racconti » Racconti d'avventura » Una notte incredibile
Una notte incredibile
Per noi europei la notte in Africa ha degli aspetti magici e fantastici.
A Matany, l'Ospedale sorge su un lieve rilievo di un vasto altopiano a circa 1000 metri sul livello del mare, con una vegetazione rada, tipica della savana, e questo permette quasi dovunque un panorama a 360 gradi e così pure dalla casa dove abitavo; questo è uno degli aspetti più caratteristici ed incantevoli della Karamoja rispetto ad altre regioni ugandesi dove la vegetazione più fitta o l’assenza di rilievi impedisce una visione così imponente dei dintorni.
A Matany, la notte è inoltre arricchita dal panorama più affascinante del mondo e in pratica uguale da centinaia di secoli, la volta celeste, visibile dalla stella polare alla croce del sud, con la rotazione ciclica delle costellazioni, che rende lo scenario sempre diverso ad un occhio attento ed esperto, nelle varie ore notturne, con il migrare lento degli ammassi stellari, delle galassie e il passaggio da est ad ovest della luminosissima Via Lattea.
L’aria più secca della Karamoja e l'altitudine rendono davvero incredibilmente vicino il cielo.
Amavo molto, nelle ore notturne, leggere nella veranda di casa e ogni tanto guardare verso l'alto, incantato e sorpreso dalla luminosità delle miriadi di astri e galassie visibili e pensavo alle poche centinaia che ero solito vedere dalle nostre Dolomiti nelle migliori serate.
Ricordo che una notte, accampato con la mia famiglia sul monte Moroto, per una breve vacanza, a circa 100 chilometri da Matany, osservando il cielo notturno, chiesi ad un pastore, lì con noi, che cos'era quell'ammasso di stelle che disegnavano una figura imponente nel cielo. La risposta del pastore, che ci faceva da guida in quel piccolo villaggio nelle montagne del massiccio del Moroto, fu immediata: “Il guerriero”. Il tono della sua voce era però anche un po' interrogativo. Come per dire, “Ma nel vostro cielo non esiste questa costellazione? ”
Qualche anno dopo ho colmato questa grave lacuna e ho scoperto che la costellazione, che quella notte sul monte Moroto, appariva alta nel cielo, era quella di Orione, ben nota dal tempo degli antichi egizi come l'emblema del guerriero, con la spada alla cintura, e la lancia impugnata, ben visibile nel cielo ad est, alle nostre latitudini, soprattutto d'inverno. Sicuramente la mia e la nostra generale ignoranza sul cielo sono abissali, ma non è così per un pastore di una popolazione nomade africana che sicuramente conosce il cielo come un libro aperto, tramandato da secoli, che scandisce le stagioni, gli anni, probabilmente la sua vita e quella dei suoi animali.
Durante i turni di guardia in Ospedale, spesso, ero chiamato di notte per un caso grave appena arrivato, o qualche volta per un paziente che “aveva improvvisamente”, come dicevano gli infermieri, “cambiato le sue condizioni cliniche” ma che, in realtà, stava morendo.
Uscire di notte ed avviarmi per i padiglioni dell'Ospedale era veramente faticoso perché svegliarsi dal sonno africano è un'impresa.
Percorrevo la strada in bicicletta per essere più veloce e allo stesso tempo più sicuro, nel caso avessi incontrato un serpente nei vicoli bui del giardino dell'Ospedale, e amavo guardare il cielo, inspirando l'aria fresca, quasi per coglierne anche il profumo, talmente era bello.
Se interrompere il sonno e i sogni era faticoso, ogni alzata dal letto era, però, davvero ricompensata da quello spettacolo stupendo!
Quella notte d’agosto 1987, non ero di guardia e il mio sonno era profondo e tranquillo per la certezza di non essere svegliato. Feci fatica quindi, scambiando quel rumore per un incubo, a prendere coscienza udendo un urlo disperato e un nome continuamente ripetuto: Emmanuel, Emmanuel!
Mi alzai sconvolto dal sonno e da quel nome, Emmanuel, che mi sembrava gridato sempre più disperatamente dalla finestra della veranda.
Uscii dalla camera intontito e vidi alla finestra un africano nudo che mi chiamava in un ottimo accento inglese e, riconoscendomi, diceva: “Non sei Emmanuel…. credevo fosse questa la sua casa, sono disperato, mia moglie sta partorendo lontano da qui, nella macchina bloccata dal fango”.
Capii, dopo tutta quella tempesta di parole che l’uomo nudo non era un africano, bensì un bianco, completamente coperto di fango, dalla testa ai piedi: il suo nome era Stokley.
Il dottor Stokley, inglese, abitava con la sua famiglia a circa 80 chilometri a nord e dirigeva un progetto di salute pubblica nel distretto della Karamoja confinante con il nostro.
Un mese prima, era venuto con la moglie, all'ottavo mese di gravidanza, per vedere l'Ospedale e assicurarsi un buon alloggio per il periodo del parto.
Per sua moglie, questa era la terza gravidanza. Nel parto precedente, però, il bambino era nato con il taglio cesareo.
Durante quella visita, ci raccomandammo che lei venisse in Ospedale almeno quindici giorni prima del parto, per precauzione, poiché era la stagione delle piogge e le strade erano veramente in condizioni precarie ed, inoltre, perché il suo parto era a rischio.
Il dott. Stokley però non ci ascoltò e soltanto con l'inizio delle doglie, a mezzanotte, partì solo con la moglie, senza nessun altro accompagnatore in auto, per raggiungere il più presto possibile il nostro Ospedale.
Dopo più di due ore di strada, immagino infernali, di notte, a pochi chilometri dall'Ospedale, probabilmente sentendosi arrivato, prese la scorciatoia che riduceva di due chilometri la strada, ma assolutamente da evitare nella stagione delle piogge.
A tutta velocità, cercò di superare una pozzanghera, lunga almeno 100 metri, ma infine si impantanò affondando con le ruote nel fango.
Preso dalla disperazione e, forse, dalla consapevolezza dell'errore fatto, si spogliò e si buttò sotto l'auto, nel vano tentativo di togliere, al buio, il fango da sotto le ruote.
Perdute le scarpe e coperto completamente di fango, mentre la moglie in macchina si contorceva e urlava per le doglie dolorose, si era deciso, infine, a raggiungere l'Ospedale a piedi nudi.
In quindici minuti arrivò all’ingresso del nostro San Kizito Hospital di Matany, e si fermò davanti al cancello chiuso. Incredibilmente, come fosse un incantesimo, tutti, quella notte, dormivano: custodi, guardie, e persino gli infermieri dei reparti.
Nessuno perciò udì gli urli selvaggi del dottor Stokley davanti all’ingresso dell’Ospedale.
Stokley, indomito, scavalcò la rete metallica, ferendosi lievemente, e percorse i viali dell'Ospedale fino alla mia finestra. Nessuno lo sentì tranne me, e non subito.
Vestitomi in fretta, corsi con lui verso la casa a fianco e svegliai il dottor Emmanuel, medico ugandese e amico di Stokley. Con lui organizzammo una macchina con l’ostetrica del reparto e tutto l'occorrente per l'eventuale parto e la borsa per la rianimazione neonatale. Corremmo dalle suore, svegliandole, per prendere le chiavi della macchina. Caricammo il custode, e le guardie dell'Ospedale che finalmente erano comparse dopo tanto movimento.
Il percorso fino alla macchina fu breve, ma l'ansia ci faceva quasi trattenere il respiro.
Il dottor Stokley, coperto di fango (non volle perdere tempo per lavarsi e vestire), continuava a ripetere “facciamo presto”. Appariva terrorizzato e, una volta in macchina, non disse più una parola.
Non era più così buio come prima e cominciavano le prime luci dell'alba.
Arrivati alla macchina abbandonata dal dottor Stokley, la strada non si riconosceva più e scompariva in un piccolo lago.
Immaginavo di tutto prima di arrivare alla macchina: pensavo di trovarla tutta imbrattata di sangue, temevo che la donna fosse morta di parto, ma dentro di me speravo di vedere il neonato felicemente partorito che piangeva in braccio della madre sorridente che lo cullava; invece, smontati dalla macchina, trovammo incredibilmente la signora Stokley tranquilla, seduta al suo posto. Il terrore, in precedenza provato, aveva fermato completamente le doglie e lei aveva avuto, quindi, il tempo di rilassarsi dopo quella brutta avventura.
La macchina del dott. Stokley, grazie alla sua velocità, aveva percorso quasi tutta la vasta area fangosa e così, con l'aiuto delle persone che ci avevano accompagnato, non fu difficile spingerla e rimetterla nuovamente nella strada asciutta.
Erano pochi mesi che lavoravo a Matany, laureato da soli due anni, e mi sentivo inesperto, in modo particolare in ostetricia, ma in quelle settimane ero, per l’assenza di altri medici più anziani, il responsabile di quel reparto.
Assicuratomi con lo stetoscopio della presenza di un buon battito fetale, che mi confermava il benessere del bambino nella pancia della sua mamma, decisi di stimolare il travaglio con un abbondante clistere, temendo di usare l'ormone ossitocina, a causa del precedente taglio cesareo e la possibile complicanza di rottura d'utero.
Accompagnammo il dottor Stokley a fare una doccia nell'alloggio che gli avevamo già assegnato da tempo, e andai a casa per una meritata colazione.
Mi richiamarono dopo le otto per l'avvenuta ripresa di buone e valide contrazioni e, in breve tempo, iniziò la fase espulsiva.
Tutto mi sembrava procedere in modo ottimale e dopo un po' si potevano vedere, come segno della discesa del bambino verso l'esterno, i suoi capelli.
Ordinai allora all'ostetrica un'ampia incisione del perineo, per facilitare la fase finale del parto, ma la signora Stokley, urlando per le contrazioni dolorose, mi disse di rifiutare tale procedura perché, come nel primo parto in Inghilterra, non necessaria. Sicuramente mi vedeva tanto giovane e inesperto.
Fu insistente, nonostante la mia obiezione, e l’ostetrica, confusa, fermò infine l'incisione.
Da quel momento la fase espulsiva divenne molto lunga e l'uscita del bambino appariva bloccata. Dopo numerose spinte inefficaci, mi buttai, durante una prolungata contrazione, sulla pancia della donna. La testa del bambino finalmente uscì abbondantemente e dopo altre tre mie spinte energiche, il bambino, urlante, fu tutto fuori.
Ero così felice ed orgoglioso dell'esito del parto che uscii subito dalla sala e andai al mio lavoro di routine nell'altro reparto che, pure, in quel momento di crisi di personale medico, dirigevo.
Seppi più tardi che la signora Stokley aveva iniziato a sanguinare abbondantemente ed era stato chiamato, per mia fortuna, il dottor Emmanuel, più esperto di me. Egli riscontrò una profonda lacerazione che si sarebbe potuta evitare, ovviamente, con l’incisione che la signora aveva rifiutato, e decise quindi di rimediare suturandola subito.
Durante il mio lavoro nel reparto sentivo chiaramente le urla atroci della sig. ra Stokley provenire dall'ostetricia, e seppi soltanto a pranzo che l'intervento era stato eseguito senza anestesia. Il Dott. Emmanuel, anche se ugandese, era convinto, pure lui, come lo siamo in Europa, che i pazienti parenti di medici sono sempre grossi grattacapi e, così, pensò fosse meglio evitare l’anestesia, un possibile pericolo aggiuntivo. E così fece!
Nonostante le urla spaventose della donna, che quasi cadeva dal letto per sfuggire agli attrezzi chirurgici, l’intervento, un po' lungo, riuscì perfettamente; l’emorragia cessò e l’Ospedale tornò al suo rumore di sempre
1234
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0