racconti » Racconti surreale » d-istinto
d-istinto
Quella mattina si svegliò e si sedette davanti al televisore. Lo fissava con attenzione. Ecco, lo fissa con attenzione. Ancora. Lo stelo è reciso dalla luce soffusa che attraversa le persiane di legno profumato. Il tulipano era stato adagiato in un caleidoscopico vaso di vetro. Accolito accogliere repentino, sbalzo termico tra catodici sfondi, l’essere sfuma in parola, si ritrae la luce come le vele avvolte al manto dell’oleandro pallido. La giustizia non è mai stata umana. La giustizia presuppone l’esistenza di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. La decisione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato dipende da un potere costituito. Vi sentite parte di questo potere? Ammettete pure la carneficina, cibatevi di animali inermi, sfiancati dall’inefficacia dell’umanità, alla quale voi non siete devoti né tantomeno dediti. Ammettete la vostra sfacciata ipocrisia, la superficiale vanità, l’ostentata superiorità, l’efficacia dell’onestà, ammettete quel tutto o quel niente che possiate vedere o negare; se il microcosmo vacilla nell’inutile cannibalismo che ne sarà del riflesso macrocosmo? Di uova di luce la ragnatela è ora gravida, scioglie spore instabili il mosaico molecolare, fragranza del frangente sviare dallo svenire, a cumuli torbidi gracchia la sventura, a cocci di coccinelle abbaia il calendario. Sul viale delle foglie secche intanto la nebbia osserva con occhi vitrei il passo silente di uno sconosciuto. È sciogliersi di ombre e affondare di unghie nella carne viva. L’arte risiede nella possibilità di trasmissione per cui la ricezione sia illuminazione. Donare se stessi alla scoperta di occhi sconosciuti che assimilano interrogativi e riflessioni fino a quel momento barricati oltre finestre chiuse. Lo stimolo che devasta l’esistenza per una creazione infinitesimale vale quanto il respiro smarrito dopo un’immersione nel sale. Ora si può danzare o restare immobili nella percezione, l’altalena prevede campi e controcampi, cambi inquadratura e fermo immagine, ciò che alimenta la necessità vitale è ricerca di nuove e antiche formule che siano realtà illusorie o illusioni reali, sta al volo del cerbero scoprirlo e rendere grazie al sapore che scuote il palato dell’essere anima animale. Chiaramente la televisione era spenta. Dopo aver scritto ciò non potè che alzarsi dalla sedia. la sua attenzione si soffermò su un foglio attaccato ad un pianoforte, unico mobilio della stanza oltre a semplici scaffali di legno bianco.
D-ISTINTO
Distino l’estinto istinto si suole sciogliere nella sua mole
D’impatto soppiatto in salto l’atteso risvolto d’un volto
Invaghito nel vacuo vagare chimere cantare non sanno contare
M’aspetta in dispetto il sospetto sporadici spiragli spauriti su inviolate viole velate L’arresto del resto restio, sostanza annaspa nel plasma.
Corrotto da un calice rotto frantumi tagliare non sanno curare
Corde incordate a ricordi schiodate da nuovi contorni
Informazione formale blasfema come ultima cena
Biancastra vestigia offesa da offuscare tenue
Sbiadire di tarme allevate in scheletrici armadi
Stregato sapere incrostato a sapori persi
S’appiglia ad un vegliare inchiodato a ventri di rami
Giunto all’eco piramidale esubero di carta bianca
Sequele di tossici rumori intraprendere del disco
Animate aride lacrime senza più occhi
Correre di voci confuse dal sacco colorato
Oggettistica corrosa da balzi psichedelici
Affogare nel tempestivo sereno variabile
Escandescenza della goliardica risata
Il ritorno all’annuvolamento meridionale
Flautistica tormenta desertifica l’abbaglio
Nel canto del geco le danze del forgiatore d’umore
Rinsavire di stelle marine nel ventre del cielo.
Un uomo nascosto sotto un cappello grigio ed impermeabile scuro si aggirava tra le carrozze di un treno che sfidava la notte. Lo sguardo avanzava come a cercare la presenza possibile di un’entità a lui simile, uno spazio occupato dal calore di un altro corpo umano. Dietro i finestrini, buio, squarciato a tratti da luci in prossimità di stazioni abbandonate. La mano spinge l’ennesima porta che divide un vagone dall’altro, ed ecco davanti ai suoi occhi pararsi tanti sguardi che lo fissano. Un proiettore sta dipingendo immagini proprio sulla sua testa, mentre seduti su verdi panchine da giardino, tre coppie di anziani a godersi un vecchio film in bianco e nero: “L’età dell’attesa”. Gli anziani non erano proprio anziani, cioè a guardarli da vicino avevano rughe e capelli bianchi, ma erano tutti molto bassi e portavano bavagli da neonato al collo, giocattoli erano sparsi ovunque e la cosa strana che uno di loro disse con voce da bambino: “ È arrivato Babbo Natale! Guardate…dov’è il sacco? ”. L’uomo si chiamava Gaidu, non aveva un lavoro stabile né una casa stabile. Alle 23. 15 una ragazza senza occhi dormiva su una panchina nei pressi della stazione illuminata da due soli lampioni a forma di T. Era avvolta in un sacco a pelo di cotone, a strisce gialle e blu, in testa un berretto bianco, semplice come il suo viso. Fino al giorno prima Leida, questo era il suo nome, aveva trascorso la sua esistenza in un tranquillo casolare di campagna, tra piante di mandarino e coltivazioni di fiori da campo. In una dimensione spazio-temporale rarefatta, spesso dilatata dal passare delle nuvole, segnata dall’imbrunire che odora di malinconia e mosto, il suo desiderio era quello di imbarcarsi su una nave per varcare nuovi confini, toccare con mano la linea lontana dell’orizzonte. La luce fioca delle lampade a gas trasportate da lucciole grandi come piccioni, rendeva la piazza più grande di quanto non fosse, un vento tiepido faceva oscillare l’orologio a molla appeso al dolmen, che si ergeva al centro di costruzioni circolari in pietra rossa liscia. Gaidu stava camminando sul tetto delle costruzioni poste in circolo, si aiutava con un bastone di legno smaltato, l’orologio a molla sembrava seguire preoccupato i suoi movimenti, come un pupazzo uscito da una scatola a sorpresa attendeva che qualcosa accadesse. Leida si svegliò sul far del giorno, un cane le stava leccando l’orecchio, mentre un uomo con una cassetta di gamberi in mano passò e le accennò un sorriso. Davanti a sé non vi erano treni o binari, ma un porto con navi e pescherecci attraccati, o in partenza. Così sgusciò fuori dal sacco a pelo, si avvicinò al molo, trasse dalla tasca una bottiglia chiusa con un tappo di sughero, al suo interno un foglio arrotolato, con tutta la forza la scaraventò in mare. Nello stesso istante una bottiglia piovve dal cielo, colpendo le tegole su cui Gaidu stava camminando, crollò verso l’interno della piazza mezzo tetto e Gaidu insieme ad esso. Rovinò a terra ma sembrò non essersi fatto nulla di male, visto che rideva di gusto contorcendosi su se stesso. L’orologio a molla riprese a funzionare e il suono del pianoforte accompagnò la fine del vento tiepido. Primo piano di foglie immobili appese all’albero maestro di una nave che stava solcando le acquee. Panoramica a 360° dal centro della stanza vuota, di spalle lo scrittore stava ora suonando il pianoforte leggendo lo spartito D-ISTINTO.
123
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0