Lei era sotto la doccia, non sentì il rumore della chiave nella serratura, quella chiave che lei gli aveva strappato dalle mani un anno prima cacciandolo e cacciando nel profondo della gola lacrime salate.
Arrivò lui, silenzioso come un rettile, sulla soglia della camera da letto.
Annusò avido il profumo della camicetta buttata sul letto, ancora tiepida del corpo di lei.
Quel profumo voleva fissarlo in testa, come luce su carta fotografica, prima di varcare la soglia del bagno.
Il tempo smise di battere e lo spazio d'essere, materia inghiottita da un ingordo buco nero.
E se ne andò via da solo, bagnato dalla pioggia della sera.
I due isolati che lo separavano da casa sembravano scorregli sotto i piedi come un fiume di lava bollente.
Arrivò nel suo appartamento e si mise a sedere sulla poltrona di pelle nera, versandosi un cognac e appoggiandolo con mano lieve sul tavolino di legno scuro. Adorava quel tavolino, gli intagli e le fessure che accarezzava con le dita sembravano bocche sussurranti flebili parole.
Lo avevano comprato insieme, in un giorno di pioggia come quello, durante il loro lungo viaggio in India.
Lo guardò per l'ultima volta con espressione serena, e come sulla bionda chioma della donna che aveva amato, sferrò un colpo deciso del cric della vecchia 126, sparpagliando mille nere schegge sul marmo lucido e bianco.
Si fermò a fissare lo scempio sul pavimento della sua casa, ipnotizzato dal caotico ordine del disegno ordito dalle schegge del legno.
La più grande sembrava chiamarlo come un'oscura bocca ghignante.
Accostò l'orecchio al legno pungente per ascoltare meglio.
Mai e poi mai avrebbe creduto alle sue parole.
Parole più dure e sferzanti del cric che teneva ancora pesantemente tra le mani. Aprì la finestra e si lanciò senza un lamento dal settimo piano.
La strada bagnata lo accolse, come le braccia calde di sua madre.
Aveva ancora nelle narici il caldo profumo di lei.