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Ex Inferno
Darlam, Maine. 25 ottobre ….
Questo non è un diario, poiché non c’è nulla che debba confessare a me stesso. Questa non è una storia da pubblicare, perché se arriverà nelle mani di un editore lo farà in quanto polvere nel vento. Questo non è un messaggio in bottiglia, non essendo io naufrago sperduto bensì saldo coi piedi per terra in un luogo fin troppo noto. Questa è una lettera che nessun postino consegnerà, indirizzata al luogo delle fiamme eterne, l’inferno, della cui esistenza ora sono certo.
Il mio nome è Shammond Wayne Collison, sono a capo del nucleo di polizia ambientale di Portland e per oltre un anno ho dato la caccia ad un assassino. Il dubbio è lecito. Come mai un topo d’ufficio laureato in biologia è stato assegnato ad un caso da squadra omicidi? Giurisdizione, potrei dire. Oppure cantonata secolare. Quello che era stato liquidato come “affare da pollici verdi” si è rivelato essere una scia di sangue da cronaca nera. Credo sia utile un piccolo resoconto cronologico.
Più di un anno fa, in piena estate, alla mia squadra toccò un caso di piromania. Alla periferia di Rockland, nei pressi di una vasta pineta, un’esplosione aveva distrutto una baracca e messo a rischio il bosco. I pompieri ci avevano lavorato un’intera notte prima di estinguere del tutto le fiamme e scoprire che lo scoppio era stato causato da alcune taniche di benzina e da una bombola di metano. Nulla che potesse interessarci, un semplice incidente generato dal sole e dalle lamiere che un tempo avevano fatto da tetto per quell’umile dimora, se solo non ci fosse stata la miccia. Oggi maledico quella corda incenerita. Uno dei pompieri ne trovò i resti e, ipotizzando si trattasse dell’opera di un piromane, chiamò in causa noi sbirri ambientalisti. Che dio lo abbia in gloria!
La scena che ci si presentò non sembrava dare spazio all’investigazione: legno carbonizzato e lamiere dappertutto, una corda imbevuta di benzina come miccia e un tentato omicidio di alberi da perseguire. Non fu così semplice. Ciò che venne fuori dalla cenere cambiò la mia vita. In mezzo al fumo e alla fuliggine trovammo i resti – pochi per la verità – di un essere umano. La testa era bruciata ma intatta, del corpo furono rinvenuti pochi frammenti; questo indicava che la persona si trovava nel capanno o nelle immediate vicinanze e non poteva essere la stessa che aveva dato fuoco alla miccia. Pensammo potesse trattarsi di occultamento di cadavere in grande stile o di omicidio premeditato. Josh Anderson, lo sceriffo della contea, suggerì invece che si trattasse di un vagabondo che dormiva nel posto sbagliato. Un’opinione abbastanza influente perché il caso restasse a noi e i resti del disgraziato passassero in secondo piano. Prima di abbandonare il luogo rinvenimmo un frammento di legno intatto, quasi privo di bruciature, marchiato dall’impronta insanguinata di una mano. Era senza dubbio impossibile che l’uomo cui appartenevano i resti avesse avuto il tempo di sanguinare. Più probabile che fosse ferito in precedenza, o magari era il piromane a sanguinare o… Nulla di tutto questo era rilevante per il nostro preciso problema. Come pure la piuma nera bruciacchiata che uno dei miei mi fece notare poco lontano dai resti. Allora pensai solo che un corvo si era posato al posto sbagliato nel momento peggiore.
L’estate finì, del piromane non c’era traccia e l’ufficio era di nuovo il nostro habitat. Le analisi dei resti umani e del sangue trovati quel giorno erano state classificate come “non urgenti” e nulla mi spingeva a contraddire questo giudizio. La testa bruciata faceva capolino nei miei incubi di tanto in tanto, ma alla luce del sole ciò che restava di quel caso era solo una vaga curiosità, un gradevole solletico di pensieri. La notte, però, stava per allungarsi sulla mia vita.
Passai la vigilia di Natale con i miei uomini, calpestando ancora cenere e fiutando il puzzo di benzina. Quella volta accadde a Old Town, una cittadina addobbata a festa che accolse quell’evento come una semplice stonatura. Anziché una baracca avevamo di fronte i resti di una villetta da tempo disabitata, eppure trovammo di nuovo dei resti umani. Ancora un vagabondo sfortunato? Per quelli del luogo si, anche perché era Natale e nulla li avrebbe distolti dalla festa più bella dell’anno. Ancora una volta avevamo fra le mani taniche esplose, un incendio domato a fatica e un cadavere di scarso interesse. Anche l’impronta insanguinata fece la sua comparsa, impressa sui resti di una porta.
Dopo Rockland, Old Town e nei mesi seguenti Waterville, Ellsworth e Dexter. Un’unica mano, forse la stessa dell’impronta che continuavamo a trovare insieme ai contenitori esplosi e al consueto carico d’ossa insignificanti. L’idea che si trattasse di un piromane non sfiorava più la mia mente, e allo stesso modo non credevo di avere a che fare con un serial killer. Troppe incongruenze con il modo di agire delle due tipologie: i piromani non cadono mai nell’omicidio e se ciò avviene per incidente cambiano modalità d’azione, mentre gli assassini seriali sono troppo fieri della propria bravura per distruggere il loro capolavoro di morte. C’era qualcosa di strano che mi stuzzicava. Il solletico era ormai un prurito feroce.
La mia primavera trascorse in biblioteca. Cercai la mano insanguinata presumendo si trattasse di un simbolo, sfogliai manuali d’occultismo e trattati religiosi. Tornavo a casa solo per la notte, ma non dormivo affatto. Litigai con mia moglie perché sosteneva che non mi importasse più nulla di lei e dei bambini, non da quando lavoravo su quel caso; disse che mi stavo innamorando di quelle blasfemie che leggevo; le dissi che se voleva poteva andarsene; lo fece. Portò via anche i bambini e mi assicurò che non si sarebbe più fatta vedere fin quando non fossi tornato in me. Non sentii la loro mancanza.
Ciò che trovavo nei libri non mi soddisfaceva. Tutto quello che gli studiosi sembravano in grado di fare era blaterare sui significati antropologici e i disturbi della psiche. Nei saggi c’era qualcosa di sbagliato, un elemento che sfocava le immagini e allontanava la conoscenza piuttosto che ghermirla; avevo la netta sensazione che quegli eminenti professori avessero paura, come archeologi che trovano un sepolcro e si accontentano di ipotizzare il contenuto anziché aprirlo e verificare. Non avrei mai risolto il caso senza aprire quella dannata tomba.
Fu allora che conobbi Zamech. Rovistai nei registri della polizia fra i casi di presunto satanismo e trovai la sua cartella: Faruk Wilkyns, detto Zamech, nato a Gerusalemme in data sconosciuta e residente a Skowhegan, Maine. Più volte era stato colto a impartire insegnamenti discutibili ad affiliati di sette occultiste, ma nessun reato era stato riscontrato. Presi il suo indirizzo e gli feci visita. Viveva all’ultimo piano di un edificio cadente, in un appartamento colmo di oggetti a cui non avrei saputo dare un nome, da solo e con l’aria di starci a meraviglia. Si presentò alla porta con una lunga tunica, un uomo di età indecifrabile dalla pelle olivastra e dagli occhi sereni come acqua di lago. Non volle sapere chi fossi né il motivo per cui ero lì, mi fece entrare e basta. Ci fu un lungo silenzio mentre dividevo il mio sguardo tra le rughe del suo volto e l’arredo della casa. Infine gli raccontai ciò che sapevo.
Quel giorno udii la sua voce solo quando mi invitò a tornare da lui la settimana successiva. Nessun chiarimento, zero risposte. Pensai che volesse solo liberarsi di me, ma risposi al suo invito e ricevetti più di quanto avessi chiesto. Nelle settimane seguenti trascorsi più tempo lì che a casa mia. Zamech era in grado di dare ordine alle conversazioni senza porre alcuna regola, parlare con lui era una deliziosa deviazione dalla normalità, un viaggio nell’universo senza gli assilli di tempo e spazio. Rivelava segreti millenari e frivoli pettegolezzi con lo stesso tono di voce, narrava di demoni come se ne fosse fratello e di angeli come farebbe un dio.
Al mistero delle esplosioni quasi non pensavo più, preso com’ero nella morsa di misteri insondabili, quando avvenne di nuovo. Colui che in pochi mesi aveva colpito in cinque diverse città tornò sul luogo del delitto, e non è un modo di dire. Ancora una volta radunai la mia squadra per recarmi a Rockland e scoprire che nell’esatto luogo in cui era esplosa la baracca si era verificata una seconda esplosione dello stesso tipo. In questo caso non c’erano detriti, solo barili distrutti, terra smossa e un mucchio di alberi in fiamme. Ah, e i pezzi di persona! Un’altra vittima, e questa era smembrata ma in gran parte presente, con un po’ di fatica identificabile come una donna scomparsa circa una settimana prima. Sotto i barili, alloggiata in una nicchia nel terreno, giaceva una porta in legno su cui era impressa la familiare mano rossa, quasi una firma d’autore. Non c’era alcuna abitazione ma non aveva rinunciato all’impronta sulla porta. Né un piromane né un assassino, c’era uno scopo dietro quegli eventi. Quale? Ordinai l’analisi delle impronte dentarie di tutti i resti rinvenuti in quelle condizioni, almeno per quelli di cui avevamo trovato la testa, e il confronto con quelle di tutte le persone sparite nei rispettivi luoghi. Nel giro di pochi giorni ebbi i risultati e non esitati un istante a far visita a Zamech.
Tutte le vittime identificate erano sparite nei giorni precedenti la morte e, informazione che non speravo di ottenere, il sangue delle impronte non era umano bensì di gallo. Chiesi a Zamech di trasformare dei miseri indizi in una risposta. Non esitò a fornirla. Passeggiò fino alla libreria, spuntò con l’indice una fila di libri e si fermò con aria soddisfatta. Aprì quello che aveva trovato mostrandomi una cartina dello stato, mi porse una penna e andò a sedersi. <<Hai gli strumenti per trovarti la risposta da solo>>, mi esortò. Osservai inebetito il Maine, rigirandomi la penna tra le mani, poi iniziai a collegare le città dove si erano verificati gli eventi seguendone la cronologia. Rockland, Old Town, Waterville, Ellsworth, Dexter e ancora Rockland. Avevo appena tracciato un pentacolo, piuttosto approssimativo ma inequivocabile. L’uomo che cercavo aveva agito in modo da tracciare la stella a cinque punte, e una scia di sangue segnava il cerchio in cui era iscritta. Non poteva essere casuale. Mi sentivo trionfante, eppure c’era ancora tutta una teoria da edificare.
Un tizio uccide delle persone senza alcun nesso tra loro, sceglie i luoghi con accuratezza per creare una figura da magia nera e lascia un simbolo uguale dappertutto. <<Per quale motivo uccidere delle persone in questo modo?>> chiesi a Zamech. Mi fissò come se avessimo sprecato mesi di lavoro, forse deluso da questo studente pieno di zelo ma a corto di cervello. Ancora una volta indirizzò le mie riflessioni verso la soluzione. <<Hai detto tu stesso più volte che dubiti sia un assassino, dunque perché adesso ragioni come se lo fosse?>> A domanda risponde domanda.
In effetti ero tornato a ragionare da poliziotto, dimentico peraltro di essere un investigatore mediocre. D’un tratto mi chiesi come mai ero lì, in quella casa, cosa mi aveva spinto ad andarci, non quel pomeriggio ma quando per la prima volta avevo bussato alla porta di Zamech. Ero andato da lui perché non credevo di dover cercare un piromane o un serial killer, non un malvivente su piccola scala, bensì qualcuno che puntava a qualcosa di immenso e misterioso oltre che terribile. Dovetti rendere conto a me stesso di aver trascurato le mie stesse ipotesi. Osservai di nuovo il pentacolo tracciato nel Maine, e diedi fiato alle mie supposizioni. Il proprietario della mano rossa aveva utilizzato corpi per un cerimoniale allo stesso modo in cui si era servito del combustibile: mezzi necessari, non vittime. Lo schema era quello che avevo appreso nelle settimane precedenti da Zamech: si traccia un pentacolo col sangue - quello delle persone carbonizzate - per aprire un contatto con gli inferi e ottenere qualcosa. Cosa? <<Ha completato il suo pentacolo con il secondo episodio di Rockland. Quale rito ha eseguito?>> domandai al mio interlocutore.
<<Ancora una volta ti dimostri un allievo poco attento>>, mi rimproverò Zamech. <<Tracciare il pentacolo è solo una parte del cerimoniale. Per ottenere un effetto bisogna fare un sacrificio al centro del simbolo, all’interno del pentagramma.>>
Questo mi avvicinò di molte miglia alla soluzione. Il pentacolo era stato tracciato ed era pronto ad ospitare il sacrificio. Ciò voleva dire che un altro episodio si sarebbe verificato in una zona precisa. All’interno del simbolo che avevo tracciato sulla cartina un pentagono delimitava una zona comprendente il nord est della contea di Waldo e il sud ovest di quella di Penobscot. L’ultimo atto si sarebbe consumato lì, ma dove esattamente? Contattai subito i miei uomini ordinando di trovare informazioni riguardo agli scomparsi in quella zona. Ora sapevo dove cercare, ma non avevo idea di cosa avrei dovuto impedire. Zamech mi fece notare che il sangue di gallo nero veniva utilizzato nei riti di contatto con il regno dei morti, cerimonie di resurrezione o uccisione, più in generale per aprire un contatto con i demoni. Gallo nero, la piuma bruciacchiata di Rockland. <<Dunque l’impronta sulla porta non sarebbe un simbolo ma un sigillo>>, azzardai, ricevendo stavolta un cenno d’assenso. <<Il nostro uomo ha intenzione di spalancare una gigantesca porta sull’inferno.>> Ero allibito, terrorizzato e allo stesso tempo entusiasta.
Le ricerche della mia squadra rilevarono un numero di scomparsi bassissimo nella zona che avevo indicato: appena tre persone sparite negli ultimi due anni, di cui due ritrovate e solo una ancora dispersa, un certo Louis Vennegor di Darlam, dichiarato scomparso pochi giorni prima che la baracca di Rockland dicesse addio al nostro mondo e più volte arrestato per aver compiuto sacrifici in nome di Satana. Darlam faceva al caso nostro come luogo, Vennegor rispecchiava alla perfezione il tipo di persona a cui davamo la caccia. Restava da trovare la collocazione esatta della cerimonia finale durante la quale, ne ero certo, l’uomo avrebbe sacrificato se stesso alla causa del suo personale dio.
Darlam non era che una cittadina da diecimila abitanti o giù di lì, ma trovare una persona che voleva nascondersi non sarebbe stato facile. Per nostra fortuna cercavamo un tizio che non aveva mai fatto della segretezza una propria caratteristica. La mano rossa campeggiava in bella mostra sulla porta d’ingresso di un villetta in disfacimento, brillante come un astro in quella notte nebbiosa. L’interno della casa era spoglio, le pareti ammuffite e nessuna luce reclamava il trono occupato dal buio. Avanzammo cauti, attenti ad ogni suono, esplorando stanze vuote e morte. In quello che un tempo era stato un soggiorno, abbandonato a terra, trovammo un gallo nero sgozzato. Se alcuni di noi ancora speravano di aver preso un abbaglio, beh, quel galletto si abbatté sulle nostre illusioni come una scure. Al piano di sopra tutto ciò che trovammo fu un ratto che masticava uno scarafaggio, ancora all’oscuro del pasto piumato che avrebbe potuto godersi di sotto. Restava soltanto la cantina.
Da laggiù sentimmo un sibilo, un respiro accelerato. Scendemmo qualche gradino, subito frenati da una voce ansiosa. <<Non accendete la luce>>, ci suggerì. <<Non anticipate la festa.>> Avanzammo ancora un po’ a pistole spiegate, scoprendo una piccola cantina arredata con una scrivania e decine di taniche. L’odore di cherosene mi pizzicava il naso e quando sentii le suole delle scarpe scivolare compresi che il pavimento ne era cosparso. <<Louis Vennegor?>> domandai mentre mi avvicinavo.
L’uomo era inginocchiato, in una mano stringeva un accendisigari. Qualche raggio di luna illuminava un volto appuntito, dai lineamenti scavati, contratto in un ghigno disumano. Eppure sembrava impaurito. Come può un uomo che sta per farsi esplodere essere intimorito da qualche pistola? <<Se non siete precisi con quei ferri farete tutti una brutta fine.>> Non era una minaccia, piuttosto un consiglio amichevole.
Ordinai ai miei di uscire dalla casa, per il loro bene e la mia famelica curiosità. Restai da solo con Vennegor, pronto a piantargli un colpo in mezzo agli occhi mentre lui si teneva pronto a farci esplodere. Le lunghe conversazioni con Zamech mi avevano permesso di comprendere molte cose, ma altrettanti nuovi misteri si erano messi a giocare con la mia fantasia. Volevo parlare con quell’uomo e pensare i suoi pensieri. Solo dopo l’avrei ucciso, per fargli pagare le sue colpe nei confronti delle vittime sacrificali e l’insano interesse che aveva provocato in me verso l’occultismo e che aveva allontanato la mia famiglia. <<Qual è il rito che vuoi celebrare? Perché?>>
<<Tu non vuoi arrestarmi.>> Quella di Louis Vennegor era un’affermazione colma di dubbi. <<Vuoi sapere davvero cosa faccio.>> Il volto gli si illuminò di piacere, forse alla prospettiva di condividere il suo piano segreto. <<I tuoi amici mi hanno arrestato molte volte per delle piccole cose, insignificanti cerimonie per togliere i brufoli a riccastri adolescenti. Questa volta è una cosa grossa, tanto che non esisterebbe una pena adeguata a punirmi, e mi dispiace ammetterlo ma non è merito mio.>> Puntualizzò questo particolare scuotendo il capo, deluso e pieno di rispetto, forse per il vero ideatore della funzione. Gli chiesi chi fosse l’altro. Esplose in una risata tanto fragorosa da farmi sussultare.
<<Vedi, quello che mi ha convinto a farlo non ha avuto bisogno di chiedere. Mi ha scelto, usato e in cambio non mi darà un bel niente. Non ha mai chiesto niente a nessuno, Lui, perché è un re.>>
<<Re di cosa?>> domandai, mentre un mucchio di supposizioni assurde si dimenava nella mia testa come un banco di acciughe in una rete.
<<Tu lo sai>>, insinuò Vennegor, <<solo che hai paura ad ammetterlo. Bene, non importa, lo dirò io per te quel nome. Lui è Satana, il re degli inferi e dei dannati, l’eroe di chiunque rifiuta la schiavitù. Ha scelto me per compiere questo rito e aprire una porta fra i mondi, quando sarà compiuto potrà ampliare il suo regno. Io sono il sacerdote e il sacrificio, morirò tra le fiamme e ne sono sollevato, poiché dopo sarà meglio stare dalla parte degli spiriti.>>
A quel punto ero inquieto eppure interessato. Sapevo di doverlo fermare, ma il fatto che il rito non fosse una finta, che si potesse realmente aprire un varco del genere e dare uno sguardo dall’altra parte era allettante. <<Penso io a sollevarti>>, gli dissi avvicinando la pistola al suo volto.
<<Tu non lo farai>>, bisbigliò Vennegor. <<Lui non accetta rinvii. Se mi uccidi userà qualcun altro per terminare la cerimonia stanotte. Non si può tornare indietro.>> Tremava e tentava di ritrarsi dal raggio d’azione della pistola. Ero sicuro che temesse di morire deludendo quello che chiamava re e di incappare in terribili punizioni nell’oltretomba. <<Se mi spari potrebbe usare te come sacrificio>>, provò come ultimo tentativo.
Meno di un’ora più tardi il cadavere di Louis Vennegor era stato portato via, mi ero liberato della polizia locale assicurandoli che il soggetto era intenzionato ad utilizzare il carburante per incendiare un bosco e i miei colleghi del nucleo ambientale erano tornati alle loro famiglie. Sono seduto alla scrivania in cantina, circondato da combustibile, e soltanto la lattiginosa luce lunare illumina questi fogli. Quando ho sparato a Vennegor cercavo allo stesso tempo di zittire la mia curiosità e di nutrirla. Il fascino dell’esoterismo aveva abbattuto parte della mia vita per ricostruirla in un’altra forma, mi aveva reso schiavo facendomi sentire padrone. Con quella pallottola speravo che l’avvertimento ricevuto – potrebbe usare te come sacrificio – si concretizzasse e qualcosa di incommensurabile si mostrasse ai miei occhi. Ora dovrei essere soddisfatto.
Mentre scrivo sento le disgustose carezze delle anime perse, spettri mostruosi che bramano vita e sussurrano oscenità nella mia testa, avverto un tumulto bruciante nelle viscere e so che l’inferno sta bussando alla porta della mia anima. Prima pensavo che la cerimonia avrebbe fatto esplodere l’intero stato e aperto una voragine colma di fuoco; ora ho capito che la porta sarà molto meno invasiva, quasi invisibile, uno spiraglio da cui terribili mostruosità potranno popolare il mondo senza destare scalpore. All’inizio si noterà solo un leggero aumento della criminalità, poi il Maine diverrà uno scrigno di raccapriccianti storie dell’orrore e infine il pianeta intero farà la conoscenza delle orde demoniache.
Tra un po’ darò fuoco ai fogli che sto utilizzando, li lascerò cadere a terra e andrò a fare un giro dall’altra parte. Non posso tirarmi indietro, Vennegor aveva ragione, perché una volontà superiore muove le mie stringhe e una marionetta non ha il potere di sciogliere il legame con il padrone. Anche su un’altra cosa, però, Vennegor aveva visto giusto: dopo questa notte sarà meglio stare dalla parte degli spiriti. L’orrore si prepara a marciare in questo mondo, nascosto sotto il letto o nell’armadio, negli angoli bui ma anche alla luce, con volto deforme o con quello perfetto di una madre. Gli incubi potrebbero addirittura diventare un rifugio… ma non ci giurerei.
Se qualcuno sta leggendo queste parole vuol dire che la lettera è giunta al destinatario.
Saluti a te… Re degli inferi.
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0 recensioni:
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- Ciao, Bob, hai avuto pazienza a leggerlo tutto, complimenti. Grazie di essere passato... ci vediamo all'inferno.
- saluti a te Shammond... (il mio voto è ovviamente un pentagono)
Anonimo il 07/05/2009 20:17
No, non penso. E poi è molto costruttivo scambiarsi pareri e soffermarsi su certi punti!
Riguardo ai puntini... devo dire di non averci fatto caso. O non mi è saltato in mente l'idea di anni precedenti!
- Scritto bene, bravo... è un pochino lungo concordo
- Ho scritto il racconto circa due anni fa, quando non pensavo certo a pubblicarlo su un sito, perciò non rispetta parametri di alcun genere e segue solo la propri evoluzione. Per ciò che riguarda l'impronta, beh, c'ho pensato anch'io, ma ti confesso che preferisco immaginarlo come ambientato negli anni quaranta o cinquanta, quando C. S. I. non andava ancora come genere!! ... i puntini sospensivi al posto della data lasciano piena libertà d'ambentazione temporale al lettore. Grazie per i commenti e ciao a tutti. Mi sto dilungando?...
Anonimo il 07/05/2009 15:39
Troppo, troppo lungo! Però è scorrevole e scritto bene. mi è piaciuto molto!
Solo una cosa mi ha lasciato con un dubbio: dall'importa della mano si poteva risalire alla persona?
Forse guardo troppi CSI!
Anonimo il 07/05/2009 13:37
Ci vuole paziena, e' molto lungo e insolito per il target del sito.
Bello, scritto bene, tematiche abusate ma sempre attuali.
Ciao
MAx
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