lunedì al sabato, proprio i giorni in cui Pierluigi, il medico che lavorava nella cittadina di Moroto, organizzava le campagne di vaccinazione con la sua équipe sanitaria.
Non mi restava che prendermi un giorno di vacanza e seguire il dottor Pierluigi nel suo lavoro, ma non era facile staccarmi dalla mole di lavoro quotidiano.
Ricordo, quindi, la mia prima volta sul Moroto come un avvenimento eccezionale, davvero molto atteso. Poter uscire, almeno un giorno dall’ospedale, è stato veramente tonificante, rigenerante, ma un altro motivo per cui ricordo quella giornata è stato per un fatto doloroso che mi è capitato in quei giorni in ospedale.
Nei giorni precedenti l’escursione, avevo trovato, nel magazzino dell’ospedale un cardiotocografo, un’apparecchiatura che permette la registrazione del battito cardiaco fetale durante il travaglio di parto ed ero riuscito a sistemarlo in tutte le sue parti, nonostante fosse estremamente malandato. Questo strumento non era mai stato utilizzato prima in ostetricia a Matany.
La sera prima di andare sul monte Moroto avevo chiesto all'ostetrica di poterlo provare sulla prima paziente che entrava in travaglio ma non sapevo neppure se il pennino avrebbe registrato la frequenza dei battiti cardiaci fetali sulla carta millimetrata.
Prima di salire in macchina, per andare a Moroto, la capo ostetrica, vedendomi, mi disse, tutta contenta, che in sala parto aveva applicato i sensori del cardiotocografo ad una paziente che conoscevo bene e che era ricoverata in ostetricia per una gravidanza molto problematica ma allo stesso tempo tanto desiderata. Ero dispiaciuto di non essere in reparto quel giorno, ma la presenza di un ottimo chirurgo, il direttore dell’ospedale, mi dava tranquillità e perciò mi avviai spedito verso casa a prendere la macchina per caricare la mia famiglia che avrebbe passato da amici una giornata nella cittadina di Moroto, mentre io con Pierluigi saremmo saliti sulla montagna.
Poco dopo le nove eravamo puntuali di fronte all'ufficio del dottor Pierluigi, presso il distretto medico di Moroto, mentre lui era indaffarato a caricare nel suo fuoristrada i frigoriferi portatili che contenevano la scorta di vaccini per quella giornata. Con noi, oltre agli autisti, c'erano anche due infermiere, degli operatori sanitari di villaggio e due ostetriche.
Il tempo era proprio bello, da alcuni giorni non pioveva e questo fatto era senz'altro fondamentale per avventurarsi sulla pista che portava al versante nord del massiccio del Moroto. Dopo circa due ore di viaggio ci fermammo in una verde vallata presso un villaggio Tepes, il primo che incontravamo quel giorno. La gente ci aspettava perché, di settimana in settimana, era preannunciato l'arrivo di un team sanitario. Lasciammo quindi le auto perché non c'era modo di proseguire oltre se non a piedi lungo i sentieri di montagna.
Una parte del personale sanitario, scaricata l'attrezzatura assieme ai tavolini e le sedie pieghevoli, organizzò in un attimo un piccolo ambulatorio per il controllo delle gravide e la vaccinazione dei bambini, all’ombra di un bell’ albero alto e ombroso. Per Pierluigi, il sottoscritto e il resto dell’équipe iniziava invece la salita verso i villaggi più in alto, a noi invisibili per la foresta che rivestiva fittamente la montagna. Subito dovemmo guadare un torrente che scorreva impetuoso immergendoci fino alla cintola nell’acqua fresca e limpida e tenendo l'attrezzatura alta sopra la testa. Ero felice! Finalmente ero a contatto con la montagna, immerso in una vegetazione ricca e così diversa dalla savana che circondava l’ospedale di Matany.
Il sentiero che saliva sulla montagna era davvero bello: si vedeva chiaramente che era percorso da tanta gente e dai loro animali, tanto era pulito.
Salendo la vallata abbiamo incrociato più volte il torrente e guadarlo, ogni volta, era per me una gran festa. Immergevo il cappello nell'acqua e poi lo indossavo per sentire il freddo sulle tempie. Desideravo veramente che quel giorno non finisse mai!
Più salivamo la montagna, più la foresta prendeva degli aspetti alpini con alberi alti e un sottobosco simile alle nostre pinete. In lontananza sentivo l'eco dei richiami delle scimmie che, saltando sugli alberi, ci seguivano a debita distanza.
I villaggi che incontravamo erano piccoli con poche capanne, la gente usciva dai villaggi per venirci a salutare con molto rispetto e i nostri operatori sanitari, che parlavano molto bene la loro lingua, spiegavano il motivo della nostra visita. Non furono molti i bambini che vaccinammo quel giorno, ma la gratitudine di quella gente era il segno più evidente che il nostro lavoro era considerato molto importante.
Invidiavo molto l’attività di Pierluigi così varia di giorno in giorno, sempre a contatto con la gente nei villaggi e vedevo in lui, oltre un medico, un esploratore di quella montagna, un conoscitore delle leggende e dei miti che imparava dai suoi collaboratori. Mi sentivo, al suo confronto, un medico recluso nell’ospedale, soffocato dal lavoro, giorno e notte, senza mai un attimo di tregua per guardarmi attorno. Ricordo che mi era capitato di non uscire dal cancello d'ingresso dell'ospedale anche per due mesi di fila!
Il ritorno al lavoro, il giorno seguente, benché rinfrancato da un giorno di riposo, che quasi mi sembrava una settimana, fu funestato da un’infelice notizia. La paziente, quella del cardiotocografo, applicato perché aveva iniziato il suo tanto atteso travaglio, aveva subito un taglio cesareo di emergenza, il pomeriggio precedente, che, però, non aveva salvato il suo prezioso e tanto sospirato figlio, morto purtroppo per grave sofferenza fetale.
Ascoltando in silenzio, sconsolato, quelle ferali notizie, mi sentivo male, in colpa, come tutte le volte che qualcosa andava storto nel mio reparto o accadeva qualcosa di imprevisto. Quel giorno non c'ero! Ero in gita! Possibile che il lavoro in ospedale non avesse mai un giorno di tregua?
Il pomeriggio successivo, entrato in sala parto per visitare una paziente, mi accorsi del cardiotocografo, spento e messo in un angolo della stanza. Mi avvicinai curioso e presi in mano il pacco di carta, rosa a quadretti, ben piegata, riposta sulla macchina. Cominciai ad osservare attentamente il tracciato che il pennino aveva disegnato con assoluta precisione e srotolai tutta la carta, sempre più sorpreso che la macchina avesse perfettamente funzionato. Chiamai l'ostetrica e chiesi la cartella clinica della sfortunata signora che aveva partorito il giorno precedente. Distesi la carta millimetrata sul lungo tavolone della sala parto, sotto le finestre per vedere meglio, e cominciai ad osservare il partogramma, il foglio che le ostetriche compilano con ogni loro osservazione durante il travaglio. Su quel foglio si ricostruiva benissimo la storia di quel disgraziato parto, con la discesa verso l'esterno del feto che ad un certo punto si interrompeva, poi la chiamata del medico di guardia e l'orario della decisione del taglio cesareo per il battito fetale insufficiente, chiaro indice di gravità. Sull'altro foglio, quello millimetrato del cardiotocografo, attimo per attimo, era invece registrata la frequenza cardiaca fetale che, durante il mattino, appariva normale, ma con l'inizio del pomeriggio iniziava a presentare bruschi rallentamenti, alternati a delle riprese per poi, un’ora più tardi, avere una vistosa e persistente flessione fino a scomparire. Il tracciato s'interrompeva proprio nel momento del taglio cesareo. Guardavo esterrefatto i due documenti, uno automatico, registrato dalla macchina e l'altro umano compilato dall'ostetrica. Era proprio evidente che il cardiotocografo era stato applicato a quella paziente senza che nessuno sapesse minimamente interpretarlo. Frastornato da quella scoperta, presi i due documenti e andai subito, infuriato, dai colleghi ugandesi. Rimasi sbalordito nel sapere che nessuno di loro aveva mai visto un tracciato cardiotocografico; nemmeno nella capitale, nell'Ospedale Universitario, era disponibile un’attrezzatura come quella, che a miei occhi appariva vecchia e obsoleta. Rimasi proprio male nel vedere documentato in modo così preciso una catastrofe, con i suoi segnali premonitori, ben ripetuti, fino allo sfacelo irreparabile: un battito cardiaco normale che successivamente inizia a presentare segnali vistosi di cedimento fino al crollo totale. La reazione delle ostetriche era stata molto tardiva e il taglio cesareo davvero inutile. In quel momento avrei voluto urlare, imprecare per il lavoro malfatto che quella registrazione testimoniava, come una telecamera che avesse spiato, quel giorno, in sala parto il lavoro delle ostetriche. Sentivo la rabbia salirmi dentro, avrei voluto insultarle.
Mi sforzai di calmarmi andando a lavorare in un altro reparto per cercar di capire poi, a mente fredda, il da farsi. Durante la serata decisi di indire una riunione con il personale dell'ostetricia e i medici dell'ospedale per analizzare quel caso.
Il giorno successivo, dopo pranzo, nella saletta di preparazione dei farmaci dell'ostetricia, erano tutti presenti. Presi la parola per illustrare, momento dopo momento, tutto il travaglio di quella poveretta e della sua creatura, evidenziando quanto carente fosse stato il controllo sanitario su quella paziente, e come le decisioni fossero state tanto tardive quanto inutili. Mi fu fatto notare, con assoluta calma, che il lavoro quella mattina era stato particolarmente pesante e che, dopo pranzo, l'unica ostetrica presente si era trovata a dover gestire il reparto, la sala parto e l'ingresso delle nuove ricoverate. Tutta quella mole di lavoro aveva tenuto lontano dalla sala parto l’ostetrica nel suo lavoro più importante e prezioso, mentre il dramma, lentamente, si consumava. Leggevo sui loro volti che tutto quello che era accaduto era assolutamente inevitabile. Solo io mi sentivo in colpa, sicuramente per aver utilizzato una macchina che nessuno sapeva pilotare. Avevo registrato nient'altro che un caso sfortunato, nel momento sbagliato! Quanta sfortuna aveva portato quel suo unico utilizzo!
Che questo evento drammatico sia rimasto così amaramente legato alla mia prima avventura sul Moroto è ben evidente, e non c'è dubbio inoltre che il lavoro ospedaliero, con quello che capita quotidianamente, porta sia momenti davvero belli che momenti da dimenticare, tristi e funesti come solo la medicina può dare.
La gita sul monte Moroto con il dott. Pierluigi era stata senz'altro una boccata d’aria fresca che mi aveva caricato le batterie per lavorare meglio in ospedale. Dopo quel primo assaggio della montagna, il mio successivo obiettivo è stato quello di raggiungere una delle cime.
Ad una visita successiva di Pierluigi nel nostro ospedale, spesso veniva per portare dei malati, gli feci presente che desideravo tanto, prima di rientrare in Italia, tentare di raggiungere la vetta. Sapevo che la stagione più favorevole per avventurarsi in quota era da dicembre a marzo, quando l'assenza delle piogge garantiva strade, già normalmente in condizioni terribili, almeno praticabili e i sentieri di montagna asciutti.
Fu proprio a fine gennaio, sfruttando un weekend di vacanza, che organizzammo con Pierluigi, un missionario Comboniano, e Maria, volontaria di un’associazione di Piacenza, di raggiungere a circa 1600 metri un ambulatorio, costruito qualche anno prima, con vicino un magazzino, dove erano stati portati dei letti e dei materassi, che permettevano di dormire, come in un rifugio di montagna, ad una decina di persone.
Questa volta con me c'era tutta la mia famiglia. Desideravo molto mostrare loro un paesaggio totalmente diverso da quello che erano abituati a vedere a Matany, soprattutto in quel periodo dell'anno, così arido, mentre non lontano, in montagna, il paesaggio cambiava totalmente.
Partimmo presto la mattina per raggiungere quella vallata sul versante sud del Moroto, in direzione del Kenya, perché la strada sulla montagna permetteva soltanto un'andatura quasi a passo d'uomo. Andando così piano si riusciva, all'interno della macchina, ad attutire i colpi degli scossoni dovuti alle buche e ai sassi presenti sul sentiero. Con quell’andatura il paesaggio sembrava cambiare molto lentamente, da quello della savana delle pendici, a quello più alpino in altura. Giulia, Angela e Daniele, i nostri bambini, terminato quell’ estenuante viaggio, scoprirono subito un torrente che passava vicino al rifugio e si spogliarono felici in un attimo, come se fossero stati in riva al mare, per giocare nell'acqua, sicuramente per loro, in quel momento, il più bel gioco del mondo. Io stavo vicino a loro, ma avevo gli occhi fissi sulla cima della montagna nel tentativo di capire quale era il percorso migliore per salirvi.
Mentre mia moglie Monica e Maria preparavano all'aperto il fuoco per cucinare la cena, il dottor Pierluigi e il padre missionario avevano rapidamente trovato due pastori Tepes disponibili l'indomani mattina a farci da guida fino in cima.
Alle sette di sera era già buio pesto, le stelle brillavano nel cielo come piccoli fuochi e il crepitio del nostro focolare rendeva suggestiva e indimenticabile quella giornata. Era bello condividere quel momento, noi come famiglia, con Pierluigi, l’unico altro medico italiano in tutta la regione, Maria, la volontaria, e un missionario che aveva dedicato tutta la sua vita a quelle popolazioni, arrivando a scrivere per primo una grammatica della lingua Karimojong.
Per me e Monica quella era la conclusione della nostra avventura africana perché da lì a pochi giorni saremmo rientrati in Italia e perciò ci piaceva condividere con altri volontari quel momento di saluto in modo veramente speciale. Pensavo anche al mio lavoro, che concludevo in quei giorni in ospedale, con un’ultima bella soddisfazione. Mi era giunta pochi giorni prima, una lettera di incoraggiamento da un grande luminare italiano di anestesia pediatrica, cui avevo mandato i risultati della mia esperienza riguardo ad una tecnica innovativa che ero inoltre riuscito ad insegnare al tecnico di anestesia dell'ospedale per affrontare numerosi e impegnativi casi pediatrici. Quella lettera mi riempiva di orgoglio e di entusiasmo per i risultati ottenuti e rendeva più sereno il mio rientro in Italia.
Rimaneva solo da scalare la vetta del Moroto e, anche se indossavo le scarpe da ginnastica, non avevo nessun dubbio di arrivare in cima!
Per superare i 1500 metri di dislivello, fino alla vetta, avevamo fissato la partenza con il buio, alle 4. 30, perché, per poter rientrare a casa la sera in Ospedale, dovevamo ritornare al rifugio non oltre le 2 del pomeriggio. Pierluigi ed io avevamo nei nostri zaini le borracce con l’acqua e come cibo i biscotti che Monica aveva preparato e molte zollette di zucchero anche per i due pastori Tepes.
Non avevo mai affrontato una gita notturna in montagna e devo dire che presenta degli aspetti notevolmente affascinanti e il sentiero era così ben tenuto per il passaggio degli animali diretti ai pascoli più alti, che raramente ho trovato un sasso o ho rischiato di inciampare. Sin dalla partenza abbiamo sempre indossato un golf leggero e la giacca a vento, prima per il freddo della notte e successivamente, dopo il sorgere del sole, per il forte vento presente in quota, caratteristica questa proprio di quella stagione dell'anno.
Raggiungemmo la cima tutti insieme: dal precipizio potevamo osservare lo splendido panorama su tutto l’altopiano, da sud a nord del Karamoja, mentre alle nostre spalle, al di là delle montagne, si vedeva l’enorme depressione della valle del lontano lago Turkana, in Kenya. Di fronte a noi si intravedeva il nostro ospedale che è stata la mia casa, la mia vita per quei lunghi mesi, in un'esperienza indimenticabile assieme a Monica, ai nostri figli e alle suore Comboniane, ricca di emozioni e di avventure, caratterizzata dall’arte dell’arrangiarsi e d’inventare ogni giorno cose nuove.
Ero in cima, davvero tanto felice!
Che soddisfazione dopo aver visto per così tanto tempo dalla finestra quella splendida montagna! Eccola, finalmente dominata!
Scendevo a valle con il cuore leggero, nonostante le molte vesciche ai piedi mi dolessero come aghi piantati sulla carne, per le calzature non adeguate. I due pastori Tepes, a piedi nudi, con il loro passo sicuro ed elegante tenevano tranquilli la nostra andatura apparentemente non affaticati. Arrivando al rifugio, esausto dalla fatica, i miei figli e Monica mi corsero incontro, felici, ad abbracciarmi e raccontarmi le loro numerose avventure di quella giornata, gli incontri con i tanti bambini, piccoli pastori dei villaggi della montagna, che erano accorsi per vederli perché così diversi da loro, così bianchi, con i capelli lisci, come in uno spettacolo indimenticabile, mai visto prima.
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