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24 ore a Dar es Salaam
Era da poco iniziata la partita Barcellona–Arsenal, finale di Champions League 2005-06, e, seduto sul bordo di una comoda poltrona del soggiorno, guardavo appassionatamente con gli altri ospiti della casa quel match, augurandomi che, già nei primi minuti di gara, Ronaldinho o Henry sbloccassero il risultato segnando un bel gol. Sapevo, infatti, che per me lo spettacolo sarebbe durato ben poco e che appena dieci minuti dopo, Kikoti, il taxista di fiducia di padre Alojsious, sarebbe venuto a prendermi.
Kikoti molto puntuale, come ho imparato subito al mio arrivo in Tanzania, suonò dopo poco alla porta. Con grande disappunto, fui costretto ad alzarmi. Un’ultima occhiata allo 0-0 sullo schermo, un breve saluto agli altri volontari rapiti dalla partita, e via in taxi, direzione aeroporto.
Da poche ore ero arrivato a Dar es Salaam ed era già sera inoltrata. Le strade di Dar, poco illuminate, si erano svuotate e davano un’immagine veramente irreale di questa grande città, capitale caotica della Tanzania. Il traffico dopo le ventuno si spegne in fretta come le luci delle sue case. Nessuno è più in giro a quell’ora e raggiungere l’aeroporto diventa uno scherzo, neanche trenta minuti.
Scambiavo con Kikoti qualche battuta sull’aspetto della città di notte, ma i miei pensieri erano concentrati su come organizzarmi il resto della serata e l’indomani……quante cose dovevo e volevo fare nelle mie ultime 24 ore in Tanzania!
In aeroporto andavo a prendere Mario, Capo Sala della Sterilizzazione dell’Ospedale di Schio, alla sua prima missione in Africa. Non lo conoscevo e così, nell’attesa, davanti all’uscita, preso un foglio bianco all’ufficio informazioni, avevo scritto in stampatello il suo nome, MARIO, per richiamare l’attenzione di quelli che uscivano con le valigie del volo KLM, l’ultimo della serata. Poco dopo, Kikoti era al mio fianco, sorridente, serafico, stupito dal mio gesticolare continuo con quel foglio. “Tanto gli Italiani escono sempre per ultimi” mi disse ridendo allegramente, un po' per tranquillizzarmi e un po’ per prendermi in giro, sicuramente riferendosi alla scarsa capacità di noi italiani di comprendere e compilare il foglio dell’ufficio immigrazione tanzaniano. Kikoti aveva ragione. Come era successo a me e alla mia famiglia, anche Mario era proprio l’ultimo, ma appariva sorridente, contento di essere finalmente fuori. Il cartello non serviva più. “Ben arrivato, Mario”, dissi, “ karibu (benvenuto) in Tanzania “.
In macchina, il viaggio di ritorno fu un lampo, tanto ero preso a parlare con Mario. Dimenticai addirittura di avere in tasca la chiave del cancello di casa e non sentii neppure i vari colpi di clacson che Kikoti aveva fatto nel vano tentativo di richiamare l’attenzione del guardiano Masai, incredibilmente già profondamente addormentato. Fu invece Padre Alojsious, svegliato dal rumore, ad aprirci il cancello e ad accoglierci amichevolmente, come era nel suo stile, ma con uno sguardo di rimprovero per me che mi fece finalmente intendere che eravamo arrivati ed era il caso di scendere dalla macchina.
Scaricate in fretta le valigie ed entrati in casa, Mario ed io ci siamo accomodati in soggiorno l’uno di fronte all’altro. Era tardi, ed erano ancora tante le cose da dirci perché l’indomani lui sarebbe ripartito per l’Ospedale di Iringa, città a 500 km da Dar es Salaam, ed io definitivamente per l’Italia.
Mario mi disse che parlava poco l’inglese, seconda lingua in Tanzania dopo lo swahili, e il suo importante lavoro di avvio della centrale di sterilizzazione, appena ultimata ad Iringa, mi appariva per questa ragione molto difficile. Ci voleva un traduttore. Ma chi ad Iringa poteva aiutarlo?
Mario era stravolto dal lungo viaggio e i suoi occhi stanchi, che si chiudevano a tratti, mi fecero capire che era meglio sospendere e riprendere il mattino seguente dopo un meritato riposo.
Nella mia camera il caldo non era esagerato e, infilatomi dentro la zanzariera che copriva il mio letto, i pensieri cominciarono ad accavallarsi uno sopra l’altro come le nubi scure di un temporale.
Era impensabile, riflettevo, che Mario raggiungesse Iringa senza aver prima risolto il problema traduttore, essenziale in Ospedale. Ecco però nella notte schiarirsi pian piano la soluzione.
Quindici giorni prima, prendendo il pullman a Dar per Iringa, avevo aiutato una ragazza tanzaniana a non pagare la sopratassa per la sua pesante valigia, dichiarando con disinvoltura che viaggiavo insieme a lei. La ragazza ringraziandomi e riconoscendomi italiano mi parlò nella mia lingua che aveva imparato molto bene in due anni di permanenza in provincia di Firenze. Jennifer, il suo nome, era una ragazza del movimento dei Focolarini, fondato dalla celebre Chiara Lubich. Con altre tre ragazze aveva aperto da pochi mesi la sede del “Focolare” ad Iringa ed era entusiasta della loro missione in quella città. Mi ricordai che una di loro era in capitale e così decisi di contattarla la mattina appena alzato.
Pensavo al tanto lavoro svolto ad Iringa nei mesi precedenti per costruire la centrale di sterilizzazione dell’Ospedale cittadino con 350 posti letto e come sarebbe stato meraviglioso portare Mario alla stazione dei pullman, la mattina, già con una risposta positiva.
Ero stato ad Iringa per cinque settimane impegnato a fianco degli anestesisti locali in sala operatoria, in collaborazione con due chirurghe italiane, Marina e Giorgia e due tecnici, Giuliano, ferrarese, venuto con la moglie Letizia, ed Enrico, padovano, impegnati proprio per la realizzazione della nuova centrale di sterilizzazione, necessaria per la mole di lavoro presente in Ospedale. Erano state cinque settimane proprio belle ed intense ad Iringa, con la fortuna di avere portato con me per le prime tre settimane anche tutta la famiglia, mia moglie Monica e i nostri quattro figli.
Erano già passate due settimane che li avevo accompagnati a Dar perché rientrassero in Italia; erano tutti e cinque entusiasti dell’esperienza fatta, davvero felici per ogni momento passato in Tanzania.
Con gli occhi chiusi, nel buio della notte, ricordavo i loro volti sorridenti che mi salutavano, invidiosi che io potessi rimanere ancora qualche settimana, mentre loro, “sfortunati”, dovevano riprendere la scuola dopo quella felice e molto prolungata vacanza pasquale.
La mattina seguente mi sono svegliato presto. La luce del sole fuori era già accecante come da noi d’estate a fine giugno. Padre Alojsious pregava da solo in cappella, una piccola stanza al secondo piano, vicino alla mia e a fianco delle scale che scendono in soggiorno. Entrato in cappella, P. Alojsious, come se mi aspettasse, ha iniziato a celebrare la SS. Messa in italiano: eravamo solo noi due. Osservavo meravigliato l’altare di legno massiccio, tutto lavorato in bassorilievo con rappresentati gli apostoli che sembravano raccontarti sottovoce l’ultima cena di Gesù. A fianco c’era un bel candelabro di ebano, tutto lavorato in un unico pezzo, a forma di Ujamaa, simbolo della Tanzania ed emblema della unità-comunità, raffigurato da tante persone unite insieme. Il candelabro reggeva il cero pasquale, sempre acceso, ad indicare la presenza di Gesù risorto, luce del mondo.
P. Alojsious, sacerdote tanzaniano, mio coetaneo, era stato per noi, nei pochi giorni trascorsi a Dar, come un padre premuroso, attento e sensibile alle nostre esigenze e curiosità, amorevole e paziente con i nostri figli. Vedevo nei suoi occhi rispecchiarsi il Vangelo che aveva scelto di annunciare e vedevo nella sua vocazione sacerdotale al servizio del prossimo il suo vero abito da prete.
Con lui eravamo andati, appena arrivati dall’Italia, prossimi alla Pasqua, alla celebrazione della funzione del Giovedì Santo in una scuola adibita, per l’occasione delle feste, a campo per il ritiro pasquale dei ragazzi delle superiori di un’associazione cattolica della capitale. Avevamo impiegato più di tre ore per raggiungere la località, pochi chilometri fuori Dar, a causa dell’intenso traffico cittadino che costringeva tutti, nelle ore di punta, ad un’andatura a passo d’uomo. Non sono state però tre ore maledette, come potrebbe accadere se ci capitasse nelle nostre città italiane, ma un’occasione per sperimentare la vita in capitale che, nelle ore diurne, diventa quella di un immenso bazar stile “drive in”.
Tutte le auto, e così la nostra, che percorrevano lentissime le strade, erano circondate da venditori di ogni tipo di mercanzia. Andando così piano, i venditori, intraprendenti ma gentili, ti infilavano dentro in macchina la loro merce, così da permetterti di osservarla meglio, provarla ed infine, se non gradita, di restituirla senza alcun impegno, imbarazzo o pressione. Se l’oggetto era invece interessante, iniziava la contrattazione e poi eventualmente l’acquisto. Tutti noi guardavamo dai finestrini quello spettacolo incredibile e per noi inusuale, e i nostri ragazzi, stupefatti, bersagliavano di domande P. Alojsious impegnato a scegliere qualche oggetto per la casa.
Arrivati a destinazione, anche la SS. Messa è stata per i ragazzi un’esperienza indimenticabile. Per le due ore di messa in swahili li ho visti attenti a tutto quello che accadeva nell’assemblea gremita da circa mille ragazzi della loro età che cantavano, danzavano, rispondevano con urla felici durante l’omelia. Altro che le nostre messe noiose e tristi, cui siamo purtroppo abituati!
Terminata la breve messa nella piccola cappella al secondo piano, sono sceso con P. Alojsious in soggiorno per la colazione. Gli altri volontari presenti in casa stavano ultimando il carico delle auto, pronti per partire per le loro destinazioni in Tanzania. Eravamo tutti in partenza e la colazione era animata da saluti, auguri e ringraziamenti. Mario, alzatosi da poco, sbalordito da questa vivacità della casa, osservava, attento, l’entusiasmo contagioso di tutte queste persone.
A tavola P. Alojsious mi disse che una focolarina sarebbe venuta poco dopo per un corso di swahili e così io, sorpreso e strabiliato dalla notizia, mi sentivo pieno di speranza di portare ad Iringa per Mario un aiuto prezioso.
Mezz’ora dopo gongolavo di felicità. L’incontro con Else, il nome della focolarina, mi era sembrato un successo per il progetto Iringa e per Mario in particolare e perché no, un buon lavoro, anche per una di quelle ragazze del focolare di Iringa.
Era già ora di andare alla stazione dei pullman e Kikoti, con il suo arrivo in casa, segnava il tempo come l’orologio.
La stazione delle corriere di Ubongo, alla periferia di Dar es Salaam, è un immenso piazzale pieno di gente e di una miriade di pullman, molti vecchi e malandati, diretti in ogni dove della Tanzania. Nonostante la moltitudine di gente e veicoli, la stazione dava però l’idea di un luogo ben organizzato e la gente vi era ammessa solo se in possesso di regolare biglietto. Una piccola area di questo grande piazzale era riservata esclusivamente ad una compagnia di viaggio, la “ Scandinavia”, sponsorizzata dai paesi scandinavi. L’area recintata, la sala d’attesa con le poltroncine ben sistemate, i bagni puliti e l’edicola dei giornali erano l’immagine di efficienza che la Scandinavia voleva dare ai suoi viaggiatori.
Ho accompagnato Mario soltanto fino all’ingresso di quell’area riservata ai passeggeri dove, oltre il biglietto, era controllato il peso delle valige ed assegnato il posto a sedere nel pullman. Avevo continuato a parlargli a ritmo serrato, sperando vivamente che Mario mi prestasse sempre la massima attenzione, ma, in realtà, solo in quel momento mi accorsi del suo viso spaventato per il lungo viaggio che avrebbe fatto da solo, aiutato soltanto dal suo modesto inglese. Gli ho quindi detto, in un estremo tentativo di incoraggiamento, di non preoccuparsi se il pullman aveva dei guasti lungo la strada, nel mio ultimo viaggio ne aveva avuti addirittura cinque, e che l’autista e lo steward erano meccanici eccezionali e avrebbero risolto ogni problema. Inoltre, avrebbe ricevuto durante il viaggio da bere e da mangiare e ci sarebbero state due soste programmate, in aree riservate, per sgranchirsi le gambe. Gli ho anche infilato una scheda telefonica tanzaniana sul suo cellulare con in rubrica il mio numero di telefono e quello di Marina e Giorgia, le due dottoresse che lo aspettavano ad Iringa.
Era il tempo dell’ultimo saluto: “Buon viaggio e buon lavoro, Mario! Dai il massimo, l’Ospedale di Iringa ha bisogno di te”.
Lasciato Mario da solo in attesa del pullman, sono risalito in macchina con Kikoti.
Mi sono domandato subito cosa avrei fatto nelle successive dieci ore prima di prendere l’aereo per l’Italia: dovevo senz’altro sistemare il mio bagaglio per distribuire bene i pesi tra valigia e borsa a mano per non pagare l’esosa tassa di sovraccarico, inoltre smontare il bel quadro che il personale di anestesia mi aveva regalato l’ultimo giorno ed infilare la tela arrotolata in valigia senza rovinarlo e soprattutto, la cosa più importante, era pensare a cosa avrei detto l’indomani sera, alla conferenza cui ero stato invitato dal club Lions di Padova, per presentare le mie esperienze di medico in Africa. C’era anche troppo da fare, ma mi sembrava un delitto non visitare Bagamoyo, famosa località di partenza degli schiavi per le Americhe fino alla fine dell’ ‘800. Parlai quindi a Kikoti del mio progetto e lui diresse subito il suo taxi alla stazione dei minibus che da Dar partono per Bagamoyo, per fortuna non lontano da lì.
L’aspetto di questa stazione non mi appariva rassicurante come quella di Ubongo. Era posta in una grande area non asfaltata, rovinata dalle piogge, vicino ad una caotica arteria stradale di Dar e con un’immensità di pulmini stracarichi di gente che andavano e venivano tra una moltitudine di persone e banchi di mercato rionale che mi misero un po’ di paura. Per fortuna identificai immediatamente i pulmini diretti a Bagamoyo per via della scritta stampata sul parabrezza e chiesi a Kikoti il favore di scortarmi verso uno di questi fermo in attesa. Ero un po’ agitato per questa avventura improvvisata e per l’ambiente caotico che mi opprimeva. Salii subito accanto ad altre persone, già sedute sui sedili posteriori, e in pochi minuti il pulmino fu pieno. Lo steward, il ragazzo che faceva da bigliettaio, chiuse infine la porta. Il minibus, sussultando per il terreno sconnesso della stazione, in un attimo fu in strada nella confusione del traffico.
Osservavo sbigottito quello che accadeva all’interno del pulmino, apparentemente a 12 posti. Stipati all’inverosimile, contavo 22 persone. Mi sembrava un’esagerazione e allo stesso tempo un’operazione di stivaggio incredibilmente ben riuscita, ma mi risultava difficile pensare di rimanere così stretto, bloccato nella mia posizione, per 60 km, tanta era la distanza per Bagamoyo, località sulla costa, a nord di Dar es Salaam. Dopo appena un chilometro, durante il quale ogni volta che passavamo sui rallentatori posti lungo la strada credevo di toccare l’asfalto con il sedere, l’autista ha accostato per far salire un altro passeggero, il ventitreesimo! Lo steward, per fargli posto all’interno, si era seduto sul finestrino con tutto il busto sporgente all’esterno. Ero sempre più meravigliato! Avevo aspettato meno di cinque minuti per partire e pagato 1€ per il tragitto che era durato poco più di un’ora.
Bagamoyo, di fronte all’isola di Zanzibar, è un grande villaggio africano sull'oceano, meta turistica sulla carta, ma poco conosciuta anche dai turisti che soggiornano in Tanzania.
Una volta sceso al centro del mercato locale, mi si è presentato dinnanzi un giovanotto, basso di statura, vestito con una vecchia giacca sgualcita e una cravatta gialla che stonava con la giacca e la camicia e con un vistoso cartellino che indicava chiaramente il suo lavoro: guida turistica.
Faceva proprio al mio caso. Con apparente professionalità e intraprendenza mi mostrò un foglio scritto a macchina sul quale erano elencate in modo ordinato e chiaro le proposte turistiche e il loro costo. Notai subito la proposta di un giro di due ore che mi sembrava ideale per il tempo che avevo a disposizione, prima di rientrare a Dar. Ovviamente il giro turistico era a piedi!
Il mio orologio indicava mezzogiorno e mezzo e il sole, alto, era proprio a picco sopra di me. Faceva veramente tanto caldo, ero tutto sudato e la prima meta, il sito archeologico di Kaole, mi sembrò dopo poco esageratamente lontana: mi domandavo se avrei retto fino alla fine.
Per 40 minuti di cammino sotto il sole, lungo la costa, a breve distanza dall’oceano, mentre ascoltavo la guida, osservavo estasiato l’acqua del mare, immobile, per l’assenza di vento. Sembrava uno specchio stupendo del cielo azzurro e mi appariva inoltre, per la mia arsura, come un vero miraggio.
Mi fermai ad un tratto pensando che la guida mi prendesse in giro e protestai che i 2 km per il sito archeologico mi sembrava di averli abbondantemente superati. Per fortuna eravamo fermi di fronte ad un cancello, che lui conosceva essere l’ingresso di un allevamento di coccodrilli, e così mi invitò ad entrare a visitarlo, prendendo l’opportunità di farmi riposare all’ombra di qualche albero e di meravigliarmi e non poco. Sono rimasto, infatti, davvero sorpreso di trovarmi in quel luogo incredibile, inaspettato, dove c’erano numerose vasche, alcune piccole altre molto grandi, che contenevano numerosissimi coccodrilli di tutte le misure, da quelli appena nati ai grandi mostri, quelli adulti anche di 30 anni, allevati per pellame, riproduzione o cibo prelibato per “buongustai” kenioti.
Trovarmi in quel posto, solo con la guida, mi mise paura. Essere ad un palmo di mano da quei rettili spaventosi, mi ha dato il terribile sospetto di poter essere io il prossimo cibo per quelle bestie affamate. Così, improvvisamente, mi affrettai verso l’uscita, chiedendo alla guida di raggiungere al più presto il “benedetto” sito di Kaole.
I quindici minuti successivi di cammino assolato fino al sito, questa volta, mi parvero una dolce passeggiata, accompagnata inoltre da canzoni popolari tanzaniane, cantate dalla guida, che cercava di rendere piacevole e allegro quel momento e tirarmi quindi su di morale.
Il sito di Kaole è interessante perché si trovano le rovine, in discreto stato di conservazione, di una grande abitazione araba del 1500, testimonianza del primo insediamento arabo nella costa antistante Zanzibar, importante isola per il commercio fin dai tempi antichi.
Il ritorno al centro di Bagamoyo è stato con il taxi, ovviamente chiamato e pagato a mie spese, per evitare un’altra ora di cammino per la stessa strada dell’andata.
La parte antica del centro di Bagamoyo è decisamente degna di attenzione, anche se in condizioni di notevole degrado, e presenta, in forte contrasto con il villaggio africano circostante, numerosi edifici dell’’800 in stile arabo, situati in prossimità del cosiddetto porto, in realtà zona di approdo, oggi come nel passato, di barconi tutti a vela. Quel giorno per la bassa marea, che allontana il mare di circa 500 metri, i barconi tutti in secca erano sostenuti da tronchi posti sulle fiancate.
Erano passate abbondantemente le due ore del programma turistico e sentivo fame e tanta sete e avevo il desiderio di trovare un posto tranquillo per una sosta. Chiesi quindi alla guida di fermarci in un piccolo ristorante per mangiare insieme e lo pregai di non farmi spendere più di 2000ShT (scellini tanzaniani) (€1, 4), tanto mi rimaneva in tasca, calcolando le spese per rientrare a Dar. La guida mi portò rapidamente all’antico mercato degli schiavi, indicandomi soltanto gli edifici importanti di Bagamojo, come la cattedrale e la cappella di Livingstone, dove fu trasportato il corpo del celeberrimo esploratore dell’ ‘800 per essere imbarcato per l’Inghilterra.
Finalmente stavo seduto all’ombra ad un tavolone stile antica osteria, proprio nell'antico mercato degli schiavi, oggi mercato di frutta e verdura. In un attimo ci fu servito un piatto caldo con riso, davvero abbondante, guarnito di fagioli, e, in aggiunta, in un altro recipiente, carne bollita in un sugo appetitoso che si sposava proprio bene con il riso. Per bere, una tazza e una caraffa di tè.
Prima di mangiare, come ho ben imparato dovunque in Africa, c’è il rito del lavaggio delle mani e una ragazza mi ha portato una bacinella e una caraffa d’acqua che ci ha gentilmente versato e che in quell’occasione mi è sembrata inoltre un magnifico toccasana per il caldo della giornata. Che sosta rigeneratrice e che posto carico di storia!
Bagamoyo, secondo la guida, significa proprio “ho finito di soffrire”, ed era l’esclamazione dei prigionieri, gli schiavi, che arrivavano in quel luogo dopo un viaggio massacrante, da ogni dove dall’interno della Tanzania. Io avevo camminato solo due ore, mentre gli schiavi, fino alla fine dell’ ‘800, vi arrivavano in catene dopo uno o due mesi di fatiche e sofferenze sovraumane.
Era ora di rientrare in capitale per prepararmi al lungo viaggio notturno in aereo.
Sono salito nuovamente in pulmino e ho da lì salutato e ringraziato la guida, felice sicuramente di aver rimpinguato il suo scarno portafoglio, vista la scarsità di turisti non organizzati come me.
Il minibus si è riempito in un baleno, mentre, dietro, altri veicoli si accodavano per raccogliere altri viaggiatori. Avevo l’impressione di essere montato in una cabinovia nelle Dolomiti dove senza sosta, come lì nei pulmini, salgono rapidi sciatori e turisti per essere trasportati in alto sulle piste.
Rientravo verso Dar, molto in ritardo sulle mie previsioni della mattina, stretto come all’andata tra gli altri passeggeri, silenziosi e quasi cullati dalla musica dell’autoradio.
Felice della giornata, respiravo lì dentro il forte odore umano, quasi da imprimermi nella mente quell’ ultimo assaggio dell’Africa. Anch’io ero cullato dalla musica all’interno del pulmino, ma cercavo con forza di concentrarmi su cosa avrei detto l’indomani sera, alla conferenza dove ero l’unico relatore, se mi avessero chiesto cos’era l’Africa per me.
I sussulti, sempre più frequenti per le numerose buche che mi indicavano l’avvicinarci a Dar, con le sue strade rovinate, affollate di gente in cammino e di veicoli stracarichi di gente, mi scuotevano e mi riempivano sempre più il cuore di ammirazione, di rispetto per la gente di questo paese che sopravvive faticosamente, giorno dopo giorno, con composta dignità.
Ecco cosa pensavo di dire alla conferenza ricordando i lunghi mesi di attesa, i preparativi per partire con tutta la famiglia, la carta geografica della Tanzania appesa al frigorifero per tante settimane, il mio libro sulle esperienze di medico in Africa scritto proprio per dare un significato straordinario a questo nostro viaggio: ero venuto in Africa come ad un pellegrinaggio cui ci si prepara interiormente, piano piano……. come il tempo che sembra scorrere lento in questa terra lontana.
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