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Monte San Saverio
Il Sottotenente Gregorio De Mattia, quel mattino si svegliò nella sua tenda da campo incredibilmente riposato e disteso.
Egli stesso ne fu sorpreso dato che quando si era coricato la sera prima, stanchissimo, la sua mente era colma di pensieri cupi, dolorosi e ancorché fumosi.
Pensieri che tornarono ben presto al posto che avevano lasciato, ma apparivano più chiari e forse più angoscianti.
La sua prima considerazione fu comunque: - Assurdo svegliarsi così bene il giorno della propria morte…-
Questa era in sintesi l’origine della sua angoscia della giornata precedente. L’indomani sarebbe stato quasi certamente l’ultimo giorno della sua giovane vita.
Quel giorno era stato di quelli che non si possono dimenticare, e non ne aveva avuti altri di simili dall’inizio della guerra, e forse nella sua esistenza.
Le atrocità che ogni giorno si perpetravano in quella orribile guerra, di cui aveva viva testimonianza attraverso i bollettini giornalieri e che si raccontavano fra le truppe al fronte e nelle retrovie, le tremende sconfitte e le sanguinose battaglie piccole e grandi combattute quotidianamente da mesi e mesi, avevano inspiegabilmente risparmiato Gregorio De Mattia e i suoi uomini. Ma questa situazione di immeritato privilegio stava inesorabilmente per finire.
Si lavò e si fece la barba accuratamente come se dovesse recarsi ad un importane appuntamento e indossò la divisa con una strana solennità.
Era una giornata tersa come la precedente e più tardi avrebbe fatto quasi caldo. Era un aprile veramente mite, almeno a dar retta a quanto dicevano i suoi uomini di quelle parti che avevano, al contrario di lui, esperienza di vita di montagna.
Per lui il Monte San Saverio, la cima Vergola, l’altopiano del Luc, i pratoni di S. Biagio non significavano assolutamente nulla fino a quando erano entrati a far parte del suo panorama abituale delle ultime settimane apprestandosi a diventare purtroppo teatro della sua morte.
Oltre a lui, unico Ufficiale e quindi comandante della spedizione, c’erano a condividere il suo destino il maresciallo Zanon, trentino delle valli Giudicarie, il sergente maggiore Gàmbaro, varesotto, e novantadue alpini provenienti più o meno da tutta Italia.
La zona che occupavano non doveva sulla carta rappresentare granché di strategico, ma il loro compito era quello di mantenere la posizione assegnata e segnalare eventuali spostamenti di truppe nemiche al Comando Generale di Trento.
Tutto era andato secondo le più ottimistiche previsioni, cioè nulla da segnalare fino alla mattina del giorno precedente.
Poco dopo le otto, mentre stava scrivendo alcuni appunti sul suo diario, Zanon era giunto alla sua tenda di corsa e si era piazzato sull’attenti con un viso stravolto e con un fiatone ingiustificato data la sua prestanza atletica e i pochi metri di leggera salita che separavano la postazione di vedetta dal suo alloggio.
“Comodo, Zanon. Che succede! ”
“Nemici, Signor Tenente. L’alpino Belisario della postazione due, ghe pareva d’aver vist dei movimenti zo en valle, sotto i pratoni e el m’ha ciamà…. ”
Zanon, quando era eccitato non riusciva ad esprimersi completamente in italiano, ma il Sottotenente De Mattia, bergamasco, sapeva ormai comprendere i suoi uomini qualsiasi idioma usassero, perfino il sardo e il siciliano.
“Quindi?... ”
disse De Mattia sperando di non far notare il pallore che sentì improvvisamente di avere in viso.
“Quindi sono andato a verificare e gh’è sicuramente qualcosa che se move. Pareria na colonna de Austriaci con muli e canoni. No so dirghe quanti che i è, ma me pare proprio tanti”.
“Sei sicuro Zanon? Austriaci? Ci hanno visto? ”
“No Sior Tenente, i è lontani e no i ne pol veder de sicuro. A mi i me pare proprio Austriaci”.
“ Ma venga a veder anche lei…” aggiunse, quasi sorpreso che l’Ufficiale non fosse ancora corso a sincerarsi di persona della situazione.
Gregorio De Mattia si alzò e con calma prese il suo binocolo personale e su avviò verso la postazione di vedetta numero due.
I quattro alpini nella postazione due fecero il gesto di alzarsi all’arrivo del comandante, ma egli fece cenno di rimanere giù.
“Belisario, cos’è che si vede? ”
“Signor Tenente, giù dopo i pratoni, prima del Borgo S. Biagio dove c’è quello spiazzo brullo, dove che quella volta avevamo visto delle pecore, mi sembrava che fosse qualcosa che si muoveva nel senso che era come una macchia che adesso stava lì e dopo un quarto d’ora stava più in la. Poi a un dato momento c’era ancora la macchia e dopo ancora lo spiazzo più chiaro. Insomma non si capiva anche perché non c’era ancora abbastanza luce. Poi alle otto meno cinque ho proprio visto ancora la macchia che si muoveva sullo spiazzo e ho chiamato il Maresciallo che ha visto anche lui”.
“Insomma dov’è questo spiazzo?... ”
“Guardi Signor Tenente. Ora le mostro” disse Zanon che era tornato all’italiano in presenza della truppa.
Lo spiazzo fu localizzato non senza fatica. Era molto più lontano di quanto De Mattia si era immaginato e non si vedeva alcunché di strano.
Il Sottotenente De Mattia cominciò a pensare che i suoi uomini fossero vittima di autosuggestione collettiva, ma fu un dubbio che ebbe cura di non fare assolutamente trasparire, anzi manifestò seria preoccupazione e ordinò il cambio turno anticipato e il rafforzamento delle postazioni due e tre, che erano interessate alla zona dei pratoni.
Passò le successive due ore da solo nella sua tenda a pensare. Che cosa ci poteva fare una colonna austriaca in quella zona così decentrata e insignificante? Per che motivo avrebbe dovuto spostarsi su una zona (lo spiazzo che aveva visto l’alpino Belisario) che non era una mulattiera ma casomai un piccolo pascolo pietroso e brullo? Una sorta di sentiero passava da quelle parti, ma perché uomini muli con armamenti avrebbero dovuto deviare dalla via segnata?
Comunque non aveva senso stare a questionare sul perché e il percome. La realtà è che gli alpini sono persone concrete e poco inclini alla suggestione. Di fatto l’alpino Belisario (che era alpino nel profondo dell’anima) aveva visto qualcosa, questo era certo. Presto De Mattia e i suoi uomini avrebbero saputo esattamente di cosa si trattasse.
Poco dopo le undici, Zanon tornò di corsa annunciando con tono serio che una colonna di nemici era stata avvistata in quel momento a valle.
Senza fiatare De Mattia, con il binocolo al collo si avvicinò alla postazione due. Gli alpini stavolta non fecero nemmeno il gesto di alzarsi, ma indicarono a gesti una vaga zona verso il fondovalle.
Fu facile scorgere con il binocolo qualcosa di simile a una colonna di militari in lento movimento lungo una mulattiera parecchi chilometri più in basso. L’alpino Garrisi annunciò che secondo lui erano almeno centocinquanta e avevano parecchi muli e molto materiale.
Ma la cosa più significativa, cui nessuno faceva evidentemente riferimento, era che da quella posizione non poteva esserci più dubbio che la colonna fosse destinata a passare dalla vetta del Monte San Saverio, cioè da dove il drappello del Sottotenente Gregorio De Mattia era pacificamente accampato da circa un mese senza che nulla e nessuno fosse mai intervenuto a turbarne la quiete.
A questo punto la situazione imponeva delle decisioni abbastanza rapide, gravi e sicuramente irreversibili.
Il Sottotenente De Mattia si trovò a ripensare alla sua vita così giovane e per certi versi ancora acerba.
L’amore, ad esempio. Una delle poche cose per cui valeva certamente la pena di vivere, aveva fatto solo una fugace apparizione nella sua esistenza e, ciò nondimeno aveva tracciato un solco profondo nel suo animo e il pensiero di non poter rivivere quelle sensazioni così violente e struggenti che aveva solamente una volta sperimentato gli procurò un profondo sconforto.
Armida, la donna che aveva amato e che gli aveva fatto conoscere quel poco che sapeva del sesso e della passione, rappresentava nel ricordo struggente di quei momenti il più grande rimpianto.
Aveva passato con lei, giovane ausiliaria della Croce Rossa una notte assurda e indimenticabile in un albergo di Trento, quasi un anno prima, alla vigilia della sua partenza per il fronte.
Ricordava il suo imbarazzo nel sentire le labbra di lei schiudersi un quel caldo e dolcissimo primo bacio, la sua febbrile eccitazione nell’abbracciarla e toglierle i vestiti.
Soprattutto ricordava lo scandaloso e violento odore del sesso di lei, che lo aveva sorpreso e sconvolto. In preda a una assurda eccitazione aveva compiuto gesti fino allora impensabili, stordito e incredulo fino a perdere il controllo del suo corpo e della sua mente.
La disperata intensità della prima e ultima notte con Armida era tutta rappresentata dal vivo ricordo di quell’odore acre e selvaggio.
Non ricordava ormai minimamente come fosse, ma sapeva che avrebbe dato volentieri la sua vita in quel momento per poterlo sentire ancora. Inalarlo un’ultima volta, riconoscerlo e poi non respirare mai più. Morire fra le braccia di Armida. Quella si sarebbe stata la dolce morte che avrebbe potuto sopportare.
Non certo colpito da una pallottola che gli fracassava il cranio.
Quest’ultimo era invece il suo triste destino, nel migliore dei casi.
L’indomani di primo mattino o, al massimo poco prima di mezzogiorno la colonna di nemici sarebbe arrivata a tiro della sua guarnigione e nulla e nessuno avrebbe potuto impedire a lui e ai suoi uomini di fare fuoco su di loro e ingaggiare quel conflitto a fuoco che quasi sicuramente avrebbe causato la sua fine.
Acerba era anche la sua cultura. I suoi studi di lettere a Padova erano stati interrotti quasi subito da quella stupida e assurda guerra. I suoi pensieri le sue idee, giuste o sbagliate, si sarebbero spente per sempre nel suo cervello fra poche ore senza poterle esprimere o condividere con nessuno.
Da qualche giorno, nel quieto ozio di quelle ultime settimane della sua esistenza, su quel monte aveva pensato a Dio e aveva elaborato una semplice teoria che ora gli ritornava alla mente:
Dio era la natura.
Nulla era così perfetto e così divino come la natura stessa.
La natura era assimilabile a Dio per un semplice motivo: era perfetta, ma la sua perfezione consisteva nella sua casualità. Questa era l’idea originale.
Nella mente umana esiste una logica ferrea, precisa e ineluttabile, e questo è il suo limite.
In natura invece nulla è certo, e questo la rende assolutamente perfetta. Anzi divina.
Non puoi sapere il tuo destino, altrimenti non varrebbe la pena di vivere.
La vita ha senso soltanto perché esiste la morte. Nessuno potrebbe sopportare di vivere in eterno, ma nemmeno sapendo come e quando morirà.
Il buono dovrebbe essere premiato e il malvagio castigato. In natura questo dovrebbe avvenire, ma spesso avviene il contrario. Ci sono giovani soldati o semplici cittadini che vengono fucilati innocenti ogni giorno, e infami assassini che muoiono vecchissimi e ricchi dopo aver goduto di tutte le fortune e le delizie terrene.
Ingiustizie assurde? No. Divina perfezione della natura, quindi di Dio.
Dio, cioè la natura, ha progettato il desiderio che ha generato il suo struggente ricordo di Armida.
Il suo odore, la sua voce, la forma sconvolgente del suo seno.
Può esistere qualcosa di più meraviglioso dell’amore? Dell’odio? Perfino della guerra!
Quella stupida guerra che lo costringeva a decidere di far massacrare chissà quanti uomini fra meno di un giorno. Uomini buoni e cattivi, geniali e stupidi, onesti e ladri indifferentemente.
Così doveva essere.
Chi sarebbe morto per primo e come? Chi sarebbe sopravvissuto caso mai?
La natura, quindi Dio lo avrebbe deciso. E sarebbe stata una decisione assolutamente perfetta e indiscutibile (si può discutere con Dio?).
Questi pensieri che gli affollavano nervosamente e scompostamente il cervello, gli resero chiara e ineluttabile la sua decisione.
La sua guarnigione di li a poche ore, appostata sulla vetta del monte San Saverio avrebbe aperto il fuoco sulla colonna nemica.
Il maresciallo Tullio Zanon probabilmente non era entusiasta dell’idea di far fuoco sui nemici, col risultato di dare inizio a un duro e sanguinoso scontro ma sicuramente non lo dava a vedere mentre segnava col tacco dei suoi scarponcini di ordinanza il punto esatto dove avrebbe secondo lui essere piazzato l’unico cannoncino pesante in dotazione. Come lui nessuno nella guarnigione comandata dal Sottotenente De Mattia si sognò di discutere la decisione presa dal loro comandante. Semplicemente non c’era altro da fare. La regole della guerra erano poche e probabilmente assurde, ma chiare e inequivocabili. Il nemico era il nemico, e andava distrutto senza pietà. L’unica consolazione era che avendo l’innegabile vantaggio del fattore sorpresa, sarebbe stato facilmente pronosticabile una facile vittoria della guarnigione italiana, ben addestrata e compatta, in posizione favorevole e preparata al combattimento, anche se inferiore numericamente alla colonna nemica.
Queste ultime considerazioni vennero adeguatamente enfatizzate dal Sottotenente De Mattia nel suo breve discorso con il quale espose il suo piano d’azione.
Fra i novantaquattro uomini che condividevano con lui quell’incerto destino, qualcuno fu percorso da un brivido di orgoglio ed eccitazione al pensiero di uno scontro a fuoco. Probabilmente i più giovani come Gariboldi e Maccagnola, due ragazzi pressoché imberbi che passavano le ore di guardia a puntare il loro fucile contro qualsiasi immaginario bersaglio, un gallo cedrone, un falco o semplicemente un ramo lontano o una roccia. A volte, come se maneggiassero un giocattolo simulavano lo sparo con la voce: “Pam! ”. La loro reazione all’annuncio del Sottotenente fu uno sguardo reciproco di malcelata soddisfazione.
Altri si mostrarono preoccupati e nervosi, come l’Alpino Magnoler, che aveva due figli e una moglie malata di tifo, che sputò per terra e rimase a guardare il suo sputo con i suoi occhi strabici.
Nessuno comunque fiatò e prima che facesse buio le posizioni e i compiti di ognuno furono stabiliti e condivisi da tutti.
La colonna nemica sarebbe passata obbligatoriamente su un tratto di mulattiera che la rendeva molto visibile e vulnerabile. Se solo fossero stati così compatti da occupare tutti quei 180-200 metri che risultavano privi di protezione in modo che, aprendo il fuoco quando i primi stavano per scomparire dietro le prime piante, gli ultimi fossero già giunti anche loro allo scoperto, allora si sarebbe potuto dire che la battaglia era vinta. Al momento opportuno, il Sottotenente Gregorio de Mattia avrebbe dato il segnale muovendo il braccio destro dall’alto verso il basso e sarebbe partita la bordata del cannoncino. Ognuno dei sette plotoni di dodici alpini l’uno aveva il compito di colpire un settore preciso della colonna, aprendo il fuoco solo dopo la prima cannonata. Gli altri undici, in postazioni sparse a gruppi di due più De Mattia a fianco del cannoncino che era operato da due Alpini, avevano il compito di colpire chi fosse riuscito a evitare la bordata iniziale prima che riuscisse a trovare riparo.
Per avere maggiori possibilità di vittoria sarebbe stato meglio avere almeno un’altra ottantina di metri di visibilità sul percorso, così almeno aveva valutato il Maresciallo Zanon, ma per fare ciò sarebbe stato necessario abbattere un gruppo di larici e l’operazione era troppo rischiosa data la vicinanza della colonna nemica. Se invece, come era purtroppo probabile al momento della prima cannonata alcuni soldati fossero stati in posizione riparata, lo scontro si sarebbe protratto nel tempo e gli austriaci, meglio armati e più organizzati avrebbero avuto modo di rispondere al fuoco con la possibilità di accerchiare i nostri che di fatto sarebbero stati assediati in vetta senza possibilità di fuga. Tutto dipendeva quindi dal numero di nemici che sarebbero sopravvissuti alla prima micidiale bordata…
Il pasto serale era stato consumato con composto silenzio e ogni Alpino fu presto in branda solo con i propri pensieri.
Alle sette e trenta il Sottotenente De Mattia, sbarbato e pronto ad affrontare la battaglia si recò presso le postazioni di combattimento dove i suoi uomini erano schierati in cupo silenzio.
Zanon e Gambaro, gli vennero incontro e gli riferirono che nulla di nuovo era stato avvistato e che probabilmente la colonna nemica era ancora piuttosto lontana e probabilmente si stava ponendo solo allora in marcia per raggiungere la vetta fra non meno di un paio d’ore.
Tornò quindi nella sua tenda e sorseggiò con calma la sua tazza di caffè nero.
Verso le nove il sole cominciò a far sentire il suo tepore e la giornata si confermò limpida e soleggiata. De Mattia si sistemò a fianco della postazione del cannoncino con il suo fucile carico appoggiato sull’erba accanto a lui.
Il silenzio era assoluto e in lontananza pareva ogni tanto di sentire il rumore della colonna nemica in avvicinamento. Ognuno era consapevole del proprio compito e nessuno fiatava. Dopo una mezzora, gli alpini Mazzucco e Torresani che erano andati in avanscoperta cinquecento metri più a valle tornarono silenziosi e agili come due stambecchi e annunciarono con solennità che la colonna stava per raggiungere lo spiazzo in cui sarebbe stata sotto tiro. Erano almeno centocinquanta uomini armati con una dozzina di muli e due cannoni di tipo Mauser da 120 millimetri.
La mezzora seguente la tensione degli uomini in vetta al monte San Saverio raggiunse il massimo livello. Alcuni avevano già il fucile puntato contro la zona a loro assegnata e il dito sul grilletto.
Il Sottotenente De Mattia imprecò fra se essendosi raccomandato la sera prima di non puntare il fucile fino a quando non fossero stati avvistati i primi soldati nemici, in modo da evitare il rischio che potesse partire un colpo accidentalmente in anticipo, vanificando il fattore sorpresa. Fu tentato di avvicinarsi a loro per richiamarli all’ordine, ma infine desistette per non innervosire ulteriormente la guarnigione.
A parte Magnoler che sembrava bisbigliare fra se qualche preghiera o forse qualche imprecazione, nessuno muoveva un muscolo.
D’un tratto sbucarono nella radura sottostante, ancora più vicini di come De Mattia si era immaginato in gruppetto di soldati Austriaci a piedi, seguiti da alcuni muli carichi all’inverosimile di sacchi di vettovaglie e munizioni. Senza alcun rumore tutti i novantacinque Alpini si posero in posizione di attacco puntando le armi.
La colonna si sgranava lentamente e inesorabilmente distribuendosi a riempire lo spazio scoperto sottostante. De Mattia imprecò nuovamente fra sé nel notare che mentre i primi stavano per percorre gli ultimi metri allo scoperto, altri uomini continuavano a sbucare in coda alla colonna e sembravano non finire mai. Era essenziale che non rimanesse nessuno al riparo al momento della prima cannonata, per fare in modo che nessuno di loro avesse possibilità di scampo, ma la cosa sembrava ormai impossibile. Ancora forse dieci o quindici passi e i primi sarebbero stati fuori tiro, mentre ancora in coda apparivano dei muli…
D’improvviso i soldati in testa alla colonna si fermarono voltandosi indietro. Un mulo si era impuntato e il primo soldato indietreggiò di alcuni metri per aiutare a far proseguire il testardo animale.
Si udì un vociare concitato, forse imprecazioni e il raglio del mulo che infine si decise a riprendere il cammino.
Non c’era altro tempo da perdere e Il Sottotenente Gregorio De Mattia con un groppo in gola e il cuore che gli batteva fino a fargli male, diede il segnale di fuoco con il braccio destro.
In quel preciso momento accaddero due cose contemporaneamente. Il capo colonna degli Austriaci fece uno strano urlo che risuonò inquietante nel silenzio del bosco, e il cannoncino della guarnigione comandata dal Sottotenente De Mattia produsse un suono ancora più inquietante.
“CLACK”.
Il percussore che doveva dare il via allo scontro a fuoco, per qualche inspiegabile motivo fece la più clamorosa cilecca immaginabile e dal cannoncino non partì alcun colpo. Solo un leggero filo di fumo si alzò beffardo dalla parte posteriore dell’arma che rimase immobile e silenziosa.
Immediatamente dalla colonna nemica partì un coro di voci che il capo colonna aveva comandato con il suo urlo. Duecento uomini vestiti da soldati stavano intonando in una lingua dura e sconosciuta una triste canzone che echeggiava solenne e maestosa nel surreale silenzio della vetta.
L’urlo che dava inizio alla canzone aveva probabilmente coperto il rumore metallico dell’otturatore che colpiva in modo imperfetto il proiettile del cannoncino, rumore che fu udito perfettamente da tutti gli italiani, ma non dai soldati austriaci che cantavano ignorando la minaccia che incombeva su di loro.
La canzone ricordava sorprendentemente le belle e struggenti melodie che gli alpini spesso intonavano di sera dopo il rancio prima di coricarsi, e sebbene le parole fossero incomprensibili, sicuramente parlava di nostalgia, di casa, di amicizia, di amore, di guerra, di solitudine e di paura.
Sentimenti che fecero irruzione inaspettatamente nella mente del Sottotenente Gregorio de Mattia e di tutti i suoi soldati che rimasero immobili, con i fucili puntati nell’attesa di una folgorante deflagrazione che ormai non sarebbe arrivata.
Prendere a cannonate un gruppo di ragazzi che cantavano, e così intensamente una canzone così dolce apparve improvvisamente al Sottotenente Gregorio De Mattia una azione decisamente troppo sleale.
Perfino in guerra, dove le regole in fondo non esistono, o dove la prima e forse unica regola è quella di distruggere il nemico riportando il minor danno possibile.
Semplicemente quei soldati in quel momento cessarono di essere il nemico, almeno agli occhi del disciplinato, coerente e coraggioso ufficiale.
Il cannoncino non fu ricaricato.
De Mattia non si mosse e c’è fra gli alpini che si trovavano più vicini a lui, chi giura di aver visto le sue labbra seguire sottovoce la semplice e dolcissima nenia che i suoi nemici intonavano marciando qualche decina di metri sotto di lui.
Nessuno può dire con certezza quali fossero i pensieri che attraversarono le menti e gonfiarono i cuori degli alpini che stavano con i fucili puntati contro il nemico. Di certo quel dolce e incomprensibile canto fece sì che nessuno di loro si girasse verso l’Ufficiale per sollecitare un ordine o per avere una conferma. Fu come se il tempo si fosse fermato.
Dopo una quindicina di minuti la colonna austriaca aveva iniziato la discesa verso il versante trentino della montagna e spariva alla vista della postazione in vetta al monte San Saverio.
Nessuno seppe mai da dove venisse né dove fosse diretta, ma non si ebbe mai notizia di scontri a fuoco, né di morti o feriti sulle pendici di quelle montagne, fino alla fine della guerra.
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