Ho dato alla fissità del tuo sguardo significati intensi. Forse eri solo un po’ miope e guardavi il mondo sfocato in cerca di un punto nitido. La risatina che ti gorgogliava in gola come acqua argentina mi ricordava ruscelli improvvisati d’inizio primavera. Il tuo impaccio tradiva timidezza e le braccia forse troppo lunghe un ché di slogato nell’andatura.
Non ridevo ai tuoi scherzi, così pieni d’angoscia. Non potevo.
Dalla tua allampanata statura la terra doveva apparire così distante, e il cielo troppo vicino per resistergli.
In controluce vedevo spuntarti mozziconi d’ali fra le scapole, ma forse era solo il gioco del tramonto a confondere i miei occhi.
A volte pregavi, balbettando chissà cosa e a chi e se piangevi non sapevo per quale dolore: forse una farfalla impigliata in tela di ragno o forse per l’abisso che improvvisamente s’apriva ai tuoi piedi.
Odiavi le pastiglie, lo so. Uccidevano assieme al dolore, la vita.
Ti ho osservato passeggiare nel bosco, arrancare fra sterpi e accarezzare le bisce e strisciare con loro nell’erba. Non esistono per te animali immondi, non conosci ribrezzo o timore.
Ho visto in te ronzare api e frullar d’ali colorate, trasformarti in pietra granitica o in ghiaccio azzurro e poi scorrere come vino gentile nelle coppe e farti tappeto di fiori.
Misteriosa conoscenza delle cose.
Colui che non ode con l’udito, ma che avverte vibrazioni fra i capelli, colui che non risponde a parole, ma che lascia sibilare il vento tra le labbra.
Così ti ho conosciuto e perso prezioso amico.
Ho saputo che hai già subito due elettroshock da allora e un pezzo di me si è vaporizzato tra le tue lacrime.