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Il titolo del farmacista
Don Peppe ovviamente non faceva miracoli, ma le sue opere assomigliavano ai miracoli più degli effetti dei sermoni di don Nicola, il parroco.
Don Peppe era l’anziano farmacista del paese. Avvolto perennemente da un odore di sigaro toscano, in una minuscola farmacia rurale color seppia anni ’50, don Peppe stazionava ricurvo dietro al bancone, mai in attesa di clienti. Quando qualcuno degli avventori apriva la porta della farmacia, dopo aver rispettosamente bussato come se entrasse in una casa privata, lui alzava la testa e puntava le mani sul banco, fino a baricentrarsi sullo sguardo del cliente e poi, con una lieve correzione, mentre questi si levava il cappello e cominciava ad articolare i saluti di rito, don Peppe dirigeva lo sguardo occhialuto sulla capigliatura del nuovo arrivato.
Dai tempi dell’università aveva una sola passione: le mescole. Diceva che la sua era passione per il mondo e che gli bastava quella (infatti non era sposato e, a sua detta, non aveva neanche altri vizi), perché ogni oggetto conoscibile è una mescola di elementi più o meno semplici, e che questi elementi, quando non si legano agli altri per diventare i cosiddetti composti, si parlano come ci si parla in un qualsiasi gruppo di conoscenti, con l’intento di alimentare simpatie o antipatie, amicizie interessate o meno, ritrovandosi sempre di più ad essere se stessi proprio in virtù della presenza degli altri. Lui, elemento esterno, osservava il progredire di questi rapporti fra elementi e a volte faceva da sensale, da attizza-fuoco e da imbonitore, a seconda dello stato d’animo in cui versava e, certamente, della bontà del sigaro toscano che si trovava a fumare.
Don Peppe riceveva spesso la visita di don Nicola. In paese, insieme ai maestri della scuola elementare, erano i soli che sapessero di latino, e questo li rimescolava in brevi ed intense partite a tressette al riparo del bancone, delle quali era segno e testimone il continuo oscillare del bilancino, ben visibile anche dall’esterno. Quando il bilancino tremava, nessuno osava dividere ciò che il latino aveva unito. E febbri, infezioni, dolori si mettevano rispettosamente in fila aspettando che l’effetto dei busso cessasse e si esaurisse come la vita di un pensionato, in una breve e meticolosa conta dei punti.
Quel giorno di novembre il parroco, che non aveva mai bussato alla porta perché poteva farlo dietro al banco, entrò bussando. E si levò il berretto da prete, come avrebbe fatto un qualunque avventore.
“Don Peppe, ci perdoni il Signore perché tu oggi esaudirai un mio desiderio che è figlio della vanità”, disse tutto d’un fiato, sedendosi poi esausto sullo scranno di legno già appartenuto al nonno di don Peppe, che da quarant’anni era lì in mostra e detestava essere mescolato con qualsivoglia sedere di persona stanca.
All’insolito evento il farmacista rispose con il solito atteggiamento verso i clienti soliti, cioè mettendo a fuoco la capigliatura del parroco e irrigidendosi dietro al banco, senza porre mano al mazzo di carte riposto nel cassetto degli stupefacenti.
“Don Nicola” - pronunciò con la voce roca di sigaro, senza mostrare la minima sorpresa " “non c’è bisogno che mi chiediate niente perché il peccato voglio commetterlo da solo, senza la vostra istigazione, che vi sarebbe causa di peccato”, e gli si avvicinò. So quello che vi angustia ed asseconderò la vostra vanità chiedendovi di assecondare la mia. La vostra soddisfazione sarà solo un effetto secondario, non voluto da voi, della mia soddisfazione”. Lo sollevò dallo scranno e gli sussurrò all’orecchio: “Vi chiedo solo di assolvermi dal mio peccato senza troppe domande, a cose fatte”.
“Ita sit” sospirò il prete animato da immensa fede nei carismi di quell’uomo.
“Quello che vi chiedo” " riprese don Peppe ad alta voce riguadagnando il retro del bancone " “è di prestarvi alla dimostrazione che ogni problema trova soluzione stabile solo ad opera di una mescola transeunte. Mescolerò il vostro capello con il mio miscuglio e vi si ripopolerà tutto il cuoio capelluto”. Gli impose le dita sulla cotenna e, con un gesto che pareva benedizione, lo invitò a tornarsene serenamente in canonica.
Nei giorni successivi don Peppe non aprì la farmacia. Lui era dentro e tutti lo sapevano, ma nessuno osava bussare, con sommo gaudio delle emorroidi dei cafoni dediti al peperoncino, dolenti e in fedele attesa dello scadere di quella sospensione a divinis, che il parroco doveva aver comminato al farmacista per chissà quale peccato di accuso.
Don Peppe si alzava presto in quelle giornate, era diventato addirittura nottambulo. Sgranava tra le dita la terra del vaso del prezzemolo, passava al mortaio il legno tarlato e masticava aglio e cenere di sigaro fumato. Poi, chiuso nella farmacia, faceva oscillare il bilancino rimanendo invisibile come durante una partita a tressette. Lo guidava lo spirito della miscela. Lui solo riusciva ad ascoltare la voce dei vari elementi che si parlavano, si blandivano, si dileggiavano e si stringevano la mano solo per provarne la sensazione, mai per lasciare traccia di una promessa a vita o addirittura in aeternum. Aveva incluso, in questi elementi, un capello del prete, l’unico ancora robusto fra un cespuglietto di peli esangui, poi che don Nicola ebbe dato a questo l’ultimo saluto, con un doloroso sospiro. Da ultimo, aggiunse un pezzetto di copertina di un suo vecchio libro: Il titolo di farmacista. “Il titolo deve parlare con gli altri elementi” pensò don Peppe, perché ogni titolo è una porta aperta che fa passare chiunque lo voglia, legandosi solo per un momento”. E lo aveva passato al mortaio con le spoglie mortali dei tarli della sedia, con la radice del capello, cui era rimasto involontariamente vicino un flebile pelo trasparente, con il prezzemolo crudo lavato con acqua di stagno e con l’ortica lessa, estirpata dal vaso notturno che doveva ospitare solo il prezzemolo.
Don Nicola passava di lì tutte le sere, ma non osava più bussare alla porta della farmacia. Si preoccupava però, passando, di levarsi il berretto, giusto per pochi metri, a ricordare al miracolante la tacita preghiera che gli era stata rivolta. Poi si allontanava furtivo, accennando un segno di croce che lo confermasse nella grazia di Dio.
“Non potrò farlo una seconda volta” " gridò finalmente don Peppe dall’interno, in una nebbiosa sera invernale, avendo visto sgusciare l’ombra di una calvizie canonica. Don Nicola si fermò e aprì la porta, in trepida attesa del resto del discorso.
Ma non sentendo altro, né vedendo il farmacista, fu lui a parlare, ad alta voce: “Repetita iuvant, caro don Peppe, e potrai giovare a tanti che soffrono per la mancanza di capelli”. Non ricevendo risposta, alzò il tono di voce e cominciò a scandire le parole, con pause sempre più lunghe: “Ed anche a te stesso, che diventerai famoso e ricco, per grazia di Nostro Signore… e per il beneficio di tanti poveri che potrai aiutare… con i soldi che avrai guadagnato…con questa grande scoperta… miracolosa”.
Ancora nulla dall’altra parte del banco, né dal retrobottega.
Don Nicola si avvicinò circospetto al banco e osservò il bilancino ancora sporco di elementi miscelati. Notò che nel cestino della cartaccia, solitamente vuoto, c’era ora il noto mazzo di carte napoletane. E, dietro al banco, don Peppe troneggiava trasfigurato sullo scranno del nonno, con un ghigno che era un composto di inorridito e fiero ed entrambe le mani irrigidite fra i capelli.
“Sic transit gloria mundi”, pronunciò sommessamente don Nicola.
“Transeat, senza sostare”, ebbe il tempo di dire don Peppe, prima di rendere l’inquieta anima al Signore, aureolata di capelli smaglianti e salvata senza volerlo, per un pelo.
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0 recensioni:
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- Don Peppe convive con la stagnazione, ma ne è assolutamente distaccato, inseguendo il suo personalissimo ideale di fluidità reversibile (mescole sì, composti no) sino alla sfida estrema, la miracolosa ricrescita dei capelli del prete. Un "pelo" lo redime dal suo peccato di egoismo: il cercare di evitare il peccato di don Nicola. Racconto multiforme ma labirintico, la cui lettura richiede pazienza ed una certa dose di benevolenza nei confronti dell'autore.
- bene ora posso togliere la testa da quel posto orrendo...
- Nel tressette a due non si striscia, non si bussa. Evidentemente, non era a due. N
- mi sento tanto tonto... striscio anzichè busso
- Sì Cesare... ora aspetto il tuo affondo! N
- eh eh Nicola, il tuo commento a tressette sul mio Emiliano, mi suona come un messaggio "sublimale"...
- Massimo, perché non chiedi al Centro da cui tutto procede di trovarti questa facile risposta? Quando è comodo ovviamente...
- Caro Cesare no, quello del sigaro toscano non è un vizio... giammai! Io stesso ho fumato il toscano e me ne sono staccato senza problemi, quando ho voluto. Nella visione di don Peppe invece i vizi sono rappresentati dagli oggetti, dai fatti e dalle persone che ti legano in un 'composto' da cui non riesci a liberarti perché diventa un tutt'uno con te. Questo era il suo peccato: l'individualismo, la sterilità, finché... Ma ora vengo all'aiuto per la risoluzione del mio indovinello. L'individuazione dell'errore è alla portata di quasi tutti (forse un po' più degli uomini che delle donne) e non riguarda le frasi in latino. Ciao. Nicola
- Ciao Nicola sono a caccia dell'errore. Ho letto al terzo capoverso che don Peppe non ha vizi... e quel profumo di sigaro toscano che aleggia nella farmacia che è? Per ora cerco l'errore più superficiale e se non lo trovo mi addentrerò nei meandri oscuri delle citazioni latine... con un aiuto indispensabile...
- Puo' darsi, puo' darsi... beh, non sarai illuminato ma abbagliato sì, mi pare... Sei un buon affabulatore, ma non c'è lo sviluppo di un ragionamento in quello che scrivi. Allora che vuoi fare, accetti di discutere su quello che scrivi tu e quello che scrivono gli altri, o preferisci continuare a leggere la tua personale Bibbia, un capitolo a caso così dove capita?
Anonimo il 20/07/2009 12:53
Io non sono affatto un illuminato, né mi sono mai spacciato di esserlo. Benché ci siano molti modi di essere risvegliati alla realtà dello spirito, almeno tanti quanti sono gli esseri, e alcuni di questi modi siano quasi immediati in conseguenza dell'influsso spirituale, non è lecito confondere il risveglio con l'illuminazione che è la sua meta, anche se remota. Non è nemmeno vero che il risveglio, o addirittura l'illuminazione, non abbiano bisogno di logica, perché essendo condizioni che si riferiscono e aprono all'universale ne condividono, di conseguenza, anche la totalità. Totalità che implica una discesa dell'Intuizione spirituale anche nel dominio della ragione, alla quale è riservata la possibilità, e anche la necessità, di ordinare sequenzialmente l'ordinabile e il comunicabile di quel conoscere, allo scopo di non escludere nessuna parte della natura umana da questa esperienza, natura che è immagine e conseguenza dei principi universali tanto quanto lo è l'intero cosmo.
- Ops, mi sono accorto che il racconto contiene un errore macroscopico. Non lo correggerò né dirò di che genere di errore si tratti, aspettando che qualcuno se ne accorga. Nicola
- Senza scomodare la fede di Madre Teresa, quando dico "in buona fede" intendo che non sei un imbroglione in cerca di adepti, ma semplicemente uno che crede in quello che dice e spera di provocare l' 'illuminazione' di qualche altra persona.
Quanto alla logica, essa è uno strumento essenziale per costruire modelli della realtà. Non si può fare a meno della logica nella ricerca scientifica. Le "illuminazioni" non hanno bisogno della logica, ma se vuoi discutere con un'altra persona, anche di illuminazioni, la devi usare.
Veniamo infine al polpo. Sempre polpo è, ma una volta ben sbattuto si ammorbidisce e assorbe meglio il sugo. Così io spero che piano piano tu riesca ad assorbire il sugo dei tuoi simili, oltre che continuare a cuocerti nel tuo brodo.
Anonimo il 20/07/2009 11:57
Quando un polpo è un vero polpo, anche dopo essere stato sbattuto continua a essere un polpo che non cambia la propria consapevolezza da polpo, ma solo la trasferisce sul bancone di una pescheria.
Anonimo il 20/07/2009 11:28
La fede è relativa, e ha le sue gradazioni al punto che persino Madre Teresa ha dubitato. Io non sono una persona di fede, né buona né cattiva. Dall'altro lato sono anche consapevole che la sfera riservata alla ragione è recintata dalla logica, la quale è vera nella misura in cui sono veri i principi dai quali si svolge. Ma la verità contiene la logica e non il contrario, per questo alla logica è negata la possibilità di contenere tutta la verità.
- Nessun livore Massimo, nessuna antipatia, anzi... Sei un santone in buona fede, per questo continuerò a sbatterti come un polpo... N
- Bellissimo racconto Nicola. Anche io come il Don, ho qualche problemuccio e concordo:
repetita iuvant...
ciaociao
Anonimo il 20/07/2009 11:00
È giusto io ti informi che l'ostilità mostrata, verso la conoscenza che espongo e che non mi appartiene, proprio perché non è mia non mi ferisce. Avversandola non neghi un'intelligenza individuale e modesta come è quella che mi assilla, ma tenti di ridicolizzare quella universale, che è la genitrice anche della tua. Ciao anche a te, ma senza epiteti né antipatia. Non potrei permettermi di nutrire un simile sentimento per la quasi totalità di un'umanità che ancora mi stinge tra le sue schiere, anche se in una posizione scostata dai ranghi.
Anonimo il 20/07/2009 10:52
Il commento era per te, non per gli altri lettori, e il termine "dono" non voleva essere un complimento, dal momento che, essendo un dono, non te lo sei cercato. Mi chiami santone perché ti sei accorto che non nutro, a differenza tua, livore nei tuoi confronti? O solo perché hai un'idea spregevole dei santoni e me la vuoi affibiare gratuitamente?
- Massimo, lascia perdere i doni e commenta ciò che leggi, se vuoi. Possibilmente in modo comprensibile anche per gli altri lettori. Ciao santone. N
Anonimo il 20/07/2009 09:07
Ahh... ma sai scrivere allora... peccato non poterci infilare, legata al dono che hai, anche dell'obiettività intellettualmente disponibile...
Anonimo il 20/07/2009 00:53
molto bello e ben scritto
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