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La luce a Matany
La sala macchine dell’Ospedale di Matany è il cuore energetico pulsante, indispensabile per la vita di tutto quel complesso costituito da reparti, laboratorio, radiologia, farmacia, sala operatoria, sterilizzatrice.
Senza energia elettrica un Ospedale africano passa di categoria e diventa soltanto dispensario.
Nella sala macchine funzionavano tre potenti generatori; il più piccolo era tenuto fermo, di riserva, mentre gli altri due si alternavano al lavoro.
Il più potente dei tre era impiegato la mattina per cinque ore, dalle 8 alle 13.
Durante queste ore si accumulava la maggior richiesta energetica per l’attività della radiologia, dell’officina meccanica dell’Ospedale, così pure della falegnameria, oltre al laboratorio e alla sterilizzatrice. I generatori venivano spenti alle 13 per essere riaccesi dalle 17 fino alle ore 21.
Poi a Matany piombavano il buio e il silenzio.
Nel tempo, grazie a donazioni e ad acquisti intelligenti, era stato man mano installato, all’interno dell’Ospedale, un sistema di illuminazione a 12 Volt, grazie a batterie caricate dal sistema foto-voltaico.
Diversi pannelli solari sui tetti, permettevano ai frigoriferi di funzionare e a numerose lampade al neon di illuminare in modo sufficiente i reparti.
Quando accadeva che il silenzio della notte fosse interrotto dal rombo lontano del motore diesel del generatore, e dalla contemporanea accensione di tutte le luci delle case e dell’Ospedale, non opportunamente spente, significava che la sala operatoria era stata aperta per qualche emergenza.
Mi svegliavo sempre a quel rombo lontano e allo scintillio dei neon che si accendevano in casa e riprendevo sonno soltanto quando era ritornato il silenzio che ovviamente segnava la fine dell’intervento.
Quando ero di guardia o reperibile per la sala operatoria, accendevo il generatore soltanto dopo aver organizzato per bene l’intervento chirurgico, con tutto il personale della sala operatoria presente e operativo.
Grazie a Roberto, il nostro capace tecnico ed orefice di Valenza Po, si poteva accendere il motore direttamente dalla sala operatoria, senza quindi doversi più recare in sala macchine. Per dare elettricità a tutto l’Ospedale bastava girare la chiave dell’interruttore, proprio all’ingresso dell’edificio della sala operatoria, dopo aver premuto il pulsante della preaccensione.
Era come mettere in moto una vecchia auto diesel.
Quella modernità, entrata in funzione a Matany da poco tempo, mi piaceva proprio tanto e girando la chiave per l’accensione pensavo ai giorni in cui bisognava mandare qualcuno a chiamare il tecnico della sala macchine, qualche volta sparito in qualche villaggio vicino, magari addormentato od ubriaco.
Partito il motore, dopo pochi istanti, si sentivano gli scintillii dei neon che si accendevano e illuminavano l’Ospedale come un albero di Natale, così appariva Matany guardandola in lontananza.
La corrente elettrica garantiva, inoltre, la possibilità di utilizzare, durante l’intervento il bisturi elettrico, la potente lampada scialitica sopra il tavolo operatorio, l’aspiratore e il respiratore automatico per l’anestesia.
Andavo, allora, a cambiarmi nello spogliatoio medici e quindi a lavarmi.
Acqua, sapone e spazzola per dieci minuti, scanditi da un timer, una piccola sveglia posta accanto al lavandino.
Questo antico rituale era necessario per un’accurata disinfezione delle mani e delle braccia fino ai gomiti prima di entrare in sala ed era, inoltre, assai utile per concentrarsi sull’intervento da fare e, di notte, soprattutto per svegliarsi bene.
Una sera, lavandomi e riflettendo sull’intervento che avrei condotto da primo operatore, mi sembrò di vedere, di fronte a me, due punti bianchi, vicini tra loro, muoversi nella stanza buia del magazzino della sala operatoria.
Pensando ad allucinazioni, vista l’ora tarda della notte, guardai prima le mani che lavavo e spazzolavo, poi guardai nuovamente ancora di fronte a me.
Quei punti bianchi erano ancora là, ben evidenti, poi scomparivano e dopo un poco riapparivano. Strabuzzai gli occhi, sporsi in avanti la testa, sollevandomi in punta di piedi, per osservare meglio quella stranezza. Questi punti luminosi si fecero improvvisamente più vicini e più grandi: non erano altro che gli occhi di una bella infermiera karimojong, nuda, che si stava vestendo per entrare in sala operatoria e mi guardava con paura.
Da quel giorno, dopo quella magra figura, che però racconto sempre in modo divertito, mi lavai sempre nell’altro lavandino, quello rivolto verso la sala operatoria.
Alle ore 21 il motore del generatore taceva.
Il tecnico della sala macchine era diventato preciso, come un orologio svizzero, non sgarrava di un minuto, dopo essere stato minacciato di licenziamento per aver lasciato accesa, molto a lungo, la luce di tutto l’Ospedale, reo di una solenne ubriacatura.
Questa sua precisione si scontrava, in aggiunta, con la nostra disattenzione. Spesso, infatti, ci dimenticavamo di spegnere in anticipo gli apparecchi elettronici che altrimenti potevano subire danni non trascurabili dal cambiamento improvviso di tensione.
Allo spegnimento del generatore, seguivano immancabilmente le imprecazioni del direttore dell’Ospedale e pioniere dell’informatizzazione; i suoi urli di disappunto risuonavano e rimbombavano nel silenzio improvviso, per aver dimenticato anche quel giorno di premere il pulsante di salvataggio, evenienza frequente nei vecchi computers della fine degli anni ’80, e aver buttato al vento, ancora una volta, tutta la sua giornata di lavoro.
Dalle 20, 15 alle 21, il mercoledì e il sabato, con mio fratello Andrea, avevo organizzato il cinema per i dipendenti dell’Ospedale e per gli allievi della scuola infermieri.
Quest’orario ci permetteva di mostrare un film, diviso in due tempi, in due serate, per la limitata disponibilità della corrente elettrica.
Molto spesso, nonostante andassimo ad avvisare il tecnico della sala macchine che il film sarebbe finito a minuti, puntualmente, lui, alle 21 e mai oltre, con grande disappunto di tutti, magari durante la scena finale e conclusiva del film, toglieva la corrente.
Non ci restava che ritrasportare, con amarezza e delusione, il televisore nella casa delle suore ed aspettare, con ansia, il fine settimana per la conclusione del film.
Quando arrivai a Matany nell' aprile del 1987, si era soliti ogni tanto, direi meglio raramente, proiettare un film con una vecchia macchina per pellicole da 24mm; le bobine, 4 o 5 erano sempre, da anni, le solite e soltanto in lingua italiana.
Dopo la prima proiezione, interrotta più volte dal cattivo funzionamento del proiettore, decisi che avrei organizzato sicuramente un vero cinema per la scuola infermieri.
Informatomi che in capitale non esistevano cineteche con film a 24 mm, decisi di comprare un videoregistratore, che acquistai durante la prima vacanza in Italia.
Vista la mia determinazione, dopo l’acquisto di questo apparecchio, con gli altri medici italiani comprammo un bel televisore a colori a 28’’; fu veramente emozionante quando arrivò nel suo scatolone, nuovo, il primo televisore a Matany!
I film li procuravo io, andando in capitale ogni due o tre mesi presso una videoteca discretamente fornita, dove li noleggiavo per due giorni, il tempo che mi fermavo a Kampala, e che il negozio a fianco impiegava a duplicarmeli illegalmente.
Era per quell’epoca una discreta somma di denaro, ma la soddisfazione di realizzare questo cinema e di proiettare belle e significative pellicole in lingua inglese, e quindi ben comprensibili a tutti, era davvero grande e straordinaria novità per Matany.
Gli infermieri più anziani, per la lunga e disastrosa guerra civile conclusasi da poco, quasi non ricordavano più cosa fosse vedere un bel film, mentre per i più giovani era davvero una novità assoluta.
Le proiezioni divennero un appuntamento attesissimo da tutta la comunità: a fatica, si riusciva ad entrare nella sala e presto l’aria diventava irrespirabile.
Dalle finestre spuntavano i visi allegri dei bambini di Matany che, come api attratte dal miele, si assiepavano, prima fuori dalla porta, nella speranza di entrare e poi, alla fine, non arresi, si arrampicavano intrepidi sulle finestre.
Sono veramente numerosi i film che ho proiettato con grande soddisfazione e ritenuti bellissimi dal pubblico dell’Ospedale che mi ringraziava sempre di cuore.
Tra questi, “Ghandi”, con le scene, nella prima parte del film, ambientate in Sud Africa nei primi anni del '900, con il grave problema dell’Apartheid, che in quegli anni ’80 era ancora molto sentito in tutta l’Africa, perché non ancora risolto in quel paese.
Fui proprio orgoglioso di mostrare quel film storico che ben spiegava il razzismo e il colonialismo e mi faceva impressione, vedere tutti in sala soffrire, sudare, palpitare per il grande Ghandi.
Un altro film che mostrai con tanta soddisfazione fu un film comico di Stan Laurel e Oliver Hardy in inglese.
Non pensavo proprio che la loro comicità fosse così divertente e gradita, anche nella sperduta savana africana, ed era uno spasso vedere il personale dell’Ospedale sbellicarsi dalle risa, senza sosta, per più di un’ora.
Questi grandi comici sono proprio universali!
Un film che dovetti invece sospendere, e non più riprendere, fu il film “David”.
Avevo scelto quel film recente perchè raccontava la storia di Davide e Golia, storia biblica ben nota a tutti, con il famoso attore Richard Gere.
Ricordo che, quella sera, ero seduto in prima fila, perché quando entrai portando il televisore, non c’era altro posto. Dovetti spegnere, però, la televisione dopo circa mezz’oretta di proiezione.
Sentii la voce tremante di Sampson, l’infermiere più anziano, che mi chiamava ad alta voce. Mi girai per guardarlo e rimasi stupefatto e anche spaventato nel vedere che tutti i presenti erano, dalla paura, nascosti sotto i banchi, veramente terrorizzati.
Sampson disse: “Doctor, non siamo abituati a vedere ammazzare la gente ed è meglio che ce ne andiamo”.
In effetti, il film era anche per me molto cruento, ma pensavo fosse così solo in alcune scene iniziali. Nella prima mezz’oretta però erano state già decapitate o sgozzate, con immagini terrificanti, almeno una ventina di persone.
Per persone non abituate ai nostri moderni film sanguinari, di horror, polizieschi o di guerra, questo film era di una violenza inaudita.
Rimasi molto male per aver offeso il loro pudore e violentato pesantemente il loro animo e cercai, da allora, nei limiti del possibile, di visionare le pellicole che prendevo, facendo una sorta di censura stile “Cinema Paradiso”, con il telecomando in mano, accelerando la velocità o spegnendo il televisore oppure, facendo finta di un guasto tecnico, avanzando velocemente di qualche minuto la pellicola.
Feci anche l’esperimento di mostrare un film di fantascienza, sempre in inglese, della famosa serie “Guerre Stellari”.
Per l’occasione presentai la pellicola, come fossimo ad un vero cineforum, cercando di spiegare cosa fosse la fantascienza, definendola come la possibilità, con la sola fantasia, di immaginare il futuro molto lontano,.
Ovviamente fu come parlare ai bambini, per i quali esiste solo il presente; per loro, infatti, veramente stupefatti, tutto quello mostrato nel film era vero o proprio verosimile.
Gli anni passavano e l’Uganda intera si risollevava pian piano dalla gravissima miseria degli anni tristi della guerra civile, dalla fame e dalla morte che l’avevano a lungo accompagnata, e la modernità cominciò a fare capolino un po’ dovunque.
Molti furono i cinema che aprirono, come il mio, anche in zone più remote e sperdute d’Uganda, e a Matany fu possibile addirittura vedere i programmi nazionali della Tv Ugandese. Era stupefacente notare il successo dei programmi trasmessi, e per i giovani, soprattutto quelli musicali.
Quando fu installata l’antenna, altissima, sopra il tetto della scuola infermieri, per cercare di captare il debole e lontano segnale televisivo, era appena iniziato il mondiale di calcio del 1994 che vide l’Italia protagonista fino alla fine del campionato.
Per me, quella occasione, fu un’esperienza sportiva straordinaria, come da anni non mi capitava, e mi ricordava i tempi felici dell’oratorio all’Antonianum di Padova, quando da ragazzo, passavo i pomeriggi d’estate, in compagnia di tantissimi ragazzi, per tifare, soffrire e gioire dei nostri campioni.
A Matany, l’informazione sportiva sul campionato era diffusa, precisa, in ogni più piccolo particolare e tutti, dei vari giocatori della nazionale italiana, squadra tra le favorite soprattutto per il grande Baggio, sapevano davvero vita, morte e miracoli.
Tutti ascoltavano appassionatamente la radio Ugandese, ricchissima in notiziari sportivi, che trasmetteva in diretta radiofonica le principali partite.
Quando alle otto e mezza del mattino ci riunivamo per il giro medici, nell’attesa che arrivassero tutti i colleghi, gli infermieri mi aggiornavano dei risultati notturni, delle novità e dei pettegolezzi, numerosi di quel campionato. Era davvero come essere ad un bar di paese.
Quando finalmente l’antenna installata funzionò, e incredibilmente le immagini apparvero sullo schermo del televisore, feci, commosso, i complimenti a Roberto; già mi immaginavo la felicità dei nostri dipendenti che, per la prima volta, avrebbero visto i campioni del calcio giocare, addirittura in un campionato del mondo.
Le partite erano in quell’anno tutte in orario serale, perché trasmesse dagli Stati Uniti, e questo ci permetteva di lavorare tranquillamente tutto il giorno per poi, di notte, diventare tifosi sfegatati.
Mi accorsi, ben presto, che i dipendenti dell’Ospedale quando assistevano ad una partita alla televisione, tifavano tutti per la squadra che aveva tra le loro fila qualche giocatore di pelle scura, per loro africano al 100%, e quindi per squadre come la Francia o l’Olanda o alcune squadre del sud America, come il Brasile.
Il campionato fu seguito in modo veramente appassionato, come se i vari giocatori di pelle nera fossero loro connazionali.
Una notte, le suore si alzarono arrabbiate e spensero la televisione per il chiasso esagerato in sala che impediva di dormire nel quartiere della scuola infermieri.
La vittoria del Brasile, con in campo, secondo i karamojong, moltissimi africani, sulla squadra dell’Italia che era invece formata da giocatori tutti bianchi, fu festeggiata in modo eccezionale.
Assistere ad una partita alla Tv fu per me sempre un doppio spettacolo, perché vivevo da vicino le forti emozioni del personale dell’Ospedale.
Durante la finale, Italia contro Brasile, dico la verità, mi sentivo proprio nella fossa dei leoni della curva Sud del Brasile.
La nostra sconfitta, ai calci di rigore, fu proprio onorevole, e la vittoria del Brasile sembrò la vittoria dell’Africa intera.
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