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Mani nude
Presi le chiavi di casa ed uscii. Era troppo, ero stanco, stufo, quasi ammalato da tutto quello che mi circondava. Fuori nevicava. Non era una cosa usuale. L’ultima nevicata l’avevo vista più di dieci anni prima. Assurdo, pensai. Così era, tutto totalmente assurdo. Lasciai stare la macchina e decisi di andare a piedi. Passeggiavo lungo il marciapiede, isolato dopo isolato. Le vetrine splendevano di gioielli visivi unici, pura merce da rogo. Vedevo le loro facce entusiaste, felici, dinanzi a quell’orrido spettacolo del vuoto. Li ignoravo, proprio come facevo una volta. Sì, perché le cose in un certo qual modo erano migliorate. Sembra assurdo ora dirlo, ma quasi mi sentivo guarito da una lunga ed estenuante malattia. In quelle ultime settimane non facevo altro che pensare a tutto quello che mi era successo. Pensavo al mio passato, alla mia infanzia, all’adolescenza, a tutte quelle stronzate. I pensieri viaggiavano nella mente sempre più velocemente. Non avevo il tempo di rendermi conto di come le cose procedessero, ero così ipnotizzato dal passato che avevo gettato via il presente e, forse, anche il futuro. Assurdo, no? Ero completamente immerso in un mondo che ormai non esisteva più e che non aveva motivo di esistere. Passai diversi giorni a piangere e a bere. Non capivo più nulla. Il tempo trascorreva in modo inverosimile. Pazzesco, tutta la mia vita, il mio povero diario di esperienze, tutto folle e tutto immerso in un frullatore di ricordi. Qual era il passato e quale fosse il presente, non lo capivo proprio più. Fu allora che presi la decisione delle chiavi. Questa storia doveva finire in un modo o nell’altro. Il solo fatto di svegliarmi ogni mattina tra quelle quattro mura che una volta mi erano nemiche e oggi ostili, era troppo per me. Stanco io, stanco il fegato. Per troppo tempo i fumi dell’alcool mi avevano confuso. Vivere immerso nel disordine mentale non è affatto semplice. Sfido chiunque a correre e a chiudere gli occhi per poi riaprirli e di nuovo chiuderli. Che casino, un gran bel casino. E io correvo, correvo verso il mio essere, verso il mio passato. Lentamente non facevo altro che piegarmi verso l’interno. Insomma, stavo implodendo. Già, stavo. Perché poi presi le chiavi in mano e me la filai.
Dopo aver percorso diversi isolati, decisi di fermarmi in un bar. Era un posto comodo e confortevole. Luci calde e scure, dal tocco rilassante. Poca gente, tavoli liberi e il barman era una persona a modo. Chiesi un caffè e presi una ciambella. Era da qualche tempo che non mangiavo e bevevo quella roba. Ero annegato nell’alcool dei ricordi. Dannazione, non potevo continuare ad andare avanti così, senza lavoro, senza nessuno che mi correggesse. Restai lì seduto per una decina di minuti a mangiare la mia ciambella e a bere il caffè caldo. Vedevo persone andare, persone che si sedevano, altre ancora che litigavano per un qualcosa d’indefinito. A pensarci bene oggi, forse avrei fatto ad aprire la finestra. Un po’ di aria fresca, magari avrei potuto affacciarmi e vedere le persone che passavano nel loro lungo scorrere. No, la malattia non me l’ha permesso. Ora che sono quasi libero è facile dire queste cose. Lessi qualche pagina di giornale, un quotidiano che non avevo mai sentito nominare. Solite cose, solita noia. Pagai lasciando una lauta mancia e me ne andai. Fuori faceva un freddo cane rispetto alla calda temperatura del bar. Sentivo la necessità di rientrare in quel posto, di tornare nella tana e riscaldarmi perché lì fuori faceva troppo freddo, c’era troppa paura per le strade. Così mi feci coraggio e proseguii nel mio viaggio. Ah, dove stavo andando? Non lo sapevo. Ancora oggi non mi è chiaro quello che combinai quel giorno.
Comprai una sciarpa e me la legai bene al collo. Guardai le mani fredde e screpolate. Avevo bisogno di un paio di guanti. Non riuscii a trovare nessuno che vendesse guanti. Tra le strade le persone avevano le mani ben coperte ed io, invece, ero un povero cristo lasciato a morire di freddo. Giravo dappertutto senza capire niente. Volevo solo che le mie mani fossero riscaldate. Niente, non trovai niente. Quasi pensai di rubare un paio di guanti a qualche passante. Troppa fatica, troppo pericolo. C’era il rischio che qualcuno mi riempisse di botte. Non capivo, come potevano capire? Sentivo freddo e volevo solo riscaldare le mie mani. Niente di più, nulla di così assurdo. Beh, nulla e assurdo, due parole molto forti. Insomma, la giornata proseguì in questa folle speranza di trovare un paio di guanti ma credo che fin qui si sia capito. Credo di essere stato abbastanza chiaro quando dico che ero alla ricerca di un paio di guanti per le mie nude mani. Ok, ho capito, sto esagerando. Pazienza, ogni tanto tocca dare d’immaginazione e di estremismo. No, meglio non usare queste parole, qualcuno potrebbe fraintendere oppure rabbuiarsi perché mal usate. Fottetevi.
Il freddo mi stava entrando fin dentro le ossa. Perché non tornare a casa? In fin dei conti sarebbe stata la cosa più ovvia e più semplice. No, io dovevo perseverare in quella folle impresa. Avevo pochi soldi, giusto quello che mi era rimasto dall’ultimo lavoro. Il naso gocciolava come un rubinetto rotto. Dai, questa la potevo evitare, vecchia come il cucco. Purtroppo è la verità, colava e, con le mani ghiacciate e quasi rotte, cercavo nelle tasche del cappotto un fazzoletto.
Era troppo, tutto quel quotidiano che invadeva la mia mente era sul serio troppo. Dovevo reagire, fare qualcosa. Cosa però? Volevo tanto tornare a casa, sentirmi al sicuro tra quelle quattro pareti del cazzo, a disperarmi per un passato che non mi apparteneva più. Assurdo, un’unica semplice parola per descrivere quel folle desiderio di andare via. Credo di aver sbagliato. A cavallo di un secchio me ne dovevo andare. Comunque, ritornando a parlare di non so più che cosa…
Placare le mie ansie nell’andarmene, ecco cosa avevo pensato. Imprevedibile, vero? Non so. Neanche oggi, dopo tanti anni, riesco ad avere un’idea chiara di quel periodo. Non so. Ecco tutto. Non è un fatto d’ignoranza, di voler tralasciare qualcosa. Non lo so e basta. Le domande me le sono sempre poste e non ho mai ottenuto alcuna risposta. Ignoranza? A pensarci bene potrebbe essere. Continuò, però, a non esserne sicuro, c’è qualcosa di “magico” che mi sfugge. Eh sì, gli avvenimenti avevano preso una così brutta piega che era giusto andarmene. Lì avevo finito tutto quello che ci poteva essere da fare. Fine, questa è l’unica verità. Quante lacrime ho versato. Tutte stupide gocce di un passato che in realtà non mi apparteneva. Mancata elaborazione del lutto? Non credo. Nel corso degli anni le cose erano cambiate, il passato non mi faceva più paura. Eppure… ecco, c’è qualcosa che mi sfugge, che proprio non riesco né a capire né a percepire. Come mai? Dov’è che sbaglio? Dove non pongo il giusto perché? L’unica parola che conosco è “assurdo”. Tutta questa storia, tutta la mia persona. Sono buffo, storto, anche un po’ morto. Perché quella storia mi aveva scavato così tanto, aveva portato a galla ricordi ormai che credevo fossero morti. Beh, quel continuo scavare, giorno dopo giorno, mi stava uccidendo. E se non avessi preso le chiavi di casa? Se non lo avessi fatto? Beh, forse non starei scrivendo queste parole. Un solo tonfo alle mie spalle, la porta del mio appartamento che si chiude. Forse per sempre.
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