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Notti insonni
Non riuscivo a prendere sonno, mi giravo e rigiravo continuamente nel letto. Era un mese che dormivo solo.
Monica era rimasta in Italia con i bimbi, dopo il funerale di sua madre, per sostenere suo padre in quel momento triste di lutto familiare. Eravamo dovuti rientrati tutti precipitosamente in Italia, a fine settembre, per il rapido aggravamento di mia suocera: erano i suoi ultimi giorni. Per fortuna non soffriva, teneva gli occhi chiusi come se dormisse.
Quando siamo entrati nella sua stanza dell'ospedale di Monselice ci ha accolto con poche parole, contenta di saperci finalmente tutti lì vicino a lei. Sapeva benissimo che erano i suoi ultimi giorni e, benché avesse appena 50 anni, li affrontava incredibilmente bene. Prima di quell’ultimo ricovero, riusciva a lavorare in casa, facendo però leva su tutte le sue forze. Andandola a trovare ho avuto proprio la sensazione dell'ultimo saluto, del commiato di una persona che si era spesa completamente per la sua famiglia senza lesinare la benché minima energia o ritagliarsi spazi personali. Pensavo, osservando il suo volto, che chi come lei ha dato tutto per gli altri muore sereno, va a raccogliere altrove i frutti del suo operato e il Signore gli sta vicino, così vicino che il trapasso a miglior vita è reso luminoso.
Il telefono in soggiorno iniziò a suonare e il suo squillo era così intenso e fastidioso da far quasi male alle orecchie. Mentre mi affrettavo ad alzarmi dal letto per andare a rispondere, dalla stanza accanto, Ignazio, un volontario veronese, iniziò ad imprecare: “No, non ancora; no, ancora! ”, riferendosi all'ennesimo risveglio quella notte per una telefonata urgente da uno dei reparti dell'Ospedale di Matany.
Il vecchio telefono non aveva una regolazione della suoneria e lo squillo era così forte che si sentiva anche a 100 metri di distanza. Mi chiamavano ancora una volta dall'ospedale e per me, che non riuscivo a prendere sonno, non era un gran fastidio, mentre lo era per Ignazio, il tecnico dell'officina, che non aveva mai chiamate notturne. Speravo, andando a visitare quel paziente, che mi avevano informato in peggioramento, di stancarmi a tal punto da addormentarmi, poi, per sfinimento. Non volevo prendere dei sonniferi perché in quei giorni, con solo tre medici in ospedale, temevo di non essere al meglio se mi avessero chiamato di notte per qualche urgenza. Così facendo, però, ero sempre stanco, immerso nel lavoro di giorno, spesso anche di notte, e poi, non appena appoggiavo la testa sul cuscino, sommerso dalle preoccupazioni.
Quando sono rientrato, da solo, in Africa dopo il funerale di mia suocera e ho aperto la porta di casa a Matany, ho provato una grande tristezza e un grande senso di solitudine. Vedendo i giochi dei bambini sparsi nel soggiorno non riuscivo ad immaginarmi quella casa senza di loro, senza il loro baccano e il loro moto perpetuo. Il silenzio mi faceva paura.
L'arrivo di Ignazio, qualche settimana dopo, ospite nella mia casa, aveva ridotto la mia solitudine, ma non certo le mie inquietudini. In Italia, l’incontro con il mio vecchio primario dell'ospedale veneziano era stato per me una vera doccia fredda. Avevo sentivo riconfermata la sua forte ostilità per la mia decisione di partire per l'Africa e mi era sembrato di vivere un altro funerale oltre quello di mia suocera, quello del mio rapporto con il mio vecchio primario. A questo pensiero si aggiungeva l’inattesa notizia che il mio stipendio era fermo da tre mesi e non c'era proprio modo di sbloccarlo.
Lasciare Monica con i figli in Italia senza risorse e vedere il mio futuro in ospedale molto incerto era per me fonte di angoscia e di tanto stress.
Sono rientrato in Africa demoralizzato con appena $100 in tasca, contando solo su un credito delle generose suore comboniane, abituate da sempre a viaggiare con i conti dell'ospedale in rosso.
Il lavoro a Matany era tutt'altro che monotono; mi dividevo tra i vari reparti, la sala operatoria, gli ambulatori e nel tardo pomeriggio anche la radiologia. Ero sempre di corsa per una visita, il controllo dei post operati e dei pazienti appena arrivati.
Due volte la settimana ero di turno in radiologia dove eseguivo le radiografie del torace mediante fluoroscopia. Ogni volta era un'esperienza tutta da raccontare.
Quando entravo in radiologia per eseguire l'esame fluoroscopico, trovavo sempre una lunga fila di pazienti in attesa, seduti sulla panchina. Quando entravo e richiudevo la porta alle mie spalle ero solo e completamente al buio. Rimanevo in piedi alcuni minuti in silenzio per adattarmi all'oscurità. Talvolta quei minuti mi sembravano interminabili, ma poi quando gli occhi cominciavano ad abituarsi al buio, coglievo l'incredibile meraviglia dell'occhio umano e della sua capacità di adattamento a tutte le condizioni. L'esame fluoroscopico richiedeva la più totale oscurità, perché, a differenza degli apparecchi radiologici moderni con la nitida amplificazione delle immagini, la macchina dell'ospedale era invece antichissima. Il paziente veniva sistemato davanti a un tubo catodico e dietro ad uno schermo fluorescente. Noi medici ci ponevamo di fronte, vicinissimi allo schermo per poter osservare il torace del paziente, in diretta ai raggi X. Indossavo sempre il camice piombato e il collare per proteggermi la tiroide, ma il mio viso, per osservare attentamente, era esposto direttamente al fascio dei raggi X. Per questa ragione, azionando il pedale per l’accensione della macchina, con estrema attenzione, facevo durare l'esposizione del paziente e soprattutto mia soltanto pochi secondi, il tempo necessario a poter dare una rapida occhiata ed avere un'idea della presenza o meno di lesioni nel tessuto polmonare.
Questo esame, che si svolgeva in un minuto complessivo, tra ingresso del paziente, il suo posizionamento in piedi sulla macchina, e la scrittura del referto per il reparto richiedente, alla debolissima luce di una lampadina rossa, mi permetteva di eseguire molti esami in pochi minuti ad un costo quasi zero, risparmiando sulle costosissime lastre degli esami radiologici che richiedevano, inoltre, tempi lunghi di sviluppo e personale dedicato. Per la fluoroscopia bastava solo un medico.
Il paziente che entrava, passando dalla luce al buio totale della radiologia, non riusciva a rendersi conto di quello che accadeva dentro.
Aprivo la porta tenendo gli occhi chiusi e prendevo con una mano il paziente fuori in attesa e lo trascinavo all’interno mettendolo rapidamente sulla macchina. Gli chiedevo in lingua karimojong di trattenere il respiro; solo allora il paziente vedeva accendersi una luce davanti al suo petto per pochissimi istanti e certo non faceva a tempo a capire cosa succedeva in quella stanza buia che io l’accompagnavo fuori, sempre con gli occhi ben chiusi, per non perdere l'abitudine all'oscurità, e tiravo dentro velocemente il paziente successivo.
Erano passati quasi due mesi di intenso lavoro, e tante notti insonni, quando seppi via radio che Monica intendeva rientrare in Uganda con i bambini. Non essendoci ancora nel 1994 il telefono disponibile in Karamoja per chiamare l'Italia, sempre via radio feci pervenire a Monica un mio messaggio. Le dicevo che non era il caso di ritornare in Africa solo per due mesi, visto l'alto costo del viaggio e il mio modesto stipendio, per giunta ancora bloccato. Passarono alcuni giorni e, sempre per via radio, mi informarono dalla capitale che Monica sarebbe arrivata a Kampala in pochi giorni e di andarla a prendere con la macchina.
Ero confuso, arrabbiato e un po' agitato. Come faceva Monica a viaggiare da sola, con i bimbi piccoli e tutto il bagaglio, da Venezia a Milano, poi a Bruxelles, e finalmente arrivare in Uganda dopo una breve fermata a Kigali, in Rwanda? E dove aveva trovato i soldi per un viaggio così costoso?
Ero perplesso e non mi capacitavo assolutamente della sua follia per questo suo viaggio avventuroso con i bimbi.
Anche quell'ultima notte, prima di intraprendere il lungo viaggio verso Kampala, mi sarei girato e rigirato nel letto tormentato dai pensieri e dalle angosce? Decisi di no!
Lasciai detto nei vari reparti dell'ospedale che l'indomani mattina alle 7 sarei partito con la macchina per la capitale e che l’auto fino a quel momento non aveva altri passeggeri. Concordai inoltre, con gli altri colleghi, di non essere chiamato per nessun motivo durante la notte e presi finalmente un sonnifero per dormire. Volevo riposare, calmare per un poco le mie ansie.
Che ristoro è un sonno profondo e lungo!
L'indomani mattina, ben riposato, trovai davanti al garage dell'ospedale, dov'era parcheggiata la macchina, un nutrito numero di persone. La voce che un veicolo era diretto alla capitale si era sparsa in un baleno per l’ospedale e per il villaggio e così non lasciai a terra nessuno, una volta concordato, ovviamente, che il costo del viaggio sarebbe stato diviso tra tutti. Partivo con in tasca i pochi dollari rimasti e un viaggio, davanti a me, di almeno nove ore, ma almeno ero in compagnia. Anche Monica e i bimbi erano in viaggio: quanto mi mancavano!
Il viaggio fino a Kampala fu incredibilmente rigenerante.
Alla guida del fuoristrada, percorrendo metà dell'Uganda, i miei pensieri, agitati per le preoccupazioni del lavoro, dei miei familiari, del loro viaggio dall'Italia, lentamente si ricomponevano come le tessere di un puzzle, apparentemente all'inizio impossibile da costruire, e poi, via via, sempre più nitido ed infine completo.
Le tessere del puzzle erano tutti i sentimenti negativi che mi tormentavano, che mi rodevano fino a togliermi il sonno, ma l'immagine definitiva che appariva davanti a me era l'immagine di Monica con il suo bel sorriso felice di innamorata, che tornava in Africa per vivere nuovamente insieme a me e dare un calcio deciso ai debiti e alla nostra lontananza.
L'ultima ora di viaggio verso Kampala è stata per me ricca di serenità, di gioia intensa nell'attesa di riabbracciarla. Non avevo più dubbi, era proprio quello che desideravo.
Se devo pensare al mio matrimonio e ricordare una gioia grande e intensa, non posso che mettere ai primi posti quell’incontro con lei a Kampala, gli ultimi giorni di novembre 1994.
La gioia è stata inoltre ancora più grande nel sapere che l'attesa di Monica era identica alla mia. Il nostro abbraccio, con gli occhi lucidi dall'emozione e una gioia incontenibile, le dolci parole sussurrate all'orecchio l'uno dell'altro erano i primi segni del nostro amore, improvvisamente libero di esprimersi, dopo due mesi di lontananza.
Averla al mio fianco, con i bambini, fino alla fine di quell'esperienza africana, mi aveva ridato una grande serenità.
In seguito, raccontandole di quelle notti insonni, ridevo spensieratamente perché, le dicevo, erano completamente passate, avevo finalmente ritrovato ……. il dolce sonno.
Che felicità addormentarmi nuovamente vicino a lei, la mia metà, che era ritornata al suo posto, al mio fianco!
Che bello decidere di condividere insieme le difficoltà, rimetterci al centro del mondo, noi due, io e lei.
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