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bene arrivato in Africa
La prima volta che arrivai a Matany fu il 1 maggio del 1987 e come tutte le prime volte di qualcosa, la prima partita, il primo bacio, la prima ragazza, ma anche la prima sconfitta, il primo rifiuto ecc., il ricordo è nitido, quasi fissato, forse è meglio dire inciso nella memoria.
Avevo viaggiato tutto il giorno, dall’alba al tramonto su una Suzuki quattro ruote motrici, nuova di zecca, con il dott. Emmanuel, ugandese, neopatentato da un solo giorno, con il bagagliaio pieno di farmaci e vaccini.
C’eravamo alternati alla guida, prima io, nella prima parte della giornata, sulla strada asfaltata dove ci voleva più abilità sia, per il traffico e le numerose buche, che per la guida a sinistra come in Inghilterra; poi, una volta entrati in Karamoja, è stato il turno di Emmanuel che conosceva molto bene il territorio, con le strade che assomigliavano a piste nel deserto: così, infatti, mi era apparsa per la prima volta, quel giorno, la savana, del tutto arida, come sempre accadeva e come ebbi modo di imparare, alla fine della stagione secca.
Arrivammo a Matany ben dopo il tramonto e feci fatica, per il buio, a distinguere, all’interno del recinto dell’Ospedale, i vari edifici finché ci trovammo di fronte a quella che sarebbe stata la casa, mia e di mio fratello, che sarebbe arrivato, però, il giorno successivo con un piccolo aereo.
Era ora di cena. Mi dissero subito che avrei mangiato con gli altri volontari scapoli, un medico italiano, Sebastiano, un fabbro irlandese ed Emmanuel, nella casa vicina alla mia: pregustavo un’ottima cena di benvenuto e in fretta disfeci le valige nella mia camera.
Arrivarono a salutarmi, poco dopo, gli altri medici italiani, quelli sposati, tutti in camice, che tornavano dal lavoro. Apparivano proprio contenti per il mio arrivo, con un bel sorriso felice e cordiale.
Finalmente mi sedetti a tavola con gli altri tre scapoli, affamato e con grande aspettativa. Mi fu servito, sulla tavola nuda, come piatto unico, un minestrone con un odore davvero nauseabondo e con il commento compiaciuto di tutti: “Questo è il pasto che mangiamo più spesso e più volentieri perché si prepara in pochi minuti”.
Tenevo il cucchiaio sollevato, indeciso sul da farsi, dentro di me disgustato e sconcertato dall’aspetto e dall’odore di quella zuppa scura e guardavo gli altri che, come lupi voraci, divoravano quell’intruglio.
Chiesi con discrezione se ci fosse del formaggio, o dell’olio, o almeno del pane, ma mi dissero di no.
Deluso e affamato com’ero, cominciai lo stesso a mangiare, lentamente, pensando tra me e me che, se quello era lo standard della cena, c’era davvero di che preoccuparsi. Non vedevo l’ora che arrivasse mio fratello Andrea, l’indomani, per poter condividere, con lui, quelle prime pessime impressioni sulla cucina di Matany.
Sono sempre stato una buona forchetta ed un certo decoro a tavola è sempre stato per me importante ed indispensabile.
Tornato a casa, con lo stomaco che si contorceva dalla fame, esplorai la cucina per vedere cosa ci fosse.
La dispensa era pressoché vuota: solo un sacco di patate, dello zucchero, del the e due contenitori di latta. Aprii il primo e riconobbi subito il nauseabondo odore della zuppa di poco prima, il secondo, invece, conteneva solo del latte scremato in polvere.
Dormii male quella prima notte e la colazione del mattino fu solo con the e latte in polvere perché non c’era pane, non c’erano biscotti, figuriamoci la marmellata. Mi sembrava di essere a digiuno da un mese!
Dovetti attendere qualche giorno, prima che arrivasse la cassa spedita dall’Italia il mese precedente, contenente pasta, pelati, olio, tonno in scatola, per cenare decentemente, perché a Matany, al mercato, veramente misero, non c’era proprio niente di appetibile per noi: era da poco finita la guerra civile e tutto il paese era in miseria nera e noi eravamo capitati nel posto peggiore.
Pochi giorni dopo gli altri medici ci presentarono il personale di servizio della nostra casa, ereditato dai medici precedenti o più probabilmente scaricati da loro stessi. Non volli proprio indagare; mi dissero soltanto che bisognava tenerli come opera di carità.
Uno era il giardiniere, un lebbroso con le mani rattrappite e deformate dalla malattia, mentre il secondo, una ragazza karimojong, che non parlava inglese, era d’aiuto in cucina. Mi chiesi, da subito, a cosa sarebbero serviti questi due lavoratori, non proprio necessari, e capii presto che, nel nostro caso, erano soltanto due bocche da sfamare.
Il giorno successivo, a pranzo, arrivò per ultimo Sebastiano, che si era attardato al lavoro; si sedette a tavola senza togliersi il camice, con l’atteggiamento di chi è abituato a fare sempre così.
Osservai inorridito il camice sporco lurido e in disordine, con una macchia gialla, fresca, a livello del taschino. Gli chiesi cosa fosse quella macchia gialla e Sebastiano, che neppure era passato per il bagno a lavarsi le mani, trangugiando affamato la pasta, con un sottile sorriso ironico, disse che aveva appena eseguito in pediatria una puntura lombare e la macchia gialla era lo schizzo del pus della meningite appena diagnosticata. Mi arrabbiai proprio tanto, e ottenni però, da quel momento, che l’andamento della cucina fosse gestito da me e mio fratello e che, soprattutto, si rispettasse un poco d’igiene.
Pensavo preoccupato a come si era ridotto Sebastiano dopo due anni d’Africa.
Mi sarei ridotto anch’io così in breve tempo?
Dimagrivo a vista d’occhio e pensare che già in Italia ero considerato uno magro!
Bisognava reagire!
Capii, soprattutto, che era solo questione di sapersi organizzare bene ed arrangiarsi perché, da qualche parte, saremmo sicuramente riusciti a procurarci lo stretto necessario per mangiare qualcosa di decente e, inoltre, gli altri medici, ad eccezione di Sebastiano, mi sembravano avere un decoro più che accettabile.
Passarono, presto, per fortuna quelle prime dure settimane d’ambientamento a questa nuova realtà, proprio povera, e al nuovo lavoro in Ospedale e trovammo le occasioni giuste per procurarci, con il prezioso aiuto delle suore, carne, uova e qualche verdura. Poi, nella cittadina a 80 chilometri, scoprimmo, con nostra meraviglia, il fornitissimo magazzino di don Vittorione.
Questo sacerdote di Piacenza aveva organizzato in Karamoja un sistema d’emergenza per la distribuzione di cibo, in caso di carestia e fame, sempre incombente peraltro in quegli anni, per la guerra civile e per la scarsità delle pioggie.
Don Vittorione aveva accumulato, in due grandi magazzini, ogni ben di Dio che distribuiva, secondo le necessità, in giro per la Karamoja con i camion.
Stoccati, c’erano anche prodotti assolutamente non allettanti per quella popolazione e diverse confezioni ormai scadute, inviati con container direttamente dall’Italia da una vasta rete di benefattori. Per noi don Vittorione fu sempre un vero Santo, per quanto ci aiutò, e già la nostra prima visita fu una gran festa. Tornammo a casa con la macchina piena di confezioni, e anche se alcune erano ormai scadute, per noi erano comunque ottime, e arricchirono notevolmente la nostra magra cucina.
Uno dei piatti che cucinavamo più frequentemente, per la difficoltà di trovare della pasta, era il riso.
Avevamo imparato da nostra madre, ottima cuoca, varie ricette per cucinare il risotto con la pentola a pressione e riuscivamo a cuocerlo in soli dieci minuti.
Il sacco del riso, in dispensa, era inguardabile perché pieno di vermi. Per noi era impossibile setacciarlo a dovere prima di cuocerlo, per mancanza di tempo, come invece facevano le suore nel convento, meglio organizzate di noi.
Buttavamo quindi il riso con i vermi dentro la pentola a pressione e, dopo la cottura, lo scremavamo semplicemente buttando via quel tappeto, in superficie, zeppo di vermi cotti.
Era la fame o l’inizio di quell’abbruttimento che mi sembrava di vedere in Sebastiano e che ci aveva così spaventato?
Nel racconto dell’organizzazione della nostra cucina, merita un cenno anche la carne.
La carne si comprava dalle suore che, ogni 2 o 3 mesi, facevano macellare un vitello che poi, a pezzi di circa un chilo, finiva in sacchetti nel freezer, collocato nel corridoio della sala operatoria.
Quando un medico decideva di mangiare carne, andando a lavorare, portava con sé un cesto di vimini e ci metteva il pezzo di carne, preso dal freezer della sala operatoria, perché si scongelasse. All’una, tornando a casa, per la pausa pranzo, riprendeva il cesto con la carne ormai pronta per essere cucinata.
Spesso tornando a casa, dal cesto o dal sacchetto rotto, cadevano gocce di sangue che lasciavano una bella scia lungo il corridoio.
Io non amavo molto la carne di bovino karimojong, soprattutto la bistecca, perché era così dura che era un’impresa masticarla per le mie mandibole.
La carne, perciò, era meglio frollarla molto e bollirla per molte ore perché fosse più tenera, ma questo richiedeva troppo tempo in cucina per noi.
Un giorno ricoverammo nel reparto femminile, per tifo, una ragazzina. La situazione tossi-infettiva era pesante, il suo addome in poco tempo aveva assunto un quadro peritonitico e quindi decidemmo di operarla.
Un’ansa dell’intestino tenue era scoppiata, come la camera d’aria bucata di una bicicletta, complicanza tardiva, e assai pericolosa, di quella malattia. L’intervento riuscì bene, ma la bambina continuava a non migliorare, rimaneva sempre febbrile e dopo tre giorni l’addome, da poco operato, registrava le stesse caratteristiche di gravità di prima.
La rioperammo e trovammo un'altra perforazione in un’altra ansa intestinale. L’intervento terminò e la ragazzina sopravvisse a quel secondo intervento, ma dopo pochi giorni fummo costretti a riportarla in sala operatoria nuovamente. Nonostante fossimo riusciti a chiudere quei buchi nell’intestino, nel terzo intervento ne trovammo ancora molti e capimmo, purtroppo, che le speranze di salvarle la vita erano davvero minime.
La ragazzina sopravvisse soltanto un altro giorno. Morì nel reparto d’isolamento, accanto alla madre che non l’aveva lasciata un momento in quel triste e doloroso calvario.
Quando morì, la madre ci disse, in tono duro e severo, che la sua bambina ce la potevamo finalmente mangiare tutta quanta, dopo averne mangiato solo alcune parti, in precedenza.
Fu davvero un colloquio scioccante, a cui per fortuna non assistetti, perché sarebbe stato, per me, come una pugnalata.
Capimmo quanto la nostra medicina e la nostra chirurgia fossero così lontane dalla mentalità dei karamojong e come non fosse assolutamente passato inosservato il nostro andirivieni con il cesto di carne, per loro umana, che portavamo fuori della sala operatoria.
Venimmo anche a sapere che il campanello che suonavamo, al termine d’ogni intervento chirurgico, affinchè l’infermiera del reparto riportasse in corsia il paziente appena operato, era considerato dalla gente karamojong una sorta di malocchio, un influsso malefico che diffondevamo nell’aria per attirare nuovi malati in Ospedale.
Lavoravo in Africa, in Karamoja o piuttosto su un altro pianeta o, per magia, ritornavo indietro di migliaia d’anni, ogni volta che varcavo la soglia di quella regione dell’Uganda?
Ero andato in Africa come medico missionario o ero, non solo un bizzarro e potente stregone bianco, ma anche un cannibale, un mangia bambini?
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