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Safari al Parco
Nel gennaio del 1995, qualche settimana prima di andare a visitare per la prima volta un parco africano, esattamente il parco del Kidepo, all'estremo nord-est dell'Uganda, avevo appena finito di leggere un vecchio libro, scritto da un ingegnere che aveva partecipato, verso la fine dell'800, alla costruzione della rete ferroviaria del Kenya. Il libro si intitolava “Il mangiatore di uomini” e raccontava di un enorme leone che ogni notte, nella sperduta savana, uccideva e poi divorava uno degli operai del suo cantiere. Per trenta giorni di fila il ruggito aveva fatto tremare di paura gli oltre mille lavoratori accampati senza altra difesa che i fuochi accesi davanti alle loro capanne e immancabilmente ogni notte il terribile mostro riusciva, indisturbato, a compiere la sua terrificante impresa. Anche un collega dell’ingegnere, giunto al campo con la moglie, fu azzannato nel sonno mentre la moglie, nel dormiveglia, aveva sentito solo un lieve fruscio, quello del corpo del marito, trascinato all’esterno per la testa dall’ indomita fiera.
Essere al parco del Kidepo con i leoni che di notte si muovono liberi, anche tra le capanne, in cerca di una preda, mi rendeva, al pensiero della lettura recente, nervoso, preoccupato e molto guardingo tanto che nella capanna, in cui dormivo con mia moglie e i nostri tre figli, ricordo di aver bloccato la maniglia con una sedia, nel tentativo di rendere più sicura la porta che mi appariva poco robusta.
In tutto il campo, oltre ai guardaparco e alle loro famiglie, c'eravamo soltanto noi e il direttore del campo, un giovane inglese, che dormiva, invece, tranquillo, in una semplice tenda di fronte alla nostra capanna.
Eravamo i soli turisti passati in quel parco da Natale quando, ci disse il direttore, ne erano arrivati appena quattro. Il campo era in costruzione, c’erano soltanto tre capanne pronte e la nostra era stata appena dipinta. Per fortuna, Monica, previdente e accorta come sempre, aveva portato tutto l'occorrente per pranzare, perché l'unica cosa che abbiamo potuto trovare lì è stato del tè caldo ma, incredibilmente, senza lo zucchero.
Il parco del Kidepo è situato così lontano che è, per i turisti, raggiungibile in pratica solo con piccoli aerei. Per noi che eravamo in Karamoja, invece, era relativamente vicino, circa sei ore di fuoristrada, ovviamente nella stagione secca. Questo parco è un’immensa area popolata da molte specie di animali, le superstiti della furia dell'uomo che una volta conosciuto il fucile, le ha spinte a rifugiarsi in quest’ultima e remota area dell’Uganda.
Molti anni dopo ho visitato un altro parco, quello del Ruhaha, in Tanzania, e questo merita un racconto più dettagliato.
La casa dove, nell’aprile del 2006, abitavamo ad Iringa, graziosa cittadina tanzaniana, era una bella villetta nel quartiere più “in” della città. La scelta di quella casa, con tanto di giardino e casa del custode, era dovuta al numero elevato di posti letto, almeno una decina, necessari per il progetto di cooperazione e quella era tra le pochissime libere in città ad avere molte camere da letto, oltre ad un arredamento completo, luce, acqua e telefono.
Mentre di giorno era il custode a sorvegliare la casa, la sera arrivava puntuale alle sette, Angelo, una persona con un volto così provato da farlo apparire molto più anziano. Lui e i cani, due pastori tedeschi, lasciati liberi attorno alla casa, solo durante la notte, garantivano il nostro sonno.
Una notte, poco prima delle cinque, mentre ero ancora profondamente addormentato, il mio sonno sereno fu interrotto dall’insolito rumore di un’auto. Svegliatomi mi accorsi che il rumore proveniva dal giardino di casa: qualcuno dunque era entrato da noi in piena notte. Cercai di cogliere qualche altro rumore, come la voce del guardiano, ma non sentii nulla. Ebbi il timore che i ladri o dei banditi fossero entrati in giardino e così, alzatomi, chiusi subito la porta della mia camera a chiave. Chi poteva essere a quell’ora? Decisi di capire cosa stesse succedendo e così aprii la porta e chiesi a Monica, che intanto si era svegliata, di chiuderla dietro di me. Uscii in giardino e, sorpreso, trovai una persona con un largo cappello verde militare, che stando appoggiato comodamente al cofano della sua macchina mi disse di essere venuto a prenderci per portarci al parco nazionale del Ruhaha. C'era stato un malinteso, pensai subito. Pochi giorni prima, infatti, avevo organizzato una visita al parco del Ruhaha, prenotando una macchina con autista che però era venuto una settimana in anticipo. Dopo aver chiarito l’equivoco, concordai con la guida l'appuntamento per il sabato successivo e infine ci salutammo, mentre lui continuava a scusarsi per avermi svegliato e disturbato. Non era stata certamente la sveglia improvvisa ed anticipata, quanto la paura di dover affrontare i banditi che mi aveva dato una profonda agitazione fino a togliermi definitivamente il sonno quella notte.
La Tanzania è un paese pacifico ed episodi di banditismo sono proprio assai rari, ma la gente, di notte, ha lo stesso paura e preferisce difendersi adeguatamente dai ladri. Chi se lo può permettere assolda delle guardie notturne, altri liberano di notte dei cani da guardia attorno alla casa. Noi avevamo entrambe queste possibilità e perciò dormivamo sonni tranquilli.
Il nostro safari era solo rinviato di una settimana ed è stato per noi una grande gioia, molto attesa dai miei figli, un'esperienza davvero straordinaria che si poteva leggere chiaramente sui loro volti ogni volta che se ne parlava.
Siamo partiti all'alba e alle nove eravamo all'ingresso della riserva situato al ponte che attraversa il fiume Ruhaha. Agostino, il nostro autista e allo stesso tempo nostra guida, aprì soltanto allora il tettuccio del fuoristrada per permetterci di osservare meglio e più in lontananza perchè, in quella stagione, l’erba era ancora piuttosto alta e rendeva difficoltoso scorgere gli animali.
Il Ruhaha park si trova in una grande vallata ad est degli altopiani meridionali della Tanzania e sulla carta geografica appare come un rettangolo di 100 chilometri per 50, decisamente molto vasto.
Proprio sul ponte sul fiume Ruhaha, abbiamo incontrato un’aquila pescatrice, ben distinguibile per la testa tutta bianca, ed è stato subito da quel momento in poi un grande spettacolo con una protagonista assoluta: la giraffa. Il parco del Ruhaha ne conta più di diecimila, più di ogni altro parco in Tanzania. La giraffa, per la sua altezza e il suo colore, si avvista facilmente, in ogni stagione, anche da grande distanza. È un animale meraviglioso, elegante nelle sue forme slanciate e per tutti noi, vederla già dai primi momenti e in gran numero, dovunque andassimo, è stata una soddisfazione davvero grande, la realizzazione di un sogno fantastico e lontano. Spesso ci comparivano all’improvviso, così vicine che alzavamo la testa per ammirarle tanto erano alte, altre invece, spaventate, scappavano lungo la strada e noi dietro con la macchina a rincorrerle, a bocca aperta dalla meraviglia.
La giraffa è l'emblema della Tanzania e star incontrastata del parco del Ruhaha e sembrava, come tutte le regine, mettere in ombra gli altri animali come le innumerevoli gazzelle, le zebre, gli ippopotami nel fiume e addirittura i possenti elefanti, pochi, purtroppo, quel giorno per via della stagione non favorevole.
Conservo gelosamente le foto delle nostre figlie, Giulia e Nadia, sorridenti, distese sul tetto della macchina, emblema della felicità presente in tutti noi. Eravamo così contenti e presi a guardarci intorno che non ci siamo mai preoccupati quando Agostino, il nostro autista, si fermava con la macchina per noie al motore. Anche la sosta più lunga per l’ultimo guasto, questa volta in un villaggio fuori del parco, sulla via del ritorno, al tramonto, ci è passata quasi inosservata, tanto eravamo presi con una venditrice intenta a cuocere i sanbusi, un tipico piatto locale di deliziose crocchette ripiene di varie verdure e davvero buone per l'aggiunta di ottima salsa piccante.
Al Ruhaha park ci sono ritornato, incredibilmente, giusto dopo una settimana, questa volta apparentemente per lavoro. Sono stato, infatti, invitato dai dirigenti dell'Ospedale di Iringa, assieme alle altre due dottoresse del progetto italiano, Marina, chirurga dell’ospedale di Vicenza, e Giorgia, chirurga di Padova, ad un meeting regionale sul management terapeutico del malato di AIDS che si svolgeva proprio all’interno della riserva. Noi medici italiani eravamo molto imbarazzati da questo invito e la ragione era sostanzialmente questa. Ci dispiaceva molto che l'Ospedale di Iringa si facesse carico di tale spesa, visto che eravamo in tre, e non riuscivamo a trovare una scusa adeguata per glissare l’invito e non c'è stato assolutamente modo di farci lasciare a casa.
L'autista che venne a prenderci a casa era un ranger del parco e conosceva la strada così bene che ci ha fatto volare letteralmente sulle piste sterrate, in sole due ore, anziché tre, come con Agostino la settimana precedente, con un fuoristrada, una Range Rover modello Defender, che lasciava dietro di sé un’immensa nuvola di polvere.
In macchina con noi, c'erano anche altri tre tecnici dell'ospedale, apparentemente indifferenti alla velocità folle dell'autista.
Quando siamo arrivati all'ingresso del parco il sole era già abbondantemente tramontato. L'oscurità aveva cambiato tutti i colori del paesaggio e la mia meraviglia divenne addirittura sbalorditiva quando, appena fuori del villaggio dei Rangers, due leoni apparvero tranquilli proprio sulla strada, assolutamente indifferenti al nostro fuoristrada e alle foto che le due dottoresse scattavano dai finestrini. Non avrei immaginato neppure lontanamente uno spettacolo così, di vero benvenuto al parco, non appena giunti al villaggio.
Il residence dei guardaparco non aveva certo l’aspetto di uno dei quattro lussuosi lodge per turisti presenti nella riserva e il numero di persone indaffarate nella cucina all’aperto, incuranti delle numerose scimmie festose che si aggiravano velocissime tra il grande albero a lato della casa e il tetto, faceva ben pensare che la cena dovesse essere ricca di ottime specialità tipiche.
Prima di cena ci hanno accompagnato ai nostri alloggi, che non erano nell’edificio centrale del meeting, d'altronde troppo piccolo per 20 ospiti, tanti eravamo arrivati dall'ospedale di Iringa e da altri due piccoli ospedali della regione. In macchina abbiamo percorso ancora un chilometro fino ad alcuni bungalows in lamiera proprio a ridosso di un’ansa del fiume Ruhaha.
Il nostro alloggio aveva un'unica entrata con due camere separate da un salottino dove su un tavolo c'era una brocca e un vaso. In ogni camera, tutte molto ordinate, c'erano due letti con le zanzariere. Rapidamente ho preso le mie lenzuola pulite e mi sono preparato il letto alla luce fioca della lanterna che un ranger mi aveva dato.
Avrei diviso la camera con il responsabile dell'anestesia dell'Ospedale di Iringa, un tecnico di anestesia di lunga esperienza, brizzolato nei capelli e nella barba, che era inoltre il mio capo in Ospedale.
Dopo quella breve sosta nei nostri alloggi, siamo ritornati rapidamente al centro del villaggio per la cerimonia di presentazione con lo staff del parco.
Quando è arrivato il mio turno, ho preso la parola un po’ emozionato e mi sono lanciato in una valanga di complimenti per la scelta del posto e per la generosa accoglienza che ho dimenticato di dire ai colleghi presenti chi ero, da dove venivo e cosa facevo ad Iringa; molte di quelle persone, infatti, le vedevo per la prima volta.
La cerimonia non è stata certo breve perché tutti hanno voluto dire qualche cosa; questo primo incontro ha creato un bel clima di fraternità che ha spostato la cena in secondo piano, sebbene la sera fosse inoltrata. Poi tutti in fila al lavandino per lavarsi le mani e successivamente nuovamente in fila, ordinati ed in silenzio, per servirsi al ricco buffet che mi invogliava ad assaggiare proprio tutto.
Con il piatto in mano, pieno di tutti gli assaggi delle varie specialità locali, mi sono seduto nella veranda ad osservare il panorama notturno che la debole luce della luna mi permetteva di vedere e che mostrava un mondo tutt'altro che addormentato e pieno invece di animali in movimento che brucavano addirittura a pochi metri dalla casa. Zebre, giraffe e anche ippopotami, allontanatisi dal fiume, lontano poco più di un chilometro, erano venuti a pascolare proprio lì, vicino a noi. Non immaginavo uno spettacolo così meraviglioso e affascinante e Marina, la chirurga vicentina, entusiasta, iniziò ad avventurarsi attorno alla casa nel buio della notte. Io mi sentivo al sicuro solo dentro la veranda e, preoccupato di questa sua spensieratezza, l’ammonivo di non avventurarsi al buio perché c'erano i leoni lì vicino, li avevamo visti insieme, e c’erano tanti altri animali feroci e pericolosi. Intanto all'interno della sala, terminata la cena, era iniziato il meeting che aveva come argomento l'organizzazione della distribuzione dei farmaci per l’AIDS e il monitoraggio del paziente trattato.
Riuscivo a seguire malamente la discussione perché in lingua swahili ed inoltre perché ero distratto dal pensiero della dottoressa che, periodicamente, spariva nel buio, per ritornare poi, radiosa, raccontandoci sottovoce nuove scoperte ed altri animali osservati.
Il meeting proseguiva con numerosi interventi diretti dal moderatore, il capo dei rangers, senza che mai nessuno intervenisse nella discussione senza essere prima invitato a parlare. Non avevo mai visto in Italia un'educazione e un rispetto simili a quelli che osservavo quella sera, abituato in Italia a vedere discussioni molto più animate con tante persone che parlano contemporaneamente ed altre che discutono in piccoli gruppi.
Lì invece regnava il massimo silenzio. Tutta l'attenzione dei presenti era per la persona che in quel momento aveva preso la parola.
Era ormai notte fonda e non capivo proprio quanto poteva durare quel meeting.
Marina scalpitava per andare ai nostri alloggi proponendoci una incantevole camminata nel buio della notte africana per rendere quell'avventura al parco ancora più indimenticabile. Per fortuna il ranger addetto alla nostra sicurezza riuscì rapidamente a dissuaderla.
Salii assonnato e ben contento, in macchina con loro per coprire quel chilometro che ci distanziava dagli alloggi vicino al fiume.
All'incrocio, che portava ai bungalows, i fari della macchina illuminarono, proprio sulla strada, un leone e una leonessa in dolce accoppiamento. Ci siamo passati proprio accanto, veloci, per fermarci ad un centinaio di metri davanti al nostro bungalow. Tutti noi eravamo attoniti per quell’ incontro inatteso.
Mi ero dimenticato di andare alla toilette durante il meeting e il ranger mi avvisò che non era proprio vicino al mio bungalow. Le due dottoresse, intrepide, con la lanterna in mano, non persero quest’occasione per andare alla toilette, posta molto vicino a dove avevamo lasciato i due leoni in amore.
Io non ci pensavo assolutamente ad andare a caccia di guai e così mi sono spostato appena a fianco della capanna per poi rapidamente entrare nella mia stanza ed infilarmi nel letto. Ho lasciato la porta chiusa senza catenaccio per non mettere in difficoltà il dottor Milulu quando fosse arrivato.
Non avrei mai creduto che la notte al parco fosse così rumorosa! Disteso nel letto al riparo della zanzariera non riuscivo proprio a prendere sonno, tanto ero disturbato dai vari rumori che udivo sia lontano che vicino. Fui subito distratto e spaventato da un rumore così pesante e profondo che immaginai dovesse essere di un grosso animale e mi pareva giusto fuori della mia capanna. Che fosse il leone che si era avvicinato al bungalow e avvertiva il nostro odore? Nel letto ero sempre più terrorizzato e il rumore di qualcosa di enorme che si muoveva di fuori non mi dava pace. Tremavo nel letto. La porta era soltanto socchiusa e avevo l'impressione di dover nuovamente urinare. Pensai fosse il caso di dare un'occhiata, fuori nel buio, attraverso la piccola finestra. Uscito dal letto, al buio, senza far rumore, provai ad osservare dalla finestrella del bungalow, mentre il rumore lì fuori era sempre presente. Mi ci volle poco per capire che c’era un grosso ippopotamo, proprio a ridosso della capanna, che brucava rumorosamente l’erba.
Potevo finalmente ristendermi più tranquillo e provare a dormire. Il tremore che avevo avuto in precedenza si era finalmente attenuato e chiusi deciso la porta con il catenaccio. Milulu, il collega anestesista, avrebbe senz’altro bussato per entrare ed io nel frattempo avrei dormito più sereno almeno per un poco. E così fu.
Mi alzai poco dopo l'alba con il rumore degli uccelli alti nel cielo; Milulu non era venuto. Avevo dormito da solo.
Vestitomi, uscii guardingo per capire come erano i dintorni. Il fiume era a pochi metri dalla capanna, scorreva placido e poco distante dalla riva stava sommerso un ippopotamo con solo le orecchie fuori dall’acqua; sorrisi pensando alla mia paura di quella notte.
Dalle altre capanne lentamente iniziarono ad uscire i vari colleghi e con loro cominciai a chiacchierare raccontando della “terribile” notte che mi era capitata e vedendo la loro ilarità, aggiungevo altri particolari come quello del leone, che credevo all'esterno della capanna, e che pensavo stesse mangiando Milulu, l’anestesista che avevo atteso, invano, per tanto tempo. Loro se la ridevano alla grande. Si era creato in poco tempo un clima di simpatia che ha reso quella nuova giornata al parco molto serena e allegra.
Durante il safari, che i guardaparco avevano organizzato per tutti noi quel giorno con i fuoristrada, sono stato seduto sempre sul sedile posteriore a guardare pieno di curiosità dal finestrino, e mi ha molto divertito osservare che, ogni volta che incontravamo un gruppo di scimmie, i colleghi tanzaniani scoppiavano a ridere a crepapelle come se in questi animali vedessero degli aspetti grotteschi o comici.
La seconda serata ero così tranquillo, nonostante la presenza di animali vicino alla capanna, che approfittando delle dottoresse alla toilette, posta a 50 metri, mi sono fatto la doccia all'aperto, con un secchio d’acqua, nascosto dalle foglie delle piante ornamentali e dal crepuscolo. Che bella sensazione di pulito dopo due giorni passati in giro in macchina in quella grande vallata mangiando la polvere dei due fuoristrada che ci precedevano di pochi metri. Quante cose da raccontare ai figli come per esempio dei leoni dalla folta criniera all'inseguimento di alcuni facoceri o delle due dottoresse temerarie, salite a fotografarli sul cassone del furgone, incuranti del pericolo.
La domenica mattina, l’ultimo giorno di permanenza al parco, era stata prevista una ricognizione alla struttura sanitaria del parco, poco distante dall'edificio dove ci riunivamo per i meeting. Non è stata solo una visita ufficiale ma per la presenza di medici e tecnici specialisti mi è sembrata subito, vedendo la fila di pazienti seduti sulle panchine, una sorta di controllo medico per tutto il personale e dei loro familiari. Io decisi di seguire il mio responsabile, il dottor Milulu, che, sebbene tecnico di anestesia, in realtà svolgeva in Ospedale ad Iringa anche la funzione di primario di pediatria. Fu, infatti, indirizzato verso un ambulatorio a visitare i bambini del villaggio.
Tutti i pazienti e i loro familiari, presenti nel piccolo ospedale del parco, indossavano i loro migliori vestiti della festa; le donne erano di un'eleganza strepitosa e i bambini anche loro eleganti mi apparvero vestiti in modo esagerato per il caldo che faceva e tutti, benché fosse pieno giorno, indossavano un bel berrettino.
Mentre assistevo alle visite di Milulu, sfogliavo il registro ambulatoriale per documentarmi sulle diagnosi riportate. Mi stupì il numero elevato di casi di malaria osservati dal loro laboratorio e le numerose parassitosi intestinali individuate giornalmente in quella piccola popolazione. Ebbi i sudori freddi pensando all'elevata probabilità di esposizione che avevo avuto in quei tre giorni durante i pasti consumati. Mi domandavo però se erano delle diagnosi gonfiate per avere sovvenzioni e rifornimenti di farmaci e anche personale paramedico. Rimasi dubbioso pensando alla popolazione relativamente piccola del parco e così assidua nelle visite ambulatoriali quando, uno dopo l’altro, entrarono due bambini con probabile AIDS in condizioni incredibilmente pietose. Ci fu detto subito che erano orfani di un genitore morto di AIDS. Che tristezza vedere questi bambini così deperiti, cronicamente malati, che non crescevano da mesi di un solo grammo. A tre anni d’età non si reggevano in piedi, non avevano mai camminato e pesavano come un bambino di 8-9 mesi!
Che shock sapere che per loro non c'era ancora un'assistenza terapeutica efficace e che il meeting nel parco, ideato proprio per affrontare le problematiche dell’AIDS, aveva solamente messo in evidenza le numerose difficoltà organizzative, ma non aveva portato a dei cambiamenti strategici nella lotta contro quella malattia.
Lasciavamo il parco quel pomeriggio dopo un bel soggiorno, ma con l’amaro in bocca per il nulla di fatto che vedevamo con i nostri occhi nella lotta alla malattia che più di ogni altra in Africa mette in ginocchio le famiglie e le strutture sanitarie, ancora incapaci di dare una speranza vera ai malati disperati che le affollano.
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