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La vendetta di Artemide
Il cielo stava ormai volgendo all'imbrunire. Nella valle regnava un silenzio quasi irreale, e la natura era talmente immobile che pareva in attesa. Artemide stava per raccogliere le proprie armi e andarsene; si era già caricata la faretra in spalla e fece per alzarsi e rivelare la propria presenza alla natura circostante, quando le parve di udire qualcosa muoversi tra gli alberi. Si immobilizzò dietro al cespuglio di more che aveva scelto come nascondiglio, e rimase in ascolto. Poco dopo, ciò che si era mosso si palesò in tutto il suo splendore nell'ampia prateria davanti a lei, e Artemide non credette ai propri occhi. Si trovava di fronte un magnifico esemplare di unicorno, dal manto immacolato, che si muoveva circospetto, quasi avesse sentore della sua presenza.
Artemide impugnò l'arco e sfilò cauta una freccia dalla faretra, posizionandola sull'arma. Poi puntò il dardo contro la creatura, che ora si era fermata al centro della radura, proprio di fronte a lei. Artemide quasi non credeva alla propria fortuna; stava per scoccare la freccia, segnando irrevocabilmente la sorte del malcapitato esemplare, quando qualcosa le si parò dinnanzi, facendo improvvisamente capolino da dietro il cespuglio e facendola sobbalzare. Artemide riconobbe subito la creatura femminile che le era comparsa davanti, una ninfa bellissima, con un vestito di panno bianco e i lunghi capelli biondi, e che stava tentando di spaventarla mostrandole il proprio angelico viso trasfigurato e deformato in un modo inusuale, con gli enormi occhi sporgenti e le fauci spalancate. Ma lei non si sarebbe fatta sorprendere: lei, Artemide, l'intrepida dea della caccia, spaventarsi di fronte ad una ninfa dei boschi?
“Chi credi di spaventare? ” le domandò infatti, con il tono più sprezzante che le riuscì.
La ninfa si dileguò in fretta così com'era venuta, e quando Artemide tornò a guardare verso la radura, anche l'unicorno era sparito. “Maledizione! ” si lasciò sfuggire.
Solo allora comprese: la creatura che si era lasciata scappare non era un unicorno, bensì Afrodite, che giocava a nascondersi nella valle assumendo sembianze di animali. La ninfa che le si era parata dinnanzi era una delle sue inseparabili accompagnatrici, Eufrosine.
Ma che cosa ci faceva lì, la figlia della schiuma del mare, l'eterea e splendida Afrodite, da tutti gli dei ammirata e da tutti gli uomini venerata, la bella, intoccabile, preziosa Afrodite? Per poco aveva rischiato di trafiggerla: a quale scopo si era esposta così, in quella valle deserta, alla stregua di una umile e miserabile preda dei cacciatori?
Artemide si sentì montare dalla rabbia: le sue ninfe non erano mai presenti quando servivano.
“Callisto, Antea, Aura, dove diavolo vi siete nascoste? ” esclamò impaziente. Nel giro di qualche istante le sue fedeli accompagnatrici furono al suo fianco, ubbidienti.
“Avevo bisogno di voi, perchè non ci siete mai quando ho qualche compito da affidarvi? ”. Le alseidi abbassarono lo sguardo, a mostrare la loro vergogna, ma lei non era in cerca di solidarietà. Aveva bisogno dei loro servigi, prima che fosse troppo tardi.
“Cercate di scoprire dove si sta cacciando Afrodite, presto. E non tornate da me se non con informazioni dettagliate e soddisfacenti. ” tuonò loro, in tono minaccioso.
Le ninfe non se lo fecero ripetere due volte, e scomparvero in un batter d'occhio.
Rimasta sola, Artemide si caricò nuovamente in spalla il suo arco e si alzò in volo, lasciandosi in men che non si dica la radura alle spalle.
Afrodite si materializzò in mezzo al bosco, riassumendo finalmente le proprie sembianze usuali; si esaminò impaziente la veste azzurra con ricami argentati dalla forma di fiori, per assicurarsi che non fosse strappata. Aveva ancora il fiato corto per lo spavento: aveva appena rischiato di farsi trafiggere da una freccia di Artemide, facendosi scoprire tutta sola e indifesa, in sembianze di unicorno, in mezzo a quella radura. Fortuna che la sua ninfa era intervenuta in tempo. Perlustrò con i propri cinque sensi l'aria circostante, e avvertì la presenza della ninfa invisibile accanto a lei.
“Eufrosine, c'è anche Aglaia con te? ” le chiese.
La ninfa le si materializzò accanto. “No, Signora. - rispose. - Qui con voi ci sono solo io. ”
Afrodite fu stupita della risposta. “Che strano, avrei giurato di avvertire più di una presenza accanto a me. ” osservò, rivolta più a sé stessa che alla ninfa.
“Sarà stato un fauno, mia Signora. - la rassicurò Eufrosine. - In luoghi come questo ce ne sono molti. ”
Afrodite annuì, poco convinta, poi pregò la sua accompagnatrice di lasciarla sola, e la ninfa scomparve di nuovo. La dea si sistemò al meglio i lunghi capelli bruni, scompigliati dal vento, allontanandosi dalla faccia alcuni ciuffi ribelli. Poi, al sicuro tra la folta vegetazione del bosco, chiamò colui che dall'inizio della giornata non aveva desiderato altro che rivedere.
“Ares, mio amato e prediletto, ti imploro di venire da me. ”
Chiuse gli occhi, in attesa. Cercò di calmare il cuore che le batteva all'impazzata. Non dovette attendere molto: Ares fu quasi subito accanto a lei, e si guardò intorno circospetto.
“Mia adorata, sei sicura che nessuno ti abbia vista? ”
Lei decise di sorvolare sul fatto che poco prima era stata sorpresa da Artemide. “No. - gli rispose. - Ci siamo solo io e te, lo posso assicurare. ”
Da quando era comparso non era riuscita a togliere gli occhi da quel corpo muscoloso, dalla pelle imbrunita dal sole e dagli occhi di lui, di una sfumatura a metà tra il verde e il nocciola, che la facevano impazzire ogni qualvolta vi posava lo sguardo. Le parve di scorgere lo stesso desiderio nei begli occhi di lui, e allora non attese oltre. Chiuse gli occhi e cercò con avidità le labbra di Ares, che in un istante le si chiusero intorno alla bocca, e lasciò che lui le cingesse la sottile vita con il suo braccio possente. In un amplesso di dolce bramosia, Ares e Afrodite caddero insieme sull'erba, impazienti di placare il bruciante desiderio che non aveva dato loro pace in quelle poche ore in cui erano rimasti separati l'uno dall'altra.
Non vista, Callisto ridivenne visibile e volò via, protetta dal buio della sera e dalla fitta vegetazione del bosco, ansiosa di raccontare con dovizia di particolari alla padrona ciò che aveva appena visto e sentito.
Artemide era esausta, ma sentiva di non aver ancora placato la sua rabbia. Era quasi l'alba, e lei aveva vagato per tutta la notte in preda ad una furia cieca. Aveva ucciso tredici cervi e quattro daini, trafiggendoli senza pietà con le inesorabili frecce del suo arco, aveva ignorato bellamente un'accorata richiesta rivoltale da una sacerdotessa nel tempio a lei dedicato, e non contenta si era diretta ad uno dei numerosi templi della dea Afrodite sparsi per la Grecia, aveva dato fuoco all'edificio ed era rimasta ad ammirare le fiamme che si levavano al cielo, con il cuore che esultava di muta soddisfazione.
Ora, che si stava facendo giorno, passeggiava in riva al mare, sentendo di dover fare ancora qualcosa. Afrodite non doveva restare impunita per il suo tradimento. Non era giusto. Artemide sapeva di non poter fare affidamento sull'aiuto degli altri dei, che ammiravano e stimavano la bella dea dell'amore quasi quanto gli uomini, che non facevano altro che dedicarle templi e offrirle sacrifici. Nessuno avrebbe osato toccare la dolce Afrodite, lei questo lo sapeva ed era per questo motivo, forse, che il suo animo in quel momento era così in tumulto.
Si sedette in riva al mare, osservando le onde infrangersi sugli scogli, e mulinò i capelli, incurante del fatto che il vento li stesse scompigliando. Lei non era Afrodite. A lei, Artemide, dea della caccia e degli animali selvatici, non importava nulla della bellezza, né tantomeno dell'amore. Ma allora per quale motivo si era alterata tanto alla notizia che le aveva portato la ninfa Callisto? Era forse gelosa dell'amore che il bello e possente Ares riservava ad Afrodite? Era gelosa della loro felicità, e l'avrebbe desiderata per sé?
Scacciò quegli assurdi pensieri con una risata, che risuonò beffarda tra gli scogli e le ritornò indietro, quasi il mare la ritenesse così poco credibile da restituirla al mittente. Eppure lei era certa di non essere gelosa di nessuno. Lei, così intrepida, non aveva certo bisogno dell'amore. Non voleva un dio tutto per lei, invaghito e desideroso di lei come lo era Ares per Afrodite, non voleva una famiglia, non voleva figli. No. Lei poteva benissimo vivere senza, era pur sempre una delle dee più venerate dagli uomini, figlia di Zeus e di Leto, sorella gemella di Apollo, dea della caccia, delle armi e degli animali selvatici. Che cosa voleva di più? Non certo l'amore, che faceva breccia nel cuore dei deboli e causava soltanto guai. No. Lei era al di sopra di faccende così basse come i sentimenti.
L'unica cosa che le dava fastidio e che in quel momento le rodeva l'animo era il fatto che Afrodite, sposa di Efesto, potesse amoreggiare con qualcun altro e passarla liscia. Questo non lo poteva permettere. Lei, Artemide, così dura di cuore, non si sarebbe lasciata intenerire. Avrebbe dimostrato agli altri dei che anche la mite e dolce Afrodite era caduta in fallo, aveva tradito e si era rivelata bugiarda. Avrebbe dimostrato a tutti che la dea dell'amore non era quella fanciulla pura che tutti credevano. Quella era l'occasione buona. Tutto qui. Invidia e gelosia non c'entravano nulla, erano sentimenti che non la sfioravano né mai l'avrebbero toccata.
Però doveva fare qualcosa. Si guardò intorno, circospetta, assicurandosi che non ci fosse nessuno nei paraggi. Poi chiamò Ermes, il messaggero. Aveva bisogno di lui.
Il dio divenne visibile e comparve accanto a lei, fluttuando in aria con i suoi sandali alati. Artemide lo osservò mentre si sedeva su uno scoglio, sorridendole da sotto il cappello a falda larga e posando a terra il suo caduceo, la verga dotata di serpenti intrecciati che il dio portava sempre con sé.
Lei non ricambiò il saluto né il sorriso, e decise di venire subito al dunque.
“Ermes, ho bisogno di te. Dovresti apparire in sogno al dio Efesto, e comunicargli che sua moglie, la cara Afrodite, lo tradisce e amoreggia con Ares. ”
Artemide tacque per un attimo, scrutando il volto di lui per vedere l'effetto di quella rivelazione. Il viso del giovane dio, in effetti, si corrucciò, ostentando sorpresa.
“Sei sicura di quello che dici? ” le chiese, e lei ebbe l'impressione che Ermes stesse cercando di prendere tempo per esaminare la sua richiesta.
Lei annuì, impaziente.
“E non potresti andarci tu, di persona, da Efesto? ” le domandò esplicitamente.
Artemide ricacciò la testa all'indietro e diede in una risata sguaiata.
“Io? Dal brutto, deforme, puzzolente Efesto? ”
E rise di nuovo. Poi continuò. “No, non voglio rischiare che mi scagli contro la sua ira e mi incenerisca con il suo fuoco. Sappiamo benissimo che è un tipo irascibile, no? Ma tu non hai nulla da temere, basta che gli appari in sogno e non accadrà nulla. Non potrà farti del male. ”
Lui esitò. “No, non ho paura, ma... ”
“E allora, che aspetti? ”
Ermes si guardò intorno, poi tornò a rivolgere a lei la sua attenzione. “È quasi l'alba. - osservò. - Non credo che Efesto in questo momento stia dormendo. Dovrò fare in modo che si addormenti di nuovo e mostrargli il sogno. ”
Lei gli sorrise, incoraggiante. “E allora va', affrettati. ”
Lui le lanciò un'ultima occhiata, poco convinta, poi si levò in volo fendendo l'aria con i sandali alati, e nel giro di qualche istante sparì oltre l'orizzonte, veloce come il vento.
Artemide si lasciò scappare un sorriso di soddisfazione. Seppur riluttante, Ermes non aveva osato rifiutarle un piacere. Però aveva esitato, e questo confermava che la maggior parte degli dei erano talmente infatuati della bellissima Afrodite, che la sola idea di farle del male, seppur indirettamente, li turbava. Ed Ermes non era da meno. Solo lei, la coraggiosa Artemide, aveva osato mettersi contro di lei, facendosi beffe dei sentimenti. Poteva ritenersi orgogliosa di sé stessa. Stavolta stava facendo la cosa giusta.
Scrutò oltre l'orizzonte, al di là degli scogli e del mare, assaporando la propria vittoria. Il dio Efesto, violento e irascibile, non l'avrebbe fatta passare liscia ai due amanti.
D'un tratto scorse qualcosa muoversi fra le onde. Abbassò lo sguardo, e vide una nereide, Galatea, che le si avvicinava cavalcando le onde in groppa ad un delfino, le perle tra i capelli che scintillavano al sole. Artemide aveva una mezza idea di andarsene, poi scorse una figura femminile dietro alla ninfa. Era Atena, una delle poche dee che Artemide vedeva con piacere, così simile a lei, disdegnosa della bellezza e dell'amore, amante della guerra quasi quanto lei, sebbene si fosse dimostrata in parecchie occasioni più saggia di lei, meno incline ad agire secondo l'istinto e più avvezza ad usare l'intelletto e il buon senso nella maggior parte delle occasioni.
Atena le si avvicinò, emergendo dalle onde, la lunga veste bagnata che le aderiva al corpo, facendo sfoggio del proprio elmo dorato adorno di splendenti piume colorate. Le rivolse un sorriso.
“Ti vedo turbata, questa mattina. ” le disse.
Artemide decise di non fingere, scegliendo per una volta di confidare nella forza dell'amicizia. “Ho scoperto una tresca amorosa. ” le confidò.
Atena rise. “E che cosa c'è di tanto strano, mia cara? ” esclamò, sorpresa.
“Di strano c'è che a tradire il marito è nientemeno che la cara e dolce Afrodite. ” rispose.
Atena tornò subito seria. Questa di certo non se l'aspettava. Rimase in silenzio per un po', immersa nelle proprie riflessioni, poi si rivolse nuovamente all'amica. “Non capisco comunque che cosa ti turba. Non mi sembra che ti stia tanto a cuore la sorte di Afrodite, eppure sembra quasi che tu stia in ansia per lei. ”
Artemide scrutò torva Atena. “Infatti, non sono per nulla in pena per lei. - spiegò. - Ho appena mandato Ermes a raccontare tutto ad Efesto. Stavolta la fanciulla non la passerà liscia. Mi turba semplicemente il fatto che l'amante di Afrodite sia uno che non mi sarei mai aspettata. Un duro di cuore, se mi capisci. Uno che mai e poi mai avrei pensato capace di provare dei sentimenti. ”
Atena guardò interrogativa l'amica, poi capì e scosse la testa. “Ma chi, Ares? ”
Artemide annuì.
“Non ci credo, mia cara! ” esclamò Atena, e diede in una risata.
“È stata Callisto a vederli insieme. - rincarò la dose Artemide. - E un'alseide non mentirebbe mai alla propria dea. Possiamo fidarci di lei. ”
Atena non smise un attimo di ridere, non credendo ancora alle proprie orecchie. Ares, capace di provare amore? Questa sì che era una notizia bella e buona. E lei non si sarebbe lasciata sfuggire un'occasione del genere per mettere in cattiva luce l'eterno rivale, il dio con il quale gareggiava da quando era nata, emergendo già adulta dalla testa di suo padre Zeus. Da allora, tra lei e Ares c'era stata una lotta continua, e tra loro si era instaurato un innato ed eterno desiderio di rivalsa. Ora le si presentava una ghiottissima occasione, fornitale da Artemide su un piatto d'argento.
“E ora hai mandato Ermes a raccontare tutto a Efesto? ” domandò all'amica, come se non fosse sicura di aver sentito bene. Artemide glielo confermò. Atena fece risuonare nuovamente la sua fragorosa risata, poi scomparve inghiottita dalle onde del mare, e l'ultima cosa che Artemide scorse di lei fu lo scudo che l'amica teneva in mano, ornato con la spaventosa testa di Medusa. Alla fine, anche lo scudo scomparve tra le acque calme, e un attimo dopo anche la nereide Galatea si eclissò, seguendo la propria dea.
Rimasta sola, Artemide udì un terrificante urlo di rabbia risuonare nella quiete e rompere il silenzio, e quando volse lo sguardo in lontananza, vide le scintille del vulcano del dio Efesto stagliarsi nitide nel cielo terso. Lei sorrise, certa che la rabbia del dio non si sarebbe placata molto facilmente, e pregustando già la vendetta che l'irascibile Efesto avrebbe riservato di lì a poco alla moglie e all'amante di lei.
Atena decise di non perdere tempo; aveva già in mente un piano. Si diresse verso il vulcano, rifugio di Efesto, impaziente di esporgli l'idea che le si era delineata in mente. Udì il fragore dei metalli ancora prima di arrivare nei pressi della dimora, e comprese che il dio stava sfogando la propria rabbia fabbricando armi, com'era sua abitudine, solo che quel giorno il frastuono stava raggiungendo livelli più alti del solito.
Atena alzò la visiera dal proprio elmo, incurante del pericolo. Sapeva come prendere il dio. Fece il suo ingresso nell'antro dell'ampia grotta, dove Efesto era intento nelle sue faccende, e non si accorse subito di lei.
“Buongiorno, Efesto. ” lo salutò, dopo essere atterrata.
Lui alzò pigramente lo sguardo, e rispose al saluto con un grugnito. Era a torso nudo, la lunga barba incolta e i capelli lunghi che si muovevano al ritmo dei colpi che il dio sferrava ad uno scudo con una pietra. “Non ti vedo di buon umore, oggi. ” osservò Atena, nel tentativo di mostrarsi bendisposta nei suoi confronti.
Lasciò che lui si sfogasse, ascoltando pazientemente il racconto del sogno che gli era stato inviato da Ermes, fingendo di non sapere nulla dell'intera storia.
Quando lui ebbe terminato, gli illustrò la propria proposta. “Ascolta, Efesto. Mi è venuto in mente un piano per aiutarti a vendicarti di tua moglie e del suo amante. ”
Efesto, che fino a quel momento teneva gli occhi fissi sullo scudo a cui stava lavorando, alzò gli occhi su di lei, palesemente interessato. Atena, con un sorriso, si apprestò ad esporgli il piano che aveva architettato.
“Abbiamo bisogno dell'aiuto delle erinni. ” esordì.
Nel frattempo, Callisto e Antea, presenze invisibili, tesero le orecchie e si accinsero ad ascoltare attentamente ciò che Atena aveva da dire, per riferirlo dettagliatamente più tardi alla loro dea Artemide.
Le due ninfe le comparvero davanti nel momento in cui stava per scoccare un dardo in direzione di un cervo, al limitare del bosco. Mentre la dea ascoltava il racconto di Callisto e Antea, gli occhi di Artemide si illuminavano sempre più di una luce malvagia, e alla fine si era completamente scordata del cervo che aveva appena mancato. Sapeva che cosa fare.
“Andate a cercare Atena. - ordinò alle alseidi. - Fatele sapere che ho intenzione di scendere personalmente negli inferi per incontrare le erinni. Illustrerò loro il piano e chiederò loro aiuto. ”
Callisto annuì, e assieme alla compagna si levò in volo.
Una volta sola, Artemide assunse la forma invisibile, per assicurarsi di non essere osservata, e si mise in viaggio.
Il fetore e il buio degli inferi la assalirono all'improvviso non appena fece ingresso nel regno dei morti. Tentò di ignorare le sensazioni spiacevoli, concentrandosi unicamente sul proprio scopo. Ci voleva ben altro per spaventare la dea della caccia, si disse.
Le terribili figlie della Notte, demoniache portatrici di vendetta e di morte, stavano consumando un pasto a base di selvaggina, strappando brandelli di carne dalla carcassa con la furia distruttiva che le caratterizzava. Artemide si avvicinò alle tre sorelle, e si manifestò.
Loro alzarono gli occhi su di lei, senza smettere di divorare il loro pasto.
“Ho bisogno del vostro aiuto, - iniziò. - per infliggere una punizione ad Ares e Afrodite. ”
L'erinni Megera le lanciò uno sguardo scettico. “Di solito puniamo gli uomini, non gli dei. ” osservò, con aria annoiata.
“Capisco. Ma se mi aiuterete, vi offrirò una ricompensa. Tutti i servigi hanno un prezzo, lo sapete meglio di me. ”
L'atteggiamento delle tre orribili sorelle mutò di colpo. Si dimostrarono particolarmente interessate mentre Artemide spiegava loro il piano che lei stessa aveva ascoltato poco prima da Callisto e Antea. Le loro orrende fauci si aprirono in un sorriso che mise in mostra le loro zanne, e i loro enormi occhi gialli parevano più folli che mai. Una di loro, Aletto, iniziò con molto vigore a porre condizioni sulla ricompensa, e Artemide, impaziente di concludere la trattativa, le assecondò in ogni loro richiesta.
Uscendo dagli inferi per ritornare nel mondo dei mortali, poco più tardi, la dea sentì l'odore della vendetta espandersi nell'aria intorno a lei, e respirò soddisfatta a pieni polmoni.
Quella sera stessa, Artemide non era la sola accovacciata dietro un cespuglio nel bosco in cui, la sera precedente, aveva scorto Afrodite in sembianze di unicorno. Insieme a lei, c'era l'erinni Aletto, come concordato.
Fremendo per l'eccitazione, la dea attese che Afrodite comparisse nel luogo dell'appuntamento con Ares. I minuti di attesa le parvero interminabili, mentre la dea aguzzava i suoi sensi nella speranza di avvertire altre presenze intorno a lei, ma la natura, immobile e silenziosa, per la prima volta pareva incline a farle dispetto. Artemide scacciò con fastidio i pensieri funesti che le sfioravano la mente, pensieri che avevano come oggetto l'avversità del destino, e scacciò anche una sgradevole sensazione che avvertì da qualche parte dentro di lei, qualcosa di molto simile ad una minuscola, lontana fitta di senso di colpa. Si meravigliò di sé stessa, e cercò di allontanare dal suo animo qualsiasi sensazione che potesse vagamente assomigliare ad un sentimento. Lei era una dura. Non si sarebbe fatta intenerire, non proprio nel momento decisivo.
“Sai che cosa fare, vero? - domandò all'erinni accanto a lei, nel tentativo di stemperare la tensione. - Il tuo compito è quello di distrarre Afrodite, non appena arriva. Lei ed Ares non devono incontrarsi. ”
Aletto si limitò ad annuire, rivolgendole un sorriso diabolico. Artemide poteva sentire il fetore dell'erinni che le alitava accanto.
Finalmente, dopo quella che le parve un'attesa infinita, la dea dell'amore comparve tra gli alberi, bellissima nella sua veste colorata e con il diadema di perle che le risplendeva sulla fronte, e cominciò a guardarsi furtivamente in giro. Sul volto di Artemide, da dietro il suo cespuglio, si dipinse un ghigno di soddisfazione. Rivolse un cenno all'erinni, che come concordato uscì dal nascondiglio sotto le false sembianze della ninfa Eufrosine, la prediletta di Afrodite.
Con un guaito di dolore, la finta Eufrosine si accasciò a terra, ostentando una brutta ferita nel petto, squarciato da una freccia che le si era conficcata in profondità.
Udendo il terribile lamento, Afrodite si voltò e scorse la ninfa ferita. Le si fece subito incontro, preoccupata. “Eufrosine, mia cara! ” esclamò atterrita.
“Ma tu sei ferita, perdi molto sangue! Aiuto, aiuto! ” si mise a gridare.
Artemide uscì dal nascondiglio, sfoderando l'espressione più cupa che le riuscì, e si avvicinò alla povera Afrodite, che continuava a gridare, piangendo, cercando di tamponare con il lembo della veste la ferita sul petto della ninfa.
“Mia cara Afrodite! - esclamò. - Devi scusarmi, è colpa mia, stavo cacciando nei paraggi e ho trafitto la povera Eufrosine, lei era invisibile, perciò non l'avevo vista. Perdonami, ti prego! ”
Afrodite alzò su di lei i begli occhi azzurri rigati di lacrime. “Devi aiutarmi, Artemide. Se non la curiamo, morirà, le mie ninfe non sono immortali! ”
Artemide si portò una mano alla bocca, ostentando preoccupazione. “Allora vieni con me, non perdiamo tempo! Vi accompagnerò da mio fratello, Apollo, lui sarà in grado di curare la tua ninfa, vedrai. ”
Afrodite non esitò. Aiutata da Artemide, prese in braccio Eufrosine e insieme si allontanarono dal bosco, levandosi in volo per essere più veloci.
Nel bosco, subito dopo che le due dee se ne furono andate, tutto era tornato immobile. Quando Atena, in compagnia delle altre due erinni, sopraggiunse sul luogo, non c'era traccia di anima viva. Soddisfatta, attese che la sua preda facesse capolino tra gli alberi, in cerca dell'amata. Non dovette attendere molto. Armato di elmo e spada, il possente Ares si fece vedere poco dopo, mettendo in mostra il proprio petto muscoloso, e Atena si apprestò divertita ad assistere alla scena che ne sarebbe seguita.
Rimanendo invisibile, stette a osservare mentre Megera assumeva le fattezze nientemeno che di Era, regina degli dei e madre di Ares e di Efesto, e si manifestava al figlio, che sgranò gli occhi dalla sorpresa.
“Madre! - esclamò, stupefatto. - Che cosa ci fate qui? ”
La falsa Era guardò il figlio con durezza. “Ho saputo sul tuo conto alcune cose che non mi piacciono affatto, mio caro Ares. ”
Lui la fissò interrogativo, poi un lampo di comprensione gli balenò negli occhi. Ostentò una calma che sicuramente non provava. “Mi stavate seguendo? ” domandò alla madre.
Lei non negò, ma rispose allo sguardo penetrante del dio.
Ares si alterò. “Mi deludete, madre. ”
“No, mio caro, sei tu che mi deludi. Si sono sparse delle voci, secondo cui hai una tresca amorosa con Afrodite, moglie di tuo fratello Efesto. Sono vere? ”
Il dio della guerra, colto in fallo, finse sorpresa e indignazione. “Madre, ma come potete credere una cosa del genere? Non farei mai un torto simile a mio fratello, e voi sapete bene che io non ho tempo per l'amore. È una faccenda che riguarda gli uomini, io non ho nulla a che fare con bassezze simili. Ve l'ho detto tante volte, madre. ”
La finta Era parve sollevata e rassicurata dalle parole del figlio. “Me lo giuri, Ares? ”
“Ma certo, madre! ” rispose lui, con foga.
Atena bofonchiò divertita, poi con un cenno fece capire all'altra erinni, Tisifone, che era giunto anche il suo momento. Quest'ultima non si fece pregare, si manifestò ad Ares sotto le mentite spoglie di Afrodite, e gli si avvicinò correndo, con il volto rigato di lacrime e un'espressione accorata. Non parve battere ciglio vedendo che lui era in compagnia di Era. Lo raggiunse e gli si gettò tra le braccia.
“Ares, mio amato, non serve più a nulla fingere! - recitò. - Tutti sull'Olimpo ormai sanno di noi due, del nostro tradimento. Non possiamo più nasconderci, ormai a quest'ora lo saprà anche mio marito. E io ho paura, Ares, ho paura della sua ira! ”
Nascose il viso nel petto di lui, continuando a singhiozzare, mentre Ares, impotente, le accarezzava i capelli nel tentativo di calmarla. Si voltò verso sua madre, che aveva assunto un'espressione severa e impenetrabile, e le rivolse uno sguardo implorante. “Madre, non è vero! ” esclamò, in un ultimo, disperato tentativo di uscire pulito dall'intera vicenda.
Ma Afrodite insistette. “Non negare, mio amato. A che serve fingere, ormai? ” singhiozzò.
Lui fece per aprire la bocca, ma Era lo zittì. “Guardatemi negli occhi e ascoltatemi, entrambi. ” esordì, in tono grave. Afrodite si staccò da Ares e guardò la regina degli dei, con lo sguardo di un cerbiatto impaurito.
“Mi avete gravemente deluso. Non mi sarei mai aspettata nulla del genere da voi, soprattutto da te, Ares. Ma penso che in occasioni come questa le parole siano superflue, perciò vi risparmio la predica e passo direttamente ai fatti. Afrodite, tu farai ritorno da tuo marito, sarà lui a decidere quale punizione meriti. In quanto a te, Ares, lascerai l'Olimpo per sempre, e avrai l'accortezza di non farti più vedere nei paraggi della nostra dimora. ”
“Ma, madre... ” cominciò il dio, trattenendo a stento la rabbia.
“Non discutere, Ares. E ringrazia che non ti abbia inflitto una punizione peggiore. ”
Frustrato e impotente, il dio della guerra rimase a guardare mentre Era e Afrodite scomparivano e lo lasciavano solo sulla scena di una battaglia che per lui aveva tutto il sapore di una tremenda sconfitta. La sua prima sconfitta in una spietata guerra di sentimenti che Ares, tanto feroce e implacabile con le armi, non era abituato a combattere.
Soddisfatta e divertita, anche Atena lo lasciò solo a leccarsi le sue ferite, e si allontanò dal bosco ridacchiando da sola e assaporando il gusto di una schiacciante vittoria contro il suo rivale di sempre.
Nel frattempo, Afrodite e Artemide erano giunte nella dimora di Apollo, dio dell'arte e della poesia, ma anche della medicina, nella speranza che potesse guarire la ferita della ninfa Eufrosine.
Lui non si fece pregare, e accolse l'accorata richiesta della dea dell'amore. Mentre il fratello si inginocchiava accanto a Eufrosine per esaminare la ferita, Artemide approfittò del fatto che nessuno le rivolgesse attenzione, e potè allontanarsi indisturbata, ansiosa di assistere all'epilogo della scena nel bosco.
Una volta giunta lì, però, non scorse anima viva. Chiamò le sue ninfe, per chiedere loro dove fosse Ares. “È andato tutto secondo i vostri piani. - le assicurò Antea. - Ares ora è ai piedi del monte Olimpo, sta per andarsene per sempre dalla dimora degli dei. ”
Sollevata, Artemide si diresse veloce come il vento all'Olimpo. Non le fu difficile scorgere il dio della guerra ai piedi del monte, con un fagotto sulle spalle, mentre lanciava un ultimo, nostalgico sguardo a quella che era stata la sua dimora e si dirigeva verso la valle.
Artemide ridivenne visibile e si nascose dietro un masso. Era quasi impietosita dall'espressione di Ares, più abbattuta che mai, osservandolo mentre si allontanava con passo pesante.
Era un vero peccato che non fosse stata la vera Era a cacciare il figlio dall'Olimpo, e che prima o poi il dio avrebbe scoperto l'inganno e avrebbe fatto ritorno a casa. Ma Artemide decise di non dar voce a quei pensieri, che potevano guastare la sua gioia, e stava quasi per manifestarsi ad Ares per dargli un ultimo, doveroso saluto, quando avvertì nell'aria una terza presenza.
Sul momento pensò che potesse essere una delle ninfe, oppure un fauno, ma ritenne più prudente continuare a rimanere nascosta.
Non seppe mai che, accanto a lei, presenza silenziosa, c'era il piccolo e grazioso Eros, figlio di Afrodite, che appollaiato sul ramo di un vicino larice, nascosto dalle foglie dell'albero, aveva assistito all'intera scena. Non solo: il dio dell'amore, con l'aiuto degli inseparabili Foto e Imero, aveva spiato tutta la vicenda, e ora nel suo animo covava un segreto e rabbioso desiderio di vendetta: lo doveva a sua madre e all'amore incondizionato che provava per lei. Avrebbe punito Artemide, che con l'inganno era la causa della sventura di sua madre.
Inesorabile, seppur con gli occhi bendati, Eros scoccò il suo dardo e colpì il bersaglio con sorprendente precisione. Nel momento in cui la freccia partì dal suo arco, Eros seppe che per Artemide qualcosa sarebbe cambiato per sempre. Era stata colpita da uno dei suoi dardi, e come tutte le sue prede sarebbe caduta vittima della forza misteriosa che per tanto tempo aveva disprezzato: quella dell'amore.
Afrodite era sconvolta. Il suo sguardo saettava dal proprio vestito sporco di sangue alla creatura che aveva di fronte, che fino a qualche istante prima aveva le fattezze della sua Eufrosine, e che ora stava assumendo le orribili sembianze di una spaventosa erinni. Lanciò un'occhiata ad Apollo, inginocchiato di fronte a lei, e colse l'espressione incredula di lui.
Aletto, divertita, aveva appena terminato la propria rappresentazione teatrale, e ora si gustava l'effetto della propria rivelazione sui suoi impotenti spettatori. Decise di farsi ancor più beffe di loro raccontando per filo e per segno l'intero piano messo a punto da Atena e Artemide per punire i due amanti segreti.
Con una fitta di panico che cresceva dentro di lei, Afrodite ascoltò le parole dell'erinni, che non smetteva di ridere sguaiatamente.
“Mi dispiace. - disse infine Apollo ad Afrodite. - Non sapevo nulla, mia sorella ha tratto in inganno anche me. ”
Ma lei non aveva tempo di farsi consolare. Non ora. Doveva andare in cerca di Efesto, chiarire tutto con il marito. Senza dire una parola, lasciò sul posto un Apollo sempre più confuso e si levò in volo, in direzione del vulcano. Avrebbe trovato il modo di farsi perdonare.
Lui, il burbero Efesto, aveva sempre dimostrato sentimenti sinceri per lei, e Afrodite, sebbene non potesse dire di amarlo, provava un profondo affetto per il marito. Molti dei lo disprezzavano o lo rifuggivano per il suo aspetto trascurato e deforme, ma Afrodite, la dea dell'amore, sapeva apprezzare la forza e la purezza che avvertiva nell'animo di lui, e lo ammirava sinceramente. Non sopportava l'idea di perderlo. L'aveva tradito, era vero. Si era lasciata andare ad una passione carnale e puramente fisica con un dio il cui animo in realtà disprezzava. Ed era giusto che pagasse per i propri errori. Ma ora, mentre volava spedita in direzione della dimora di Efesto, sapeva che non le sarebbe stato difficile rinunciare alla relazione con Ares, mentre non avrebbe potuto sopportare di perdere la stima e l'affetto del marito. E sperava con tutto il suo cuore che lui sapesse perdonare la sua debolezza.
Artemide non avrebbe saputo spiegare quanto le stava accadendo. La piccolissima fitta di pietà che poco prima l'aveva sfiorata mentre osservava Ares, si era trasformata in qualcosa di più profondo e più serio. Si stava tramutando, seppure anche lei esitasse ad ammetterlo a sé stessa, in qualcosa di simile ad un sentimento. Mentre lui passava davanti al masso dietro cui era nascosta, Artemide non potè fare a meno di ammirare il fisico statuario di Ares, la sua pelle abbronzata, e provò una sconosciuta fitta allo stomaco guardando il volto desolato di lui.
Tentò di resistere all'impulso di rivelarsi. Ma una forza invisibile pareva spingerla verso di lui, e per la prima volta provò l'irresistibile desiderio di avvicinarsi a qualcuno. Desiderava parlargli, e forse anche stringerlo tra le sue braccia, baciare quelle labbra perfette e scacciare quell'aria triste dal fondo degli occhi di lui.
Senza sapere perchè lo stesse facendo, stentando a riconoscere sé stessa, uscì dal suo nascondiglio. Ares se ne accorse, e la guardò interrogativo.
“Perdonami, Ares. ” gli disse.
Lui non capì. “Per che cosa dovrei perdonarti? ” chiese.
“Per aver architettato un inganno, per aver fatto del male a te e ad Afrodite. ”
L'espressione di lui si fece ancora più corrucciata. Ora Artemide capiva perchè era stata colta da quella rabbia incontenibile nel vedere i due amanti insieme. Nel profondo dell'animo, lei era sempre stata innamorata di Ares, ma aveva sempre soffocato, disprezzandolo, quel sentimento. Ora sentiva che era giunto il momento di permettere a quella rosa di sbocciare, a quell'aquila di spiccare il volo, a quella farfalla di uscire dal bozzolo. Ora sapeva che anche lei, l'intrepida dea della caccia e degli animali selvatici, aveva sempre avuto dentro di sé quella forza innata, che spingeva per uscire.
Artemide sospirò. E, subito dopo, non riuscì a frenare il torrente di parole che usciva dalla sua bocca. Voleva che lui sapesse tutto, che capisse e la perdonasse.
“L'ho fatto perchè ti amo. ” gli disse infine.
Ares aveva ascoltato in silenzio la confessione di lei, e ora osservava con una punta di fastidio le lacrime sgorgare dagli occhi di Artemide. Poi si sentì montare da una rabbia indicibile. Era stata lei, allora, ad allontanarlo dalla sua amata. Era lei la causa di tutto. Senza rivolgerle una parola né uno sguardo, si voltò e prese ad incamminarsi verso l'Olimpo, lieto che almeno, nonostante tutto, non fosse ancora stato cacciato dalla propria dimora.
E la lasciò lì, ferita e desolata, sull'epilogo di un'amore così improbabile, disdegnato e non ricambiato. Lei non ebbe la forza di richiamarlo indietro. Rimase a lungo immobile, ai piedi dell'Olimpo, incurante della pioggia che scendeva scrosciante e le bagnava i capelli. Quella pioggia che, quella notte, non era riuscita a spegnere la passione di Artemide, ma aveva spento un altro fuoco altrettanto pericoloso, quello rabbioso che aveva fatto breccia nel cuore del dio Efesto. E di cui ora non rimanevano che le ceneri, a significare una sola cosa: la dea Afrodite era riuscita a farsi perdonare.
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- Non c'è dubbio che a molti di noi i miti greci fanno sempre saltare di gioia, bello far scivolsre su un piano mitico la storia che noi viviamo nel nostro quotidiano. In realtà ci appare scandita da ritmi temporali non sempre esaltanti. Trasferire le nostre problematiche nel mondo del mito ci libera dalle ambasce quotidiane così "Artemide si caricò nuovamente in spalla il suo arco e si alzò in volo", noi voliamo con la Dea! Bel racconto questo di Micaela.
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