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L’ultima fermata
Si dice che quando un uomo tocca il fondo non gli rimane altro che risalire. Così si dice.
Ma quella in cui io sto precipitando ha ormai assunto i contorni di una voragine senza fondo e continuerò a discendere in eterno se non trovo qualche appiglio a cui aggrapparmi, qualcosa da cui ripartire e che col tempo mi aiuti a risalire. Appigli... il problema è che non ne vedo attorno a me; se me lo chiedete oggi vi rispondo che non esistono. Attorno a me vedo invece persone che mi ripetono che sono giovane e dovrei cercare di rifarmi una vita, cercare di lasciarmi i ricordi alle spalle. Loro non sanno quanto sia difficile ricostruirsi un’esistenza e quanto sia duro dimenticare. Ma li capisco, sono cose che si dicono sempre, una sorta di scudo all’imbarazzo, più che altro, nella speranza che non capiti anche a loro. Sono le stesse parole che direi io se fosse capitato a qualcun altro, probabilmente. Funziona così.
Oggi in ufficio c’è gente che mi guarda e sorride alla maschera che da qualche tempo indosso sul mio volto ed essa contraccambia il sorriso. Se nessuno riesce a vedere al di là della maschera, nessuno potrà leggere la tristezza del mio animo. Nessuno strapperà fuori quella tragedia dal fondo ai miei occhi. I colleghi di lavoro crederanno che io stia meglio e io glielo lascerò credere. Non è la soluzione al problema, ma per ora va bene lo stesso.
Gettarsi a capofitto nel lavoro è una sorta di sedativo, però uno non può barricarsi in un ufficio in eterno e ogni giorno, a fine turno, là fuori resta la vita da affrontare... o quello che ne rimane.
Dovevano essere le sei passate quando riposi i documenti nella ventiquattrore con gesti controllati, ripetitivi, automatici. Riposi i documenti seppellendo, un foglio alla volta, il disegno, quello che conservo da quando lei lo ha fatto, che mi porto dietro e che ogni tanto mi guarda coi suoi tratti esili e stilizzati: linee a cera colorate cariche di tutta la malinconia che un disegno come quello non dovrebbe mai avere. Giace in mezzo a fogli grigi di un lavoro grigio che però è l’unica cosa che adesso mi spinge ad andare avanti, mi da’ uno scopo, mi aiuta a non pensare al resto della mia vita a catafascio.
Fuori dal palazzo, uno di quei palazzi anonimi, stracarichi di uffici e poco altro, la fresca brezza della sera era buona e la respirai a pieni polmoni. Il cielo imbruniva gradatamente e il tempo sereno si contrapponeva al mio stato d’animo. Anche il traffico sembrava più scorrevole del solito, in quel tumulto di città. La giornata si era schierata dalla parte dei cuori gioiosi e sprizzava serenità; la sera stava scendendo con dolcezza. Non faceva per me. Camminavo sul marciapiede, anzi lasciavo che le mie gambe camminassero, per essere precisi. Mi immersi nell’impermeabile come prevedendo una burrasca; fuori dal riparo di un lavoro fittizio la mia mente s’immerse nei ricordi.
Erano passati otto mesi dall’incidente che mi strappò via moglie e figlia. Io ero a casa quando arrivò la telefonata: un maledetto incidente stradale. Niente da fare per la piccola. Morta sul colpo. La madre era stata trasportata all’ospedale, ma poche speranze. Quando giunsi al reparto di rianimazione il dottore mi fermò sulla soglia scuotendo la testa. Meglio per me se non entravo; meno incubi per me. Entrai. Dieci minuti più tardi ero solo. Un brutto urto, la macchina semidistrutta, inutile farsi illusioni. Anche l’autista dell’altro veicolo, un furgone, era rimasto ferito. Andai a trovarlo carico di rabbia e disperazione. Piangeva e si scusava. Non lo incolpai mai dell’accaduto, forse perché non fui in grado di farlo. Forse commisi un errore. È una lezione che ho imparato troppo tardi: il dolore non si cancella, non evapora, si canalizza. E non buttarlo addosso a qualcun altro significa tenerselo per sé. Forse agire diversamente mi avrebbe aiutato ma allora volevo solo andarmene di lì, fuggire via. Misi tutto in mano al mio avvocato come a non volerne sapere più nulla, ma so che prima o poi mi chiamerà per informarmi degli sviluppi relativi alle indagini. Per allora mi sarei fatto forza. O almeno così speravo.
Mi ritrovai di fronte alle scale che conducevano alla metropolitana e cominciai a discenderle. La giornata era stata dura e non vedevo l’ora di rifugiarmi dentro casa, dove già mi attendevano le foto delle persone che più avevo amato nella mia vita fissate a tutto da chiodi invisibili. Otto mesi, ma la ferita era ancora interamente dilatata come fosse accaduto ieri e non riusciva proprio a rimarginare.
Dietro l’inferriata del gabbiotto una ragazza dal viso grazioso mi staccò i biglietti. Doveva essere nuova, o avevano fatto un cambio di turno, perché ero solito prendere la metropolitana lì a quell’ora e non l’avevo mai vista. Giravo molto raramente in macchina da otto mesi a questa parte. Era davvero carina. Mi sorrise, ma io non risposi. In quel momento ero impegnato a lottare con il ricordo del funerale; tentavo con tutte le mie forze di reprimerlo, immergendolo nuovamente nella scura melma della memoria. La bara grande, la bara piccola... quell’incidente aveva amputato una parte di me e non l’avrei più recuperata.
Raggiunsi la piattaforma; poca gente transitava in quel momento della giornata. Meglio così. Non volevo vedere attorno a me gente felice, persone che vivevano nell’ignoranza di sapere che niente al mondo avrebbe turbato la loro condizione. Meravigliosa ignoranza, quella. Avrei voluto strappargliela via con le mani. Invidioso, sicuro. Egoista, forse. D’altra parte la vita lo era stata con me.
Non passò molto che mi vergognai di me stesso: non era giusto ragionare a quel modo. Scossi la testa come cercando di allontanare il vapore di quei pensieri dalla mia mente. Appoggiai a terra la ventiquattrore. Non potevo continuare così, il ricordo mi stava logorando ed ero stanco di mentire dicendo che stavo bene e me ne stavo facendo una ragione, mentre in realtà colavo letteralmente a picco. Dentro di me qualcosa urlava. Urlava di smettere. Sentii distintamente emergere una sorta di euforia, come una risata che scaturisce al culmine della disperazione. Era arrivato il momento di voltare pagina, di cercare quell’appiglio per tirarmi fuori. Era arrivato il momento di vivere. Di vivere un’altra volta, per me e per loro.
Il fischio della sirena invase l’aria ed annunciò l’arrivo del treno. Soddisfatto di quel mio impulso, felice di ribellarmi al dolore, mi chiesi se non stessi tradendo la memoria di mia moglie e di mia figlia. Cosa avrebbero detto se mi avessero visto? Cosa avrebbero pensato di me? Che mi fossi già dimenticato di loro... Che le volessi relegare in un angolino buio della mente per poi voltarmi e non girarmi più indietro. No, non l’avrebbero mai pensato. No, mai! Chiudi una porta, ti volti e senti le unghie raspare sul legno. Tentai di scacciare quel pensiero il più lontano possibile e repressi il mio iniziale impulso di un riscatto che non sarebbe più giunto, lasciando così che il dolore mi ripercuotesse.
Il treno stava rallentando e si udì il leggero sibilo dei freni sulla rotaia; le porte si aprirono con un rumore simile a un soffio di gas, poco lontano da me. Scesero alcune persone, tra queste anche un padre con la sua bambina che s’incamminarono mano nella mano. Mi passarono vicino... lei, cercai di non guardarla. Non ci riuscii.
Dio, come assomigliava alla mia piccola Chrissy!
«Christine, te l’ho detto mille volte. Lo sai che oggi ho parlato con la tua insegnante. Beh è venuto fuori che non ti applichi a sufficienza, che sei distratta alle lezioni e non svolgi i compiti con regolarità... »
Sta seduta lì alla scrivania della cameretta bianca che Linda ed io avevamo scelto di comune accordo. La stanza è piccola. Contiene solo un letto con comodino, un armadio, qualche quadro, alcuni disegni che ha fatto lei, e la scrivania con sopra alcune mensole di libri e fumetti. Si volta verso di me e mi rivolge un broncetto adorabile.
«Ma dice anche che sei intelligente e molto brava a disegnare. »
Sorride. Il buco vuoto lasciato da un dentino cadutole qualche giorno prima rende la sua espressione buffissima e non posso fare a meno di sorriderle a mia volta.
«Non mi piace molto andare a scuola, ma mi piace disegnare», dice.
«Va bene, vorrà dire che da grande farai la pittrice. »
«Questo l’ho fatto io per te», e indica il foglio sulla scrivania tra le matite colorate e i pastelli a cera. Mi avvicino per vederlo…
Salii sul treno. C’era meno gente del solito, anzi la carrozza era quasi vuota. L’urlo soffocato di una sirena e le porte si chiusero pesantemente dietro di me. Misi la valigetta sul sedile ma rimasi in piedi. Mi appoggiai con la mano a un palo per evitare di scivolare lungo il corridoio, mentre il treno partiva. Stavamo acquistando velocità. In definitiva la giornata era stata peggiore del previsto e adesso sentivo come un groviglio di emozioni soffocate per troppo tempo crescermi dentro. Le ultime briciole del buon proposito di ricominciare da capo, frantumatosi in partenza, quando vidi quel genitore con la figlia furono letteralmente spazzate via. Non l’avrei mai accompagnata da nessuna parte, mai più mano nella mano. Mai vista crescere, preoccuparmi per la prima cotta e che il ragazzetto di turno la trattasse con rispetto. Mai più alzato ad aspettarla se faceva tardi, ma sereno, perché sarebbe stata una ragazza matura, di cui ci si può fidare. Una in gamba.
Mi sentivo triste e avevo voglia di lasciarmi andare a fondo, come un uomo che sta affogando e smette di lottare per salire in superficie e invece si lascia cadere giù avvolto da quella strana, crescente sensazione di torpore. A volte lasciarsi andare giù è dolce: è la fine degli sforzi per cercare di salvarsi. La consapevolezza che ormai la fine sta per giungere è riposante; un rilascio di tensione che assomiglia ad un soffice giaciglio quando ti senti stanco.
Pensai che forse era meglio sedersi. Siediti, ora, anche se le gambe reggono. Il sedile di fronte a me era vuoto e ci misi la valigetta.
Era così che c’eravamo incontrati. Io e Linda.
«Scusi, è libero qui? »
Mi giro verso quella voce gentile ed incontro gli occhi più belli e magnetici che abbia mai visto. Due acquemarine cariche del bagliore del sole; i riflessi di un’escursione in profondità, su un fondale corallino, a rischio embolia. Rimango lì, così, senza sapere cosa dire, come incantato, pensando che sarei dovuto sembrarle un idiota. Poi sorrido d’imbarazzo e tolgo la valigetta dal sedile di fronte a me.
«Prego, sieda pure. »
E si siede. I biondi capelli, i tratti del viso sinceri, il bel corpo avvolto in un vestito sobrio che le lascia scoperte le gambe eleganti. È bellissima e non riesco a distogliere lo sguardo da lei. Di tanto in tanto mi fissa e devo abbassare gli occhi. Non sono in grado di dire nulla. Ogni cosa mi sembra la più banale del mondo e comunque, anche se avessi trovato le parole, mi sarebbe mancata la voce. Mi sembra impossibile di provare ancora lo stesso immaturo imbarazzo di un liceale. Occorre fare qualcosa, e in fretta, dissimulare. Raccolgo un giornale buttato lì che non avevo notato prima e m’immergo nella lettura, ma ad ogni pagina che giro colgo l’occasione per lanciarle uno sguardo. Il suo viso è rivolto verso il finestrino buio, a tratti rischiarato dai fari lungo il tunnel: a intervalli regolari le illuminano il volto. Giro le pagine in fretta. Arrivo presto in fondo.
Il treno rallenta e giungiamo alla fermata. Lei si alza.
«Questa è la mia», dice sorridendo. Un sorriso cortese e tenero al tempo stesso. Penso che non lo scorderò più.
Si alza, penso io, adesso scende. Adesso scende... e non l’avrei più rivista. Sapevo di non poterlo permettere. Raccolgo il poco coraggio che mi rimane ed esco dal treno un attimo prima che si chiudano le porte. Corro, la vedo, l’afferro per il braccio. Ma cosa diavolo sto facendo? «Un attimo signorina... »
Lei si gira, è di nuovo di fronte a me. Gli occhi all’altezza dei miei occhi. Mi guarda senza capire, poi volge lo sguardo alle mie mani s’acciglia e di nuovo sorride. «E la sua valigetta? »
È vero, la valigetta! Mi porto una mano alla testa. Stupido! «Dannazione, l’ho dimenticata sul treno, ma non importa, c’è una cosa che devo assolutamente dirle... »
Il treno rallentò: tra poco sarebbe giunto alla fermata. La mia era la prossima. La struttura della carrozza scricchiolava, i tienibene dondolavano simultaneamente a destra e a manca simili a pendoli isterici, e alla fine il concerto dei gatti delle porte si aprivano soffiando.
La poca gente che c’era sul mio vagone scese e non salì alcun passeggero. Non era rimasto più nessuno, fatta eccezione per una donna seduta in fondo; mi dava le spalle. Con la stessa calma con la quale si era fermato, il treno ripartì. M’incamminai verso le porte; avrei aspettato lì il resto del tempo. Questa volta mi ricordai della valigetta. Con cautela la signora dall’altra parte della carrozza si alzò e uscì dal vagone diretta verso il fondo del treno.
Si muoveva piano perché era incinta.
Linda ed io siamo seduti nella nostra cucina e le sto accarezzando il pancione gonfio. L’acqua nella caffettiera comincia a bollire.
«Vorrei sentirlo quando si muove», dico io.
Lei mi accarezza la mani e me le sposta cominciando un sorta di tacita e consensuale esplorazione. Il ventre è caldo e liscio. Le mie dita sfiorano il bordo della maglietta arrotolata appena sotto al seno.
«Hai già in mente qualche nome? », le chiedo.
«Se è femmina vorrei chiamarla Christine. »
«E se fosse maschio? »
«Sento che sarà femmina. »
Mi discosto leggermente dal tavolo, avvicino la mia sedia alla sua e appoggio la guancia sul ventre caldo.
Lei ha un sussulto. «Si è mossa. L’hai sentita adesso? »
Non ho sentito nulla, ma le sorrido ugualmente e faccio cenno con la testa. La caffettiera fischia...
Il treno fischiò.
Mi sembrava di sentire ancora quel tepore sulle mani. Guardavo distrattamente oltre il finestrino della porta scorrevole e di tanto in tanto le luci della galleria illuminavano il mio viso. Ero rimasto solo e lo scompartimento vuoto pareva enorme. Tutti i rumori sembravano fondersi in uno strano silenzio, come fossero filtrati da una membrana impermeabile. Forse ero solamente stanco. Era come stare sempre sul chi vive. Sapevo di non poter andare avanti così.
Cercai, mi sforzai ancora una volta di trovare un modo per risalire dalla voragine del mio dolore. Pensai che un uomo nuovo doveva scendere da quel treno. Dovevo lasciare lì sopra tutte le mie angosce come un tempo avevo dimenticato la mia valigia. Linda e Christine avrebbero voluto vedermi felice, mi dissi. Abbozzai un sorriso, lo feci per loro. Lo feci anche per me.
E stavo ancora sorridendo quando vidi la mia fermata sfilare via e spegnersi nell’oscurità in fondo al tunnel.
Il treno l’aveva saltata.
Ebbi un tonfo al cuore e m’irrigidii di scatto. Ma cosa... Maledizione! Forse il macchinista aveva pensato che non doveva esserci più nessuno a bordo e stava tagliando sul tragitto... Possibile? Comunque avrebbe dovuto fermarsi ugualmente. Mi era sembrato di vedere gente che aspettava di salire alla fermata, ma potevo essersi sbagliato. La locomotiva distava solo pochi vagoni. Che faccio? Decisi d’incamminarmi. Un guasto? Un malessere macchinista? Una brutta giornata!
Discostai la porta di comunicazione con l’altro vagone; anche questo era vuoto. Cominciai a sentire una strana paura crescermi dentro, senza sapere cosa fosse. Forse perché ero solo, forse perché stava accadendo qualcosa che non sarebbe dovuta accadere. Proseguii, i passi sempre più svelti. Raggiunsi l’altra porta: niente. Cominciai a correre mentre file di sedili vuoti mi passavano ai lati come nelle pellicole dei vecchi film. La ventiquattrore dondolava lungo il fianco sbattendomi sul ginocchio, ma continuavo a correre quasi stessi fuggendo da qualcosa, un qualcosa che non riuscivo a spiegare nemmeno a me. Mi aleggiava nella mente il presentimento che il treno avrebbe saltato anche la prossima fermata, e quella dopo ancora. Tutte! Mi sentivo come in trappola.
Arrivai all’ultimo vagone, il cui tratto finale faceva da locomotiva; stavo per avventarmi sulla porta del cabinotto quando la metro cominciò a decelerare. Fino a un momento prima sembrava, nella sua incessante corsa, quasi priva della volontà di rallentare.
La mia mano indugiò sulla maniglia. A quel punto il treno si fermò e le porte d’uscita si aprirono automaticamente alla mia sinistra sbuffando un sibilo simile a quello del vapore. Avevo afferrato la maniglia, ma senza aprire la porta; al di là del vetro opaco non si scorgeva nulla. Mi girai verso le porte aperte come se la fermata stessa mi avesse chiamato. Scendi finché puoi...
Era meglio scendere fino a che ero in tempo, mi dissi; al massimo poi avrei preso un taxi. Appena fuori la porta si richiuse alle mie spalle e il treno ripartì.
Solo allora me ne accorsi. Non ci avevo fatto caso, come se non avessi mai realmente guardato al di là delle porte della metro... La stazione era completamente deserta e scarsamente illuminata dai pochi tubi al neon. Sembrava vecchia e inutilizzata da parecchio tempo. A terra c’erano mucchi di pattume e cartacce sparse, mosse probabilmente dalla sola colonna d’aria spinta dal passaggio della metropolitana. Le colonne con appese le consunte tabelle degli orari e i cestini malconci gettavano cupe ombre sui muri.
Il fischio di una sirena in lontananza fu l’ultimo rumore che si udì, poi solo silenzio e lo scalpiccio delle suole gommate delle mie scarpe in direzione dell’uscita.
Dal basso della scala guardai il cancello chiuso, che rimaneva in penombra. Mi avvicinai rapidamente mentre la strana sensazione di essere intrappolato, che mi aveva assalito sul treno ed era evaporata una volta sceso, tornava a lambirmi le spalle. Le mie peggiori previsioni si erano avverate: una catena passava tra le sbarre, ed era bloccata da un pesante lucchetto; dava i primi segni di ruggine ma sembrava lo stesso parecchio solido. Come se non bastasse il cancello si spingeva fino al soffitto del corridoio, blindato al pari della porta di una cella. Gridai più volte, ma nessuno mi rispose. Sembrava quasi che non ci fosse niente di vivo nel raggio di chilometri. Non riuscivo neanche a capire bene in quale quartiere sbucasse quella stazione, che non doveva essere poi tanto lontano da casa mia. Ma da là sotto poteva anche essere in un’altra galassia. Quando era ormai chiaro che nessuno mi avrebbe sentito, decisi di tornare giù per cercare un’altra uscita o almeno trovare una sbarra o qualche strumento che mi permettesse di forzare il cancello.
Come fui nuovamente alla fermata successe una cosa strana.
In mezzo al silenzio ci fu uno schiocco elettrico e i neon cominciarono a funzionare a intermittenza come luci stroboscopiche. Mi pareva di essere all’interno di un enorme caleidoscopio in bianco e nero. Le ombre sui muri danzavano come spettri minacciosi, pronti ad assalirmi. Ero solo. E non nel senso della solitudine che si prova nella società moderna, quella che riempie tanti servizi sociologici in tivù... Ero solo, fottutamente, come è quasi impossibile sentirsi in un grande città.
Solo, e terrorizzato.
In un attimo di luce intravidi una porta secondaria che aveva tutta l’aria di un uscita di emergenza e mi ci lanciai contro. Spinsi freneticamente la maniglia, ma la porta non si aprì. Non c’era nient’altro, niente bagni, niente biglietteria, niente di niente. solamente locali mezzi smantellati che sembravano aver sostenuto un incontro di boxe con le mazze da carpentiere di una gang di strada. Ad intervalli regolari i ronzii elettrici si diffondevano nell’ambiente annunciando l’accensione di neon che subito dopo si spegnevano.
Mi chiesi per quale insana ragione il treno si fosse fermato in quella stazione abbandonata. Che razza di senso aveva? E aveva saltato la mia fermata! E adesso mi trovavo lì. Stramaledizione!
Non vorrei essere mai sceso. Cosa potevo fare ora? Non me la sentivo di aspettare un altro treno – se mai fosse passato – sperando che anche quello seguisse i bizzarri disegni del primo e valutasse l’importanza logistica di quel buco di merda sotto la città, decidendo di fermarsi. Senza essermene reso conto ero indietreggiato fino al bordo della piattaforma, un altro passo e sarei finito sul binario. Nei tratti di luce, l’oscurità del tunnel lo faceva apparire un disco nero dipinto sul muro. Ma nei tratti di buio si potevano notare delle luci rossastre in lontananza.
Sì, avrei fatto così! Non difficile... rischioso, forse. Sarei rimasto adiacente al muro del tunnel, passi cauti ma svelti, e non ci sarebbero voluti più di dieci minuti per arrivare alla stazione precedente. Non è che mi restasse granché da tentare. Se non vuoi restare devi partire!
Strinsi forte la valigetta mentre discendevo il gradino della piattaforma e mi diressi verso il cerchio nero. Per quanto ci fosse un leggero spazio tra la liscia superficie del tunnel e il binario, sufficiente per permettere ai tecnici i lavori di manutenzione, non era rassicurante proprio per niente muovermi in quella direzione. Comunque fui ben felice di lasciarmi quel luogo alle spalle.
Guardai l’orologio illuminandone lo schermo a cristalli liquidi: quasi le sette e un quarto, ma per quel che ne sapevo io, su poteva essere notte fonda. Il mio braccio destro strisciava lungo il freddo muro di cemento della galleria, tutti i miei sensi erano all’erta: se avessi sentito anche il ben che minimo rumore di un treno mi sarei appiattito istantaneamente contro la parete.
Camminavo con estrema cautela; era quasi tutto buio e toccare di tanto in tanto la superficie cementata e ruvida della muratura era il mio unico punto di riferimento. Così, senza pensare a niente in particolare, arrivai alla prima di quelle luci rosse: era un segnalatore posto sul soffitto del tunnel. Continuai a camminare, deciso ad uscire il più velocemente possibile, immaginandomi già nel mio divano vuoto di casa, da solo, a mangiarmi una cenetta precotta davanti a un qualsiasi programma televisivo. Sempre meglio che stare lì in quel posto.
Ma qual era il mio posto. Ora tutto sembrava così assurdo, come se il destino avesse deciso di punirmi per il male che avevo commesso. Ma quale male? Era perché non c’ero stato? Io, io non ero con loro. Ero a casa, tranquillo, sicuro che nulla avrebbe mai turbato la mia condizione, quella vita che mi ero così faticosamente costruito e avevo circondato con un fortino fatto di illusioni, ma che ritenevo indistruttibile. La mia porzione di sogno in questo mondo. Quanto mi ero sbagliato!
E invece no! Avrei dovuto essere lì, salvarle o subire il loro stesso destino... Penso che in definitiva il senso sia tutto qui. Un punto, lo stesso che metti alla fine di una frase. Continuai a pensarci, infine piansi. Là, sperduto sotto la città, nel suo ventre più freddo e buio mi liberai di lacrime pesanti come macigni che rotolavano via sulle mie guance alleggerendomi il cuore.
Ero là e continuavo a camminare, avendo, per la prima volta dall’incidente, la reale sensazione che prima o poi il tempo mi avrebbe guarito, che la cicatrice si sarebbe rimarginata, che avrei ricominciato a sentire che il viaggio non è solo uno stare a guardare dal finestrino...
Ero là quando arrivò.
Avevo perso la cognizione del tempo e dello spazio e non mi ero accorto che già da qualche metro stavo camminando sui binari. La colonna d’aria spinta lungo i margini del tunnel aveva l’impeto terrificante di un’improvvisa e rabbiosa raffica di vento. La curva di fronte a me fu inondata da una luce bianca che mi torturò gli occhi e nel tentativo di ripararmi, sospinto a quel modo dalla pressione, inciampai cadendo sulle traversine. Sentii come rallentati i rumori della frenata e le vibrazioni sui binari ed ebbi la sensazione che una montagna mi venisse sparata contro. La terra tremava. Un solo attimo nel quale la certezza, la reale percezione della morte, mi prese, svuotandomi la mente al tempo stesso. Il mio cuore era fermo, inchiodato al petto. Non sentii nient’altro come non esistessi nemmeno, solo un ultimo profondo respiro...
Poi ci fu quella voce.
«Papa! »
Ed era voce di Christine.
No, era impossibile! Laggiù... la voce della mia piccola Chrissy!
In un attimo mi riebbi, come se il mio spirito entrasse nuovamente nel corpo appena abbandonato e con un riflesso del quale non mi sarei mai capacitato rotolai sul fianco un istante prima che il treno passasse.
Il cuore tornò a battere. Sentii la carrozza sfiorarmi il corpo e inondarmi di una brutale e gelida corrente d’aria che da sola sarebbe bastata a spazzarmi via. Respiravo affannosamente mentre le scintille prodotte dai pattini del freno si agitavano attorno a me come una miriade di lucciole. Il cuore riprese a battere e neanche m’accorsi che si era fermato.
Sorprendentemente il treno smise di frenare e accelerò. Intontito, mi rialzai mentre la mia giacca svolazzava nell’aria degli ultimi vagoni che sfilavano via.
Era tutto... impossibile. Non credevo ai miei occhi. Non mi sembrava vero di essermi salvato e non riuscivo proprio a credere ai miei occhi... mi era quasi sembrato di intravederla mentre cadevo, avvolta in quel vestito candido a fiori che le avevo comprato, lo stesso che indossava il giorno dell’incidente.
Mi rialzai senza fatica.
Doveva essere stata un allucinazione, decisi.
Ed invece no, perché adesso era lì, di fronte a me, dall’altra parte del binario, illuminata da una luce tenue biancazzurra che proveniva dalle sue spalle. Una luce calda di cui non mi ero accorto prima. I deliziosi boccoli biondi che le incorniciavano il viso, le mani incrociate in vita, le scarpette bianche di vernice.
Allora dovevo essere diventato pazzo. Certo, pazzo!
Mi guardava. Improvvisamente mi sorrise, mostrandomi lo spazio vuoto lasciato dal dentino.
Fu strano come il trovarmela davanti alla fine non mi sorprese più di tanto, o almeno non più di quello che un uomo razionale dovrebbe aspettarsi. E invece, superato un certo shock iniziale, era come se fosse tornato tutto normale. Mia figlia morta mesi prima davanti a me in uno dei bui tunnel del sistema di snodi che la metropolitana tracciava sotto alla città, e sembrava del tutto normale... anche se avevo una sensazione che non so spiegare, come se tutto attorno a me, luci, suoni, odori, fos-sero stati assorbiti da qualche marchingegno e ritrasmessi in toni più tenui, a tratti quasi sfuocati, come fossero ovattati.
Mossi il primo, incerto, passo verso di lei... lei che non faceva altro se non sorridermi rimanendo ferma ad aspettarmi. Soppressi l’impulso di correrle in contro e di stringerla forte a me; lo soppressi il più a lungo possibile. Poi le lacrime uscirono da sole e il cuore mi si gonfiò come se del liquido caldo gli fosse stato pompato dentro di colpo, e prese a battere sempre più velocemente.
Superai il corto tratto che ci separava e mi accovacciai di fronte a lei con tale rapidità che le ginocchia mi tonfarono sul pavimento, senza però farmi male. Mi guardava con i suoi grandi occhi azzurri.
«Ciao, pa’», disse e a me sembrarono le due parole più belle del mondo. E la strinsi forte per un tempo che non ricordo.
«Perché piangi? », sentii che mi chiedeva.
Le sorrisi senza saper cosa dire. «Perché mi sei mancata molto e sono felice di rivederti. »
«Non piangere pa’, io non piango più, sai. No, no. »
Avrei voluto chiederle come era possibile, come faceva ad esseri lì, ed ancora come era possibile tutto quello che stava accadendo, ma sentivo che la strana sensazione ovattata me lo impediva, e sembrava che guidasse le mie domande come in un copione già scritto, o in un sogno.
«Come stai, piccolina? », dissi asciugandomi goffamente le guance con il palmo della mano.
Mentre alcuni fogli stampati volavano qua e là vorticando per la galleria ancora spazzati dalla risacca d’aria del treno, lei lentamente infilò la mano nell’ampia tasca centrale del vestito bianco e ne estrasse un foglio ripiegato in quattro porgendomelo. «Questo l’ho fatto per te. »
Aprii il foglio mentre altri documenti svolazzavano via turbinando poco dietro le mie spalle. Era un disegno, stilizzato ma ben fatto e colorato vivacemente. Rappresentava Linda e me, con al centro Chrissy, che ci tenevamo tutti stretti per mano su di un prato verde campeggiato da un giallo sole estivo... Era lo stesso che avrebbe dovuto trovarsi nella mia ventiquattrore spiaccicata dal treno.
Poi sentii la sua mano tiepida stringersi attorno alle mie dita: mi stava tirando verso una zona alle sue spalle, una sorta di uscita, forse un corridoio di servizio per la manutenzione; c’era una porticina dal quale filtrava quella luce azzurra.
«Andiamo pa’, dai muoviti! »
Guardai indietro, sul binario c’era ciò che rimaneva della mia valigetta e fogli di documenti semiaccartocciati che rotolavano sul cemento senza che l’aria li sospingesse e si muovevano tutti in direzioni diverse. Guardai mia figlia che mi tirava verso i bagliori cerulei della porta.
«Dai papà! »
«Dove andiamo? », chiesi.
«Dalla mamma. »
Quando fummo di fronte alla soglia la luce mi avvolse e fu come attraversare un velo...
Non ero più solo.
C’era gente, anzi la fermata del metrò era letteralmente gremita, ma non sentivo più la stretta tiepida sulle mie dita: Chrissy era scomparsa. Mi guardai rapidamente attorno, ma non la vidi, vidi invece un ragazza che stava scendendo dal treno in sosta e la riconobbi subito. Era Linda. Corsi per raggiungerla facendomi largo tra la folla e quando le fui vicino l’afferrai per un braccio. Ora so quello che devo fare.
«Un attimo signorina... »
Lei si girò verso di me gli occhi all’altezza dei miei occhi. Mi guardava senza capire poi volse lo sguardo alle mie mani vuote e sorrise. «E la sua valigetta? »
«Ah, quella è rimasta schiacciata sotto al treno, ma non importa, c’è una cosa che devo assolutamente dirle... dal momento in cui è salita ho pensato che non potevo lasciarla andare via senza proporle neanche un... qualsiasi cosa preferisce. Un invito a cena, per esempio. »
«E senza neanche chiedermi prima il nome, a quanto pare. »
«Già è vero, mi scusi. »
«E per quale motivo vuole invitarmi a cena? »
«Perché voglio assolutamente rivederla. »
Sorrise. Un sorriso morbido e cortese. «Non le interesserebbe sapere se sono fidanzata, o magari sposata? »
«Già è vero, mi scusi. »
«Comunque no, non lo sono. »
«E per l’invito? »
«Be’, per l’invito possiamo parlarne stasera a cena. Comunque io mi chiamo... »
Poi eravamo ancora tutti e tre insieme. Chrissy era tornata, la gente era scomparsa; la stazione, svanita.
Tutti e tre insieme come nel disegno.
Adesso c’era solo un grande prato, uno sconfinato prato verde campeggiato da un giallo sole estivo. E un vento sferzante che tornò ad invadermi...
E io mi accorsi... sì, mi accorsi di tutto, ma non mi importava più nulla: potevo ancora vederle e stringerle, e questa era l’unica cosa importante. No, non sarei andato via, sarei rimasto lì con loro... e anche quando il rumore dei freni del treno tornò a ronzarmi nelle orecchie, sempre più forte... e anche quando la pressione mi fece vacillare... e anche quando quella luce sembrò volermi abbagliare con la forza di un sole, capii che non c’era nulla, nulla al mondo che desiderassi quanto stringere a me la mia famiglia.
E sarei rimasto lì con loro.
Per sempre.
Il macchinista tenta di azionare i freni d’emergenza, ma ormai non c’era più nulla da fare. La motrice investe l’uomo alcune decine di metri poco dopo la curva. È un tonfo sordo, orribile e improvviso, e diversi schizzi di sangue vengono spruzzati in un lampo sul vetro. L’uomo scompare istantaneamente sotto la motrice come un bersaglio del tiro al centro del Luna Park, e una cosa marrone e rettangolare vola via.
Quando il treno si ferma, il macchinista scende titubante la scaletta con un’espressione inorridita sul volto e lo stomaco serrato. Gli tremano tutti i muscoli e ha una paura folle di ciò che potrebbe vedere. Solo un’occhiata rapida per assicurarsi che sia successo davvero, si ripete, e poi sarebbe subito risalito a chiamare i soccorsi e ad avvisare le stazioni. Il treno è vuoto quindi non deve affrontare lo sguardo di nessuno passando lungo la sfilza di finestrini illuminati.
Fuori, fogli di documenti si sparpagliano nell’aria stantia e, tra i tanti grigi, anche un disegno colorato, uno di quelli stilizzati che fanno i bambini, si deposita sul margine della rotaia.
Avanzando, il macchinista pensa a quel poveruomo: chissà cosa aveva provato, e cosa aveva pensato un attimo prima di essere investito...
Si dice che quando un uomo sta per morire gli passa tutta la vita davanti come un film. Così si dice.
FINE
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