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Boeing 737
Molti dicono che per vedere l’Africa in movimento è sufficiente mettersi in una qualunque strada di quel continente ed osservare: moltitudini di persone, uomini, donne e bambini sono in cammino lungo le strade durante il giorno, dall’alba al tramonto. Si muovono senza fretta, hanno sempre tempo per salutarsi. Percorrono chilometri e chilometri, tutti i giorni, per andare al lavoro, al mercato, a scuola o per salutare qualcuno. I veicoli che si incontrano sono sempre stracarichi di persone all’inverosimile. Finché c’è anche un minimo spazio all’interno di un’auto o di una corriera la gente sale. C’è sempre spazio per tutti.
È curioso, inoltre, osservare che nei veicoli il posto per i bimbi è fittizio, non esiste, perchè stanno sempre in braccio ai loro genitori. Ricordo a questo proposito che a Matany, una famiglia di nostri amici in partenza per la capitale aveva calcolato di aver ancora spazio nella loro auto per altre due persone. La mattina si sono, perciò, presentate, puntuali, le due infermiere che avevano prenotato quel posto; avevano l’aria tranquilla, salutavano gioiosamente la piccola folla di amici, illuse di portare con sé due figli piccoli, due grosse valige e alcune galline, il cibo necessario per i giorni successivi.
Noi europei non siamo così abituati, come gli Africani, a spartire il poco, o pochissimo a disposizione, sicuramente siamo più portati a dare precedenza alle regole, norme, assicurazioni, orari da rispettare ecc..
Tra i tantissimi ricordi di questi veicoli stracarichi ce n’è uno speciale, di un’esperienza di tanti anni fa, la mia prima esperienza africana, quando ventenne e con tanto spirito d’avventura, assieme ad altri ragazzi e ragazze, padovani e milanesi ho partecipato ad un campo di lavoro in Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo, organizzato dai missionari Comboniani.
Ci trovavamo, gli ultimi giorni d’agosto del 1981 a Kisangani, città nel cuore del Congo, nella via di ritorno verso l'Italia. Il viaggio era cominciato il primo pomeriggio di quello stesso giorno ad Isiro, una città posta nella parte più orientale di quel grande paese, che supera l'Italia per estensione di ben otto volte. Il Boeing 737 su cui viaggiavamo era pieno con circa una sessantina di passeggeri, poiché il velivolo era per metà occupato da passeggeri e per metà era cargo, cioè una parte dell’aereo era adibita esclusivamente al trasporto merci. La sosta a Kisangani era prevalentemente tecnica, per la necessità di rifornimento, prima dell'ultima tappa fino a Kinshasa, la capitale del Congo, dopo altre due ore e mezza di volo.
Appena atterrati a Kisangani ci hanno fatto accomodare nella sala d’aspetto dell'aeroporto, gremita di tanta gente locale. Osservandoli superficialmente ero convinto che tutta quella gente fosse nell’ attesa festosa dei parenti appena atterrati, ma solo successivamente mi resi conto che erano anche loro, come noi, in paziente attesa di un volo aereo per la capitale.
L’attesa si prolungava e solo dopo alcune ore è arrivata la conferma, non certo con l’altoparlante, che il volo era rinviato all'indomani mattina, senza alcuna altra informazione, per esempio, quella di un orario preciso.
Il funzionamento delle linee congolesi mi aveva già lasciato stupefatto nel viaggio dell'andata, ai primi di agosto, quando appena arrivati in Congo eravamo rimasti ospiti di un bell’ albergo di Kinshasa, tutto a carico della compagnia congolese, per due giorni, in attesa della partenza con un volo interno. Di giorno in giorno venivano ad informarci che l'aereo sarebbe partito il giorno successivo, forse la mattina o nel pomeriggio. Non c'erano proprio orari precisi: si parlava solamente di mattina o pomeriggio. Quindi, dopo un mese in Congo, non c'era per me più alcuna difficoltà ad accettare queste indicazioni. Ricordo che ho dormito sereno e tranquillo sulla catasta dei bagagli del nostro gruppo di nove persone, sei milanesi e tre padovani. Nella catasta avevamo visto anche infilarsi un topolino che cercava rifugio, come noi poi, nella notte, per appoggiare le nostre stanche membra, provate dalla lunga attesa per quel volo.
All'alba è iniziato un fermento lungo la grande sala dall'aeroporto, molto gremita per l’avvicinarsi della partenza, benché non si vedesse ancora alcun movimento attorno al nostro Boeing 737, peraltro, l’unico aereo sulla pista dell'aeroporto. Non veniva però ancora data alcuna indicazione sull'orario di partenza. L'unico indizio era l’accalcarsi dei numerosissimi passeggeri verso l'uscita. Si capiva bene che, anche quel giorno, non c'era fretta di partire e non c'era propria differenza se la partenza era ritardata di alcune ore o anche spostata il pomeriggio. Mi ero fatto, però, anch’io più prossimo all'uscita.
La mia unica e vera preoccupazione era quella di potermi sedere vicino al finestrino per godermi il panorama dell’enorme foresta del Congo, intervallata soltanto dai numerosissimi fiumi, gli affluenti dell'immenso fiume Congo, e da rare strade sterrate, ben visibili per il loro colore rosso acceso, che tagliavano come ferite il verde intenso della maestosa foresta tropicale.
Per raggiungere il posto sul finestrino contavo soltanto sulle mie gambe.
Benché avessi una borsa pesante ero lo stesso un ottimo sportivo, veloce giocatore del Petrarca Rugby, squadra seconda classificata quell’ anno nel campionato di serie A. Non avevo dubbi sul mio scatto veloce che mi avrebbe permesso di recuperare in fretta la posizione arretrata che avevo nel folto gruppo accalcato all'uscita, a più di 100 metri dall'aereo.
Finalmente, a metà mattina, con un brusio generale, che da diversi minuti, inoltre, si era intensificato, la porta principale di accesso alla pista fu finalmente aperta. Ricordo bene quegli attimi: è più facile paragonarli alla partenza di una maratona con gli atleti in frenetico agitarsi nell’atto del riscaldamento, in cui la partenza appare con una molla compressa che è lasciata improvvisamente scattare.
Capii subito che non ero mentalmente preparato ad una gara perché tutti, meno carichi di me, volavano già verso l'aereo. Per me era soltanto una questione di principio: mi sentivo un grande sportivo e volevo conquistarmi assolutamente un posto vicino al finestrino! Le mie gambe di ventenne erano come i pistoni di una Ferrari, il che mi permise di lasciare indietro, rapidamente, i miei compagni di viaggio cui avevo urlato correndo: “Vado a prendermi un posto vicino al finestrino”.
La mia corsa pazza, a zigzag, era in continua progressione e sorpasso dei numerosissimi viaggiatori che, più avanti di me, si precipitavano, pure loro, verso il velivolo. Mi resi presto conto però che lottavo soltanto per un modesto piazzamento perché erano veramente tantissimi quelli che correvano come forsennati, perlopiù in giacca e cravatta, incuranti del sole caldo che rapidamente era salito alto nel cielo africano.
Nonostante i bagagli m'impedissero una corsa efficace come quella dei veloci maratoneti, capii che soltanto aggirando la folla in corsa avrei potuto procedere più spedito e così allungai all'esterno, quasi in apnea, senza incontrare più ostacoli se non la stretta scaletta dell'aeromobile ancora 50 metri più avanti. Grondavo di sudore, il mio fiato era cortissimo. Con in mano il biglietto aereo mi involai, dopo molti altri, più avanti di me, sulla scaletta controllata dagli stewards congolesi che assistevano tranquilli e pacifici a quello che sembrava un abituale assalto al loro aereo. Parzialmente soddisfatto di quella corsa mozzafiato mi domandavo, procedendo sugli ultimi gradini della scaletta, come poteva prendere posto tutta quella gente, e, guardando in lontananza gli amici che si avvicinavano chiacchierando allegramente, pensavo che si stessero mettendo davvero nei guai. Solo Andrea, mio fratello e atleta come me, era arrivato di volata sull'aereo, mentre gli altri erano ancora persi tra la folla dei congolesi che cercavano un “posto al sole”.
Tutti brandivano il documento di viaggio e gli stewards, risvegliatisi improvvisamente da loro torpore, iniziarono, solo allora, a controllare l'afflusso disordinato dei passeggeri.
Presi finalmente posto, il primo libero che avevo individuato a metà corridoio, non certo sul finestrino. L'aereo era pressoché al completo. Lo steward all'ingresso bloccò l'afflusso dei passeggeri che spingevano numerosi lungo la scaletta in un vociare sempre più acceso che richiedeva da parte del personale urla e comandi a squarciagola. Mi resi conto che il posto a sedere raggiunto era una grande conquista.
In quella situazione caotica, tra spinte, urla e qualcuno che riusciva a sfondare e precipitarsi all’interno dell'aereo, non si poteva certo immaginare come sarebbe finito quell’ arrembaggio.
All'interno del velivolo finalmente erano comparsi il comandante dell'aereo, il copilota e gli altri membri dell'equipaggio per controllare i biglietti dei passeggeri. Alcuni passeggeri, probabilmente non in regola, venivano sollevati di peso e cacciati dall'aereo mentre altri felici facevano il loro ingresso e prendevano il loro posto, ovviamente non numerato.
Nelle prime file, un elegante signore, calvo e molto robusto, invitato più volte a scendere, resisteva incollato al suo posto stringendo la cintura di sicurezza. Non c'era verso di smuoverlo di lì. Dopo circa una mezz'ora di trattative e l’uscita di molti altri passeggeri, finalmente fecero capolino dalla scaletta i miei amici italiani, angosciati di dover rimanere fuori, al centro dell'immenso Congo, tanto lontano dalla capitale e dall'Italia. Le espulsioni proseguivano, ma l'elegante signore più avanti e il mio vicino di posto, imperterriti, resistevano alle minacce e imprecazioni del personale e alle urla delle persone ancora accalcate sulla scaletta, mentre era incredibile il silenzio dei fortunati, come me, con il posto già conquistato. Il caldo all'interno del velivolo era esagerato, ma questo non era davvero la mia ultima preoccupazione.
La mia grande preoccupazione era per gli amici italiani che solo per ultimi presero posto felici, con quel sorriso liberatorio di massima soddisfazione, con in testa gli amici Marta e Luca, loro però con un altro sorriso, quello beato del loro amore appena sbocciato.
Il mio vicino intanto aveva consentito ad un altro passeggero di prendere il suo posto, ma per sedersi infine sul bracciolo, tra il mio posto e quello del vicino, aggrappandosi allo schienale della poltrona davanti a sé.
Più avanti le mediazioni proseguivano con quel distinto signore in giacca e cravatta che solo dopo un’altra mezz'ora acconsentì a sistemarsi in zona cargo, tra le valige e i sacchi di caffè.
Rien ne va plus! Il gioco finalmente era fatto. Si poteva finalmente partire! Così mi sembrava, ma sulla scaletta rimanevano numerosi congolesi, non ancora del tutto arresi.
La scaletta di discesa era retrattile e il comandante, premendo un bottone, iniziò a ritirarla sollevando con essa le persone rimaste sopra mentre altre vi si aggrappavano nell'ultimo e disperato tentativo di salire. Il comandante sollevava in alto e poi riabbassava la scaletta urlando ed imprecando. Quest'ultima operazione di chiusura dello sportello e di risalita della scaletta durò a lungo. Alcune persone incredibilmente riuscirono ad approfittare, durante queste pericolose manovre, per entrare finché….., finalmente, “l'assalto alla diligenza” cessò. Si poteva partire.
Era già pomeriggio inoltrato e saremmo arrivati a Kinshasa soltanto al tramonto.
Ho un pessimo ricordo del volo fino a Kinshasa che è divenuto addirittura doloroso nel momento dell'atterraggio. Il mio vicino di posto, intendo dire quello seduto sul bracciolo, soffriva visibilmente e terribilmente di mal d’aereo e panico. Le sue mani erano aggrappate alla mia gamba e a quella del vicino. Era tutto una maschera di sudore e durante l'atterraggio la sua morsa nella mia carne divenne spasmodica. Fino a che l'aereo non si è fermato completamente sembrava in trance. Solo allora sono riuscito a sbloccare la sua presa dolorosa e a liberarmi. L'incubo era finito.
I nostri biglietti, che evidentemente profumavano di dollari veri, erano stati il nostro lasciapassare per Kinshasa. Ricominciava, però, per noi, in capitale, l'attesa per il nuovo volo, quello per Roma e quindi per ritornare a casa.
A quando la partenza? Domani o dopodomani….. mattino, pomeriggio o sera?
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