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Jhona e la goccia
Era una giornata piovosa... un'infinità di gocce scendevano sul vetro di quella finestra. Una in particolare colpì l'attenzione di Jhona:fermò il suo sguardo proprio su quel piccolo accumulo di acqua che andava via via gonfiandosi, caricando nel suo nucleo tutte quelle gocce che si trovavano sulla sua verticale e che non riuscivano a restare aggrappate alla superficie liscia del vetro. Lampi di luce la rendevano brillante e ad ogni tuono vibrava, quasi volesse lasciarsi andare. Jhona continuava a fissarla, curioso... sembrava stesse cercando una relazione tra quella goccia e la sua vita. Troppi mesi erano passati dall'ultima volta che lo avevo visto sereno, la sua stabilità psicologica era stata massacrata dal buio di quel periodo. Tanti, viste le sue condizioni, lo avrebbero etichettato come uno stupido, un pazzo... non io... non io che lo avevo conosciuto quando era lui il sole per tutti noi.
Ora si trovava lì, immobile... non era ciò che voleva, lui avrebbe voluto esserci, nel vero senso della parola. Si, semplicemente esserci. Ma la stanchezza gli impediva qualunque tipo di reazione. Era cementificato nel suo io, ingabbiato dalle sbarre di una mente opaca, che gli negava la vita comunemente intesa. Fuori la pioggia continuava a danzare, spinta dal vento, prima verso il magazzino del vecchio Lucas, poi verso la casa di Nadine... Il suo suono era morbido e ruvido allo stesso tempo, un po' come la parola "scrosciare". Jhona puntò un dito verso l'esterno... ero convinto che stesse per indicare il ragazzo di Nadine, appena rientrato dal lavoro nel suo impermeabile beige, per attirare la sua attenzione... invece no. Puntò il suo polpastrello sul vetro, in prossimità della goccia e cominciò a fare un piccolo cercio intorno ad essa. La superficie fredda del vetro, a contatto con il dito caldo di Jhona, si appannò. Intorno al cerchio disegnò qualche piccolo segmento... il sole.
Una goccia di pioggia e il sole... La prima piccola e destinata ad un esistenza brevissima, il secondo immenso nelle sue dimensioni ed infinito nella sua vita..."il destino delle cose". Jhona aveva appena disegnato intorno a ciò che attualmente era, quello che era stato in un passato nemmeno troppo remoto... Questa fu la cosa più immediata che mi venne in mente. Ma riflettendo meglio c'era un'altro modo per interpretare il suo "disegno":Jhona stava cercando un sole che potesse proteggerlo, un luogo "con cui vivere", una persona "nella quale trovare accoglienza".
... mi venne da sospirare profondamente nel vederlo così. Non era questo il mondo che poteva donargli ciò che tanto desiderava. Forse solo lottando avrebbe potuto soddisfare la sua voglia di esserci. Ma come pretendere da una persona che aveva un passato come il suo, un ulteriore sforzo per la realizzazione di un sogno?
Mi ricordo di quando ancora aveva voglia di parlare, e proprio parlando di sogni un giorno mi disse:
"Ormai ogni bel sogno diventa un incubo quando mi sveglio... Prova ad immaginare un persona paralizzata, e pensa a quante volte nei propri sogni questa persona si vede nel pieno delle sue capacità motorie... in quel momento di inconsapevole felicità costui non sa di dormire e quindi non pensa alla realtà delle cose. È solo svegliandosi che confronterà il suo sogno con la merda di vita che è costretto a consumare ogni giorno... Maledico ogni singola notte in cui il mio cervello elabora queste illusioni ad occhi chiusi... perchè poi sono io a dover patire questa realtà ad occhi aperti!"... Non seppi rispondergli niente, un po' per codardia, un po' perchè ero coscente dell'inevitabile, e purtroppo inarrestabile, lento bruciare della sua esistenza.
Ma ora Jhona non parlava più... le sue ultime parole furono: "Oggi non ho voglia di uscire...". Quel giorno di maggio, con questa frase, aveva semplicemente rinunciato ad una passeggiata al parco, uno di quei tipici passatempi primaverili in cui indossi un paio di jeans, una maglietta, le scarpe da tennis e gli occhiali da sole e cominci a camminare sull'erba per l'inconsapevole gusto di sentirti vivo. Quando tornai a casa lo trovai affacciato alla stessa finestra di fronte alla quale si trovava in questo momento... e da allora fu "il silenzio".
La goccia, ormai troppo carica d'acqua, si lasciò cadere e il sole "di condensa" lentamente sparì. Lui chinò il capo con uno scatto improvviso e respirò affannosamente... poi chiuse gli occhi, serrandoli tra le palpebre strette all'inverosimile. Stava facendo di tutto per evitare che ne fuoriuscissero "goccie di lacrime". Era come se sapesse che intorno ad esse, sul suo viso, non avrebbe potuto disegnare lo stesso sole che pochi istanti prima aveva disegnato sul vetro.
Mi avvicinai a lui, e gli posai le mani sulle spalle. Non ci fu reazione al mio gesto. Istintivamente mi venne da dirgli le stesse cose che ormai da mesi ripetevo anche a me stesso: "... il passato può cambiarci, ma ormai lo abbiamo vissuto... il presente può ucciderci, ma siamo costretti a viverlo... il futuro... bhè, che il futuro si fotta, e che la vita non pretenda da noi quello che un destino migliore avrebbe potuto donarle. Il destino... quello sconosciuto fattore che tutto sa e tutto decide, che si fotta anche lui, dall'alto della sua equivoca onnipotenza...". Poi mi congedai, salutandolo come al solito, non porgendogli la mano, ma con 2 pacche sul petto, all'altezza del cuore: "Ciao Jhona...". Misi la giacca e me ne andai. Mentre sul pianerottolo aspettavo l'arrivo dell'ascensore, sentii soltanto le quattro mandate con cui chiuse la porta e con le quali rendeva inaccessibile al destino e a Dio, quello che era il suo mondo:una stanza, una mente massacrata, una vita bruciata... da qualcun'altro.
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