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Viaggio per la Karamoja
L'Uganda è chiamata la perla d'Africa.
Si trova proprio al centro dell'Africa, bagnata a sud, come se fosse un mare, dal lago Vittoria, il più vasto lago d'Africa e la vera sorgente del fiume Nilo.
Questa verde e fertile terra fu conosciuta ed esplorata dagli europei ben dopo la metà dell’800 ed ha rappresentato per tanti secoli quel mitico e ignoto territorio, sogno di tutti gli esploratori, dal tempo dei Romani, dove cercare le famose sorgenti del Nilo.
Tanti furono gli esploratori, nei secoli, che si avventurarono lungo le acque del Nilo sperando di raggiungere le sorgenti, ma vi trovarono solo la morte e in luoghi ancora molto lontani dalla meta.
La scoperta delle sorgenti del Nilo si deve agli esploratori inglesi che le cercarono partendo da sud, vale a dire dalla Tanzania, invece che da nord, cioè risalendo il Nilo, come avevano fatto tutti i loro predecessori. Per primi questi esploratori, in canoa, attraversarono, con molte difficoltà, il grande lago ed incontrarono la popolazione Baganda da cui il nome, in seguito, dello stato dell’Uganda.
L'Uganda è stata così isolata, per secoli, che quegli esploratori inglesi furono i primi uomini bianchi mai incontrati prima dalle popolazioni locali.
Scoperta la via d'accesso a questo verdissimo angolo ancora nascosto nel mondo, gli inglesi ne fecero presto, approfittando della buona accoglienza dei Baganda, un Protettorato, e già alla fine dell’800 fu costruita la lunghissima linea ferroviaria che dal Kenya arriva fino a Kampala, sede antica del re Baganda, che da villaggio divenne città ed infine capitale dell’Uganda.
L'aspetto dell’Uganda, per chi arriva in aereo, è davvero rigoglioso e le isole del lago Vittoria vicino alla costa, la rendono molto simile ad un paesaggio esotico caraibico.
Ogni volta che arrivavo all'aeroporto di Entebbe, a 30 chilometri dalla capitale, rimanevo colpito dai colori, così vivi che proprio m’incantavano, come pure dalle baie lungo la costa con la gente che pescava.
Anche il clima temperato di questa terra, data la vicinanza del lago, è ottimo e pressoché uguale tutto l'anno. Caldo, mai eccessivo o troppo umido di giorno, fresco delizioso la sera.
Se penso che il famoso Eden fosse in Africa, non avrei alcun dubbio nell'affermare che sarebbe stato proprio sulle sponde del Lago Vittoria, terra fertilissima che permette 2 o 3 raccolti l'anno, con piogge frequenti e regolari.
Quando partivo da Kampala per l'Ospedale di Matany percorrevo almeno 350 chilometri di questo paradiso terrestre e, sebbene il viaggio fosse molto lungo per le strade, all'epoca, in rifacimento, era sempre per me piacevolissimo rivedere questi incantevoli paesaggi. Ogni tanto la strada passava vicino alla costa con le sue ampie insenature e le verdi isole del lago Vittoria che rendevano la vista stupenda.
Tutte le volte che passavo per la città costiera di Jinja, e percorrevo la diga sul Nilo, vicinissima alle vere sorgenti del Nilo, era per me un’emozione vedere scorrere impetuosa tutta quell'acqua, che avrebbe attraversato l'Africa fino al Mediterraneo.
A 300 chilometri da Kampala, lasciata la città di Mbale, posta alle pendici del Monte Elgon, un maestoso vulcano spento ed alto più di 4000 metri, il paesaggio mutava lentamente; lasciavo alle spalle quella fertile terra ed entravo in un altro mondo, così ogni volta mi sembrava, viaggiando in macchina verso la Karamoja, quando la vista si apriva nel vasto, incredibile scenario della savana con i monti lontani, posti agli angoli di quell'immenso altopiano, e con le sue dolci colline.
La strada, che amavo di più per raggiungere l'Ospedale di Matany, era quella che da Mbale puntava ad est fino al villaggio di Nakapiripirit, alle pendici del monte Kadam, per poi piegare a nord verso il maestoso monte Moroto, alto 3100 metri.
Percorrevo, in questo modo, tutto il lato sud e una parte del lato est della Karamoja, sempre ai confini con il Kenya, ed essendo la strada più elevata, rispetto al territorio circostante, avevo sempre l'impressione di dominare tutta quella vasta regione, con la sua vegetazione rada, piena di cespugli, gli alberi isolati qua e là e con un colore che cambiava radicalmente, dal verde acceso nella stagione delle piogge, al colore giallo-rosso nell'arida stagione secca.
Nel 1987, il mio primo anno in Uganda, il viaggio dalla capitale all'Ospedale durava circa 13 ore, se tutto filava liscio e non pioveva.
Partivo prima dell'alba, ed arrivavo in Ospedale poco dopo il tramonto, dopo aver percorso circa 500 chilometri con una sola lunga sosta a Mbale, circa metà strada, per il rifornimento di carburante e per la spesa di frutta e verdura, non essendoci a quel tempo altri mercati fino a Matany.
Se il paesaggio, come ho detto, era incantevole, il viaggio, invece, per me che spesso mi trovavo alla guida, era sempre un incubo: bevevo e mangiavo pochissimo per non fare soste aggiuntive a quella in programma. Ero terrorizzato dalla possibilità di trovare la pioggia o i banditi, una volta entrato in Karamoja, e mi auguravo di non dover guidare di notte, per la scarsa visibilità della strada, sempre piena di buche e voragini.
Viaggiare con due macchine era sicuramente più sicuro, mentre era notevolmente più comodo essere passeggero di qualcuno ben esperto di quelle strade.
Molte volte, inoltre, la macchina che guidavo era l'unica diretta a Matany, almeno negli ultimi 80 chilometri.
Durante il viaggio succedeva sempre qualche cosa: ho quasi sempre bucato una ruota, una volta addirittura due; mi è successo pure di perderla in corsa, ma, grazie a Dio, ci siamo salvati: in macchina eravamo in otto e poteva essere una strage.
Una volta non avendo altre auto a disposizione, sono addirittura partito con il cambio rotto ed ho impiegato due giorni ad arrivare non potendo inserire la seconda; durante un viaggio verso la capitale, per via del fondo fangoso e le ruote lisce, sono addirittura uscito di strada.
Ho guadato un fiume al chiaro di luna, attraversato un ponte pericolante nel buio fitto di una notte piovosa.
Ricordo bene un viaggio, sotto un’abbondante pioggia, passeggero della macchina di due missionari, Padre Carlo e Padre Walter, diretti nel nord della Karamoja.
Procedevamo molto lenti, sulla tabella di marcia, a causa della strada in pessime condizioni e della pioggia abbondante che durava da alcuni giorni.
A 100 chilometri dall'Ospedale, nel tratto di strada più impegnativo, ci bloccammo, sprofondando nel fango fino al cofano: un tratto di strada davanti a noi sembrava non esistere più, era un immenso acquitrino. Chiunque arrivasse con la macchina, provava ad evitare quella che appariva come una vastissima voragine, passando ora a destra, ora a sinistra, ma in questo modo non si faceva che creare altre profonde voragini!
In quest’immenso pantano, lungo almeno 300 metri, si erano bloccati anche due camion militari, proprio al centro di due ampie buche, uno dietro l'altro. I militari avevano svuotato i due camion per alleggerirli e, avvicinandoli il più possibile, li avevano legati saldamente con un robusto palo da traino. Riuscirono finalmente a partire, trainandosi a vicenda, ma, dopo aver superato due enormi buche, si fermarono definitivamente in quelle successive, così ampie, senza più poter procedere oltre.
Una volta sceso dal nostro fuoristrada, sprofondato nel fango, assistendo a quella scena mi domandavo, sconcertato, come avremmo potuto noi affrontare quella palude e che cosa sarebbe stato poi con l'avanzare del buio della notte.
Fummo, incredibilmente, decisamente fortunati. Arrivarono in poco tempo moltissime persone che ci aiutarono a sollevare, letteralmente, il fuoristrada dal fango e a spingerlo su un tratto più asciutto. La spinta poi che ci diedero ancora, ci permise, dopo due ore, di ripartire al di là della palude.
I soldati, invece, sconfitti, abbandonarono i loro mezzi, bloccati, di certo, finché il tempo non avesse asciugato quella pista.
Una volta entrati in Karamoja iniziava anche l'incubo dei banditi.
Gli assalti alle auto, ai camion, ai pullman e perfino alle ambulanze erano abbastanza frequenti, ma la cosa più drammatica era la tecnica impiegata da questi malviventi. Mentre in passato veniva usata la tecnica del tronco in mezzo alla strada per fermare le auto, da qualche anno i banditi armati, non più con archi e frecce, ma con fucili automatici, sparavano diritti alle auto per fermarle, provocando spesso feriti e qualche morto.
Questi banditi, resi più pericolosi dall'alcool, avevano il grilletto molto facile e purtroppo accadde, tra i tanti gravi fatti accaduti in quegli anni, che un giocatore della nostra squadra di pallavolo, fosse ucciso, per una raffica sparatagli a bruciapelo perché uscito dalla macchina per protestare contro quell'aggressione.
In quell'occasione organizzammo un lungo sciopero ospedaliero contro quegli assassini, che durò molti giorni, nell’attesa che i capi tribù si accordassero tra loro per fermare quel diffuso banditismo fino ad allora troppo tollerato.
Anche durante il nostro viaggio di nozze, Monica ed io, diretti, guarda caso(!!!!), all'Ospedale di Matany, fummo costretti a cambiare percorso perché qualche giorno prima i ribelli, questa volta invece dei banditi, avevano assaltato alcune macchine e ferito un famoso italiano, don Vittorione, di Piacenza.
Partimmo in quella occasione da Kampala con un piccolo aereo, sotto la pioggia, diretti all'aeroporto di Moroto, il più vicino a Matany, ma poiché era sommerso dal fango, fummo dirottati in quello di Kotido molto più lontano. Arrivammo finalmente a casa, sempre sotto la pioggia, alle sette di sera, dopo altre quattro ore di strada in macchina e una ruota bucata.
Monica ed io concludevamo così, avventurosamente, il nostro viaggio di nozze.
Il tempo era in ogni caso tutto nostro: sapevamo bene che l'Africa vera è anche questa!
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