racconti » Racconti amore » Café Jan Neruda
Café Jan Neruda
Praha, Novembre 1989
Mi piace venire a rifugiarmi qui, vicino a Vyšehrad, nei luoghi delle mie origini, lontano dalla Grande Storia e dai palazzi che esibisco pochi chilometri più a nord di qui, là dove la Moldava è stata incoronata dalle impareggiabili arcate del Ponte Carlo, e dove domina l’altro castello, quello che tutti conoscono. Qui ritrovo la mia antica magia. È una magia selvatica, a tratti animale, che mi ha resa capace di conoscere, se lo voglio, ogni particolare della vita, ed ogni più recondito pensiero, di chi riesce a stuzzicare la mia curiosità. È una magia che funziona poco in questo mondo frenetico e triste. Sempre meno cuori credono nelle favole, e vorrei davvero che finisse bene, come le fiabe, questa storia che comincia da molto lontano, da un’epoca in cui il Café Jan Neruda aveva ancora l’aspetto e la grazia di una casa di bambole, con tanto di tovagliette ricamate e fiori sui tavolini.
Lì, nel Giugno del 1929, si incontrarono Alena Vávrová, e Sandro Biagi. Lei era molto bella, anche se aveva assassinato le sue chiome color miele bruno con un terrificante taglio alla garconne. Lui era un giovane studioso di storia dell’arte, e si trovava a Praga da due mesi, per una ricerca sulla pittura boema minore del XIX secolo.
Alena notò l’aspetto fascinosamente latino di lui. Sandro intercettò l’occhiata di lei, e, con italica prontezza, attraversò la sala, esordi, in un ceco quasi perfetto, con un
- Lei permette, signorina? –,
e si sedette di fronte alla ragazza. Lei permise, e, da quel giorno, non si separarono mai più.
Praha, Agosto 1979
La palazzina Liberty dove si trova il Café Jan Neruda non è più color avorio. Decenni di riscaldamento a carbone hanno stratificato sulla facciata una tinta grigio sporco. Forse non sono l’unica città al mondo alla quale questa tonalità si addice, ma mi piace crederlo, se non altro per cacciare la malinconia che mi pervade ogni volta che ripasso di qui.
Anche oggi sto per distogliere lo sguardo da quella fila di case bigie, ma noto, all’ultimo momento, una figura femminile che sta entrando nel locale.
Ho già visto capelli simili. Hanno il colore ed i riflessi di quel miele scuro, a volte quasi nero, che le api dei boschi ci donano dall’alba dei tempi, una tinta impossibile da copiare, per quanti intrugli si provino a mescolare per ottenerla.
Ho già visto fiori simili. La ragazza tiene, con entrambe le mani, un vaso di cristallo leggero come un soffio. Nel vaso, una rosa bianca, una rossa, ed una giallo pallido.
So che lei ha vent’anni, e che il suo nome è Alena, lo stesso di sua nonna materna. So perché lei si trova qui.
Alcune gocce d’acqua cadono sulle piastrelle opache del pavimento del locale, mentre lei, seguita dallo sguardo lievemente incuriosito dello svogliato barista, si dirige, verso uno dei tavolini. Alena si ferma, osservando l'uomo che, in quel momento, lo sta occupando, dandole le spalle. Lo sconosciuto ha i capelli un po' lunghi sul collo, forse più biondi di quello che la scarsa illuminazione lascia supporre.
La ragazza annusa le rose, e si fa coraggio. Gira intorno al tavolo, e si piazza esattamente di fronte a quello che, ora, è rimasto l'unico cliente in sala.
È un ragazzo, constatiamo Alena ed io, e lei ne è sollevata. Avrà tre -quattro anni più di me, pensa Alena, magari capirà. E'uno studente, quasi di sicuro, ipotizza Alena, alla vista del grosso volume aperto sul tavolo, e del blocco fitto di appunti dal quale, finalmente, il ragazzo alza uno sguardo neutro, che lascia trasparire un certo fastidio.
Stronzo, pensa Alena, mentre lui continua a fissarla, per un'altra lunghissima manciata di secondi, in quella maniera indecifrabile.
Sembra nemmeno si sia accorto che sono una donna, pensa Alena, che si sente troppo bassa e culona, e non si vede bella, ma si accorge quando gli sguardi degli uomini le soppesano la misura delle tette. Il sedere lo apprezzano, lei sa anche questo, anche quel vecchio porco del fioraio che le ha venduto le rose e il vaso.
-Dovrei sedermi al tuo tavolo – butta là, dura e brusca come ogni volta che si sente in imbarazzo, cioè quasi sempre.
- Non ho bisogno di compagnia – risponde il ragazzo, seccato – sto studiando. –
Forse non era questa la risposta da dare, dubita, subito dopo. Lei non ha detto “ vorrei “, ha detto “ dovrei “. Forse si è sbagliata, perché parla ceco con una cadenza strana, un poco strascicata, con un paio di accenti piazzati al posto sbagliato. Straniera?
- Veramente dovrei restarci da sola. – replica lei, e, questa volta, gli accenti sono giusti, ed il tono più freddo, un tono che significa, in tutto il mondo, ma chi è te ti si fila, a te.
- Proprio qui. – fa lui, percorrendo con un’eloquente occhiata il locale deserto.
- Proprio qui. – lei conferma.
Lui vorrebbe allentare la presa di quell’adunco artiglio di curiosità che gli sta stringendo la gola. Con fatica riesce a trattenere quel sorriso che rivelerebbe alla sconosciuta che lui si è accorto che lei è piccolina, ed a lui, stangone, non sono piaciute mai, che ha fianchi opulenti, ed a lui, secche, non sono piaciute mai, Con fatica riesce ad impedire al proprio sguardo di perdersi in quegli occhi mediterranei, che, ora, lo stanno apertamente sfidando. Sa che da quella sfida uscirebbe sconfitto, che lascerebbe trasparire l’oscura paura che gli gela la nuca con una carezza quasi seducente.
Viktor rialza le barricate, tampona la falla aperta nelle proprie difese. Senza proferire verbo, chiude il libro ed il blocco, li mette in una specie di tascapane, si alza, riallinea la sedia al tavolo con diligente precisione.
- Prego – scandisce con greve lentezza, e, prima di andarsene, batte i tacchi, ed esegue un inchino impeccabile che, agli occhi di Alena, appare esattamente per quel che è, un arrogante e sprezzante sfottò.
Alena vorrebbe pensare, nuovamente, “ stronzo “, ma, suo malgrado, pensa “ peccato “, mentre la porta del locale si chiude dietro a Viktor.
La ragazza colloca il vaso con le rose al centro esatto del tavolo, ed ordina due caffè. Turchi, specifica, non espresso.
Forse spera che il tipo ritorni, suppone il barista. E farebbe bene a tornare, pensa, guardando la ragazza che soffia lievemente per raffreddare il proprio caffè.
Fossi in lui non me la lascerei scappare una così, dice a sé stesso, una che è meno che bella, perché è bassetta, e ha i fianchi un po’ abbondanti, una che è molto più che bella, perché, quando l’hai guardata una volta, non riesci a toglierle gli occhi di dosso, magari, se butto una parola….
In quel momento lei finisce il caffè, e gli chiede il conto. Paga anche l’altra tazza, quella che è rimasta lì, intatta, a perdere aroma e calore.
Quando se ne va, si porta via anche il vaso di fiori.
“ Coglione “ pronuncia, fra i denti, il barista, rivolto a Viktor, ed un po’ anche a se stesso.
“ Coglione “ gli faccio eco, ma con classe, come solamente una dama come me sa fare.
Non è poi così coglione, mi correggo. Viktor ha approfittato di un portone lasciato aperto, e si è appostato nell’ombra. Fuma una sigaretta per darsi un contegno, ma aspira più nervosamente quando vede uscire Alena dal Café Jan Neruda. Mentre lei sale verso Vyšehrad, lui la segue a distanza, cercando le parole da rivolgerle, inventando e scartando decine di frasi.
Lei entra nel cimitero monumentale dove sono sepolti i grandi artisti, ai quali devo molta della mia gloria, ed una parte della mia anima. Sosta per qualche minuto accanto alla tomba di Jan Neruda, il sommo scrittore che ha saputo raccontarmi così bene. Con la solennità di un’antica sacerdotessa, depone il vaso sulla lapide.
- Ecco fatto, nonna – sussurra, ed esce dal cimitero.
Alena gironzola lungo le rovine delle mura di Vyšehrad, poi si ferma su una piccola terrazza. Guarda giù, verso la roccia dalla quale Horymír, in groppa al suo cavallo Šemík, saltò nella Moldava, e, con quel balzo ben oltre i limiti dell’impossibile, scampò ad un’ingiusta condanna a morte. Ricordo ancora com’era bello, mentre, sghignazzando, riemergeva, illeso, dalle acque del fiume, ricordo i suoi occhi azzurri, brillanti di gioia selvaggia, mentre lui fuggiva, incitando Šemík al galoppo.
Viktor si avvicina, si blocca ad un passo da Alena. Non sa come attaccare discorso, esita. E’lei che gli rivolge la parola.
- Secondo te – domanda, indicando la roccia, - si è buttato davvero?
- Conosci la leggenda – constata Viktor
- Mia nonna me la raccontava sempre – lei risponde, assorta.
Viktor tace, si chiede chi sia quella ragazza, da dove venga, di quale strano rituale sia stato strumento quel vaso di rose.
- Allora? – insiste Alena – Ci credi, o non ci credi? –
I due giovani si sono avvicinati l’uno all’altra, le loro mani si sfiorano appena. Il contatto è casuale, immediatamente interrotto. I loro sguardi, invece, rimangono avvinghiati.
- Se ascolto il mio istinto – risponde Viktor – ci credo. Poi, però, uso la ragione, e ci credo un poco meno. –
- Usi sempre la ragione? – mormora lei.
- No. Non sempre - ammette lui, appoggiandole un dito sulla guancia, seguendo l’ovale del viso di Alena con una lentissima carezza.
Dovrei ritrarmi, ora, di fronte a quel primo bacio che sboccia quasi timidamente, come le primule, e prende subito forza, diventa una sontuosa fioritura di rose. Dovrei, ma la mia vanità non resiste.
Sono stata cantata da poeti, dipinta da artisti, contesa da eserciti ma nulla valorizza il mio fascino come gli sguardi degli innamorati che, dopo essersi baciati, alzano gli occhi verso il mio cielo, e poi, tenendosi per mano, camminano per le mie strade meravigliandosi di ogni mio angolo. Ad ogni loro passo io rinasco, riacquisto la pura e spietata bellezza delle fanciulle, ad ogni loro promessa di eterno amore, io ritrovo le speranze e le illusioni che la Storia mi ha tolto quasi del tutto.
- Perché tua nonna non è andata in Italia? – domanda Viktor, quando Alena finisce di
raccontargli il primo incontro dei suoi nonni, e i primi tempi del loro amore.
- Mio nonno era un antifascista – risponde Alena – e i dirigenti della sua organizzazione gli hanno fatto sapere che era ricercato, che rischiava la galera, o peggio. Così ha trovato lavoro in un museo, ed è rimasto qui. Anche mia madre è nata qui. È cresciuta perfettamente bilingue, ha fatto da interprete a un gruppo di italiani, e ha conosciuto mio padre ~.
- Allora è stata lei a trasferirsi in Italia? –
- Sì, lei. Io sono nata a Milano, ma sono venuta a Praga ogni estate a trovare i nonni ~.
- Dove abitano i tuoi nonni? –
- Non ho più i nonni – risponde Alena – mio nonno è morto due anni fa, e la nonna … - la nonna tre giorni fa.
- Mi dispiace – risponde Viktor – Non potevo saperlo. Scusami se…
Non sa che dire Viktor. Di fronte alla morte le parole giuste vengono a mancare.
- Tua nonna … ehm… ha a che fare con quel vaso?
- Era il suo ultimo desiderio – risponde Alena – mi ha domandato di comprare un vaso e le rose, di andare al Café Jan Neruda, sedermi al tavolino nell’angolo in fondo a sinistra, mettere i fiori davanti a me, e ordinare due caffè, in memoria del giorno in cui ha conosciuto mio nonno. Infine dovevo portare i fiori sulla tomba di Jan Neruda.
- E come faceva tua nonna – domanda Viktor – a sapere che il locale esisteva ancora, e che c’era un tavolino nella stessa posizione? –
- Ha controllato, prima – risponde Alena – era un tipo preciso.
Grazie, signora tipo preciso, pensa Viktor. La storia della famiglia di Alena si è intrecciata con i “ t’appartengo “, sussurrati prima di baciarsi ancora, e ancora, si è fusa con i “ per sempre” ripetuti lungo il cammino che ha portato Viktor ed Alena dapprima fuori da Vyšehrad, poi verso quella periferia, non più campagna, non ancora città che segna i miei confini.
I due giovani si fermano di fronte alla porta di una delle poche casette singole sopravissute fra file e file di casermoni.
- Io abito qui – dice lui, e la voce gli trema, mentre aggiunge – I miei sono in vacanza.-.
- Non mi inviti a bere qualcosa? – risponde Alena, piano.
Praha, Novembre 1989
Riconosco all’istante quei capelli anche fra la moltitudine che, in questi giorni gremisce le strade e le piazze, agita mazzi di chiavi, coltiva l’ennesima delle speranze che ho visto nascere e morire, combatte, questa volta senza sangue, l’ennesima delle battaglie che ho visto vincere e perdere.
La chioma, sciolta sulle spalle, è un poco più corta, un poco più ordinata, ma sempre di quel color di miele di bosco. Alena è un poco dimagrita, ma molti uomini si dimenticano di essere protagonisti di uno storico cambio di regime, e smettono di inneggiare a Václav Havel per scambiarsi commenti su quei fianchi mediterranei.
Se solo, ieri sera, pensa Alena, se solo ieri sera che so, mi fossi alzata a rispondere al telefono, non avrei visto il primo piano del viso di Viktor, in diretta da Praga sul tiggì nazionale, edizione delle ore diciannove, ed era una diretta di sicuro, perché, fosse stato un servizio registrato, non avrebbero mandato in onda un tizio che si piazza alle spalle del cronista, e urla – Aleeeenaaaa, ho divorziatooooooo!!!! Ti amoooo! - con tutto il fiato che ha in gola, e il “ ti amo “, a scanso di qualunque equivoco, lo urla in italiano. Se solo la mia amica Martina facesse, che so, l’impiegata al catasto, e non la giornalista in folgorante carriera per una testata nazionale, la mia immediata telefonata si sarebbe risolta in un nostalgico sfogo, e lei non mi avrebbe detto – cavoli mi hai beccata per un minuto, sto andando proprio a Praga, sta succedendo di tutto, là -, e io non le avrei risposto – vengo anch’io – ma buttandola lì, come uno scherzo. Se solo Martina non fosse un’amica vera, di quelle che ti capiscono più di quanto tu capisca te stessa, non mi avrebbe proposto:
- Se hai il passaporto in regola, e se ti spicci, passo a prenderti. L’aeroporto è chiuso per nebbia, a Praga ci vado in macchina, mica me lo perdo questo incarico, così ci diamo anche il cambio a guidare ~.
- Ma ci vuole il visto – ho fatto notare
- Per il visto un modo lo troviamo – ha obbiettato lei – intanto arriviamo almeno alla frontiera. Mica ho girato mezzo mondo per niente – ha concluso.
Allora ho cominciato davvero a pensare che il destino mi stava dando segnali impossibili da ignorare, perfino la nebbia ci si era messa, e ho detto, - Ok, Martina, ti aspetto -, ho buttato due cose in uno zaino, ho arraffato il passaporto e tutto il contante che avevo. Almeno arrivo alla frontiera, come ha detto Martina, e se non mi fanno entrare pianto un casino, altro che carri armati russi nel ’68, io lo passo quel confine, costi quel che costi, perché Viktor è di nuovo libero, e mi ama ancora, anche se l’ho lasciato come una stronza, anche se lui, a ben vedere, ha ricambiato alla grande.
Ero restata con lui, mi ero fatta ospitare da una cugina di mia nonna, e all’inizio mi sembrava tutto meraviglioso, amavo Viktor, lui amava me, e questo mi aveva resa cieca e sorda a qualunque dubbio. Mentre io mi perdevo nei sogni, lui aveva agito, aveva mosso un pezzo grosso dell’ufficio immigrazione per mettermi in regola a tempo di record, aveva convinto i suoi genitori a lasciarci la stanza che era rimasta libera quando il fratello di Viktor si era trasferito, per lavoro, dalle parti di Brno, mi aveva perfino trovato un posto in un negozio di cristalleria in pieno centro storico, cercavano qualcuno che parlasse italiano.
Tradotto, dovevo fare la commessa, e vivere con i miei suoceri, cosa che si presentava assai spinosa, dato che la madre di Viktor aveva già lasciato cadere qualche commento sulla mia inettitudine per qualunque lavoro domestico, e sulla mia italica passionalità, probabile fonte di infedeltà coniugali.
Me la sono fatta sotto, lo ammetto, e sono scappata come una ladra, senza nemmeno avere il fegato di dirglielo in faccia a Viktor, piantandolo dalla sera alla mattina con un biglietto “ Ti amo tanto, ma devo rifletterci. Scriverò “.
E ho scritto, dopo tre mesi, il tempo di capire che non ce la facevo a vivere senza di lui, e per fortuna che ho aspettato la risposta, prima di fare le valigie. Per poco non ci sono rimasta secca, quando ho letto che lui aveva un’altra, che la aveva messa incinta, e che stava per sposarla. Credo di essere sopravissuta solamente grazie alla rabbia, e ho tirato avanti, per dieci anni ho tirato avanti, ma che tipo attivo è Alena, dicono di me, perché da dieci anni mi invento ogni sorta di impegni, perché da dieci anni, ogni volta che mi fermo, mi chiedo se mi appartiene davvero, questa vita.
Abbiamo fatto Milano –Praga in nove ore, dogane comprese, contro le normali dodici, tempistica da Formula Uno, nonostante il nebbione nel tratto iniziale del percorso.
Al confine cecoslovacco sono stati velocissimi, un’occhiata ai passaporti e via, i visti non li hanno nemmeno chiesti, dovevano smaltire in fretta almeno tre chilometri di macchine, anche se era notte. Il mondo intero, in questi giorni, vuole venire qui, a Praga, a vedere cosa stanno combinando con questa Rivoluzione di Velluto.
Siamo arrivate in albergo alle cinque di mattina, meno male che la redazione aveva prenotato delle camere, volevo partire subito alla ricerca di Viktor ma Martina mi ha imposto di dormire almeno un’oretta, e poi di mettermi un po’ decente, mica ti fai vedere da Viktor conciata così, ha detto, e aveva ragione, perché, guardandomi allo specchio, mi sono chiesta se quel rottame con borse da mezzo metro sotto gli occhi fosse davvero la stessa donna che, ieri sera alle sei, era uscita dall’ufficio in cappottino sciccoso e tacco dodici, ed era corsa a casa a cambiarsi, perché alle otto e mezza doveva uscire a cena in un locale trendissimo con il fidanzato debitamente strafico, e debitamente danaroso, perfetto esemplare di gioventù rampante di questa fine anni ’80.
Continuo a seguire Alena mentre lei si fa largo, ed esce da Piazza San Venceslao.
Non lo troverò mai, qui in mezzo, pensa. Ho fatto un casino, sono partita lancia in resta, mi sono bruciata i ponti alle spalle, e, adesso mi ritrovo con il nulla davanti. Porca vacca, hai trent’anni Alena, è ora di crescere, forse, se trovi un qualunque mezzo per tornare a casa fai ancora in tempo a rimettere tutto a posto, il tuo fidanzato ti perdonerà, il tuo capo, magari crederà che hai avuto, che so, l’influenza, cosa speravi, che Viktor fosse ancora lì da ieri sera, ad aspettare te, e adesso dove lo cerchi? Al posto della sua vecchia casa hai trovato un altro di quei casermoni grigio tristezza, sull’elenco del telefono il suo nome non c’è, e adesso, cosa fai? Ti metti ad urlare “ Viktor “ in mezzo alla strada?
Alena arriva fino alla riva della Moldava, e cammina per un po’ in direzione di Vyšehrad. Poi si ferma, guarda l’acqua, e, a mezza voce, per non farsi sentire, per non passare per matta, chiede a quella pigra ed antica corrente:
- Tu, tu lo sai dov’è ? –
Il fiume non le risponde.
- Tu, tu lo sai dov’è ? – lei ripete.
Questa volta lo ha chiesto a me, ma nemmeno io posso parlarle, vorrei poterlo fare, vorrei che lei mi sentisse, perché io so dov’è Viktor, lo vedo, fermo nello stesso punto in cui lui ed Alena si sono scambiati il primo bacio.
Sono pazzo, pensa Viktor, guardando la roccia, sono pazzo, ma in questi giorni siamo tutti pazzi, ci viene da ridere e da piangere insieme, siamo tutti usciti dai nostri gusci, ci stiamo tuffando in questo bagno di libertà, e tutte le regole sono saltate, così, quando ho sentito uno che parlava italiano, da dieci anni mi giro quando uno parla italiano, l’ho guardato, mi sono accorto che aveva un microfono, che era uno speaker, e che di fronte a lui c’era una telecamera con su scritto Rai, Radiotelevisione Italiana, mi sono detto che in giorni come questi tutto è possibile, che, magari, la vita ti può perfino rimettere in mano le carte che hai sprecato, che, forse, Alena, in quel momento, lo stava vedendo quello speaker. Allora mi sono piazzato dietro di lui, ho tirato fuori tutto il mio fiato, ed ho urlato – Aleeeenaaaa, ho divorziatooooo! Ti amoooo! – sì l’ho urlato, perché è vero, io la amo ancora, anche se sono stato un coglione.
Dovevo avere pazienza, adesso che ho trentaquattro anni lo capisco che per lei non era facile, era lei che doveva cambiare vita, nazione, abitudini. Io, dopotutto, ero a casa mia, e non ho compreso che lei se ne era andata perché ha avuto paura, a vent’anni si crede di spaccare il mondo, ma in realtà si è spaventati da tutto come conigli.
Dovevo saperla aspettare, invece si è fatta avanti Zuzana, era da anni che mi faceva il filo, ed ha capito che ero vulnerabile, le donne hanno le antenne per queste cose, ed ha assunto il ruolo della consolatrice. Ci sono andato a letto, come un fesso, ma lei era bella, e un uomo non è fatto di legno, specie a ventiquattro anni, specie se si sente preso in giro e ferito nell’orgoglio.
La lettera di Alena è arrivata quando, da pochi giorni, Zuzana, aveva già scoperto di aspettare un figlio da me. Ho scritto ad Alena qualche riga fredda, secca, un taglio netto. Oramai era finita, l’avevo perduta. Che fosse colpa mia, sua, o di entrambi, non aveva più importanza. La mia vita doveva prendere un’altra direzione, sarei divenuto padre, la mia giovinezza è finita il giorno in cui ho imbucato quella busta con un indirizzo italiano.
Che ci faccio qui, più che pazzo, sto cominciando a sentirmi rincretinito, forse è perché ho sonno, ho passato quasi tutta la notte in piedi, ho fatto casino, discusso, e bevuto, con assoluti sconosciuti.
A casa ho dormito poco. Il monolocale dove vivo da quando Zuzana ed io abbiamo divorziato mi sembrava, improvvisamente, una cella, anche se, fino a ieri, mi ci trovavo bene, non è nemmeno lontana da dove vivono lei e nostro figlio, così posso andarli a trovare quando voglio, Zuzana non fa storie, il bambino non deve pagare le nostre scelte. Tre anni fa, quando la mia ex moglie si è innamorata di un altro uomo, non sono stato capace di portarle rancore. Non l’ho mai amata, e lei ha diritto di essere felice. Ci siamo lasciati senza traumi, da persone civili.
Sono arrivato qui quasi senza rendermene conto, senza sapere bene perché, forse per una specie di riflesso pavloviano, o per nostalgia, o per semplice voglia di farmi del male.
Sì, sei davvero scemo Viktor, magari quello speaker non era in diretta, e hanno tagliato la mia favolosa performance, oppure parlava in diretta ma Alena non stava guardando la TV, o, cosa più realistica e probabile, mi avrà anche visto, ma non le frega più niente di me.
O forse sì, forse mi ama ancora, tu che dici, Horymír, tu che ti sei giocato il tutto e per tutto in un secondo di grandiosa follia, hai scommesso la tua pellaccia, e ce l’hai fatta, amico, ce l’hai fatta, magari ce l’ho fatta anch’io, ieri sera, magari Alena mi ha sentito, e tornerà da me, perché una donna razionale, non pianta baracca e burattini per un urlo trasmesso in TV, una donna razionale non lo fa, ma Alena, Alena sì che ne sarebbe capace.
Sì, ma dove torna? La mia vecchia casa non esiste più, e da quasi due anni litigo con quelli dei telefoni per fare mettere sull’elenco il mio nuovo numero...
Calma, Viktor, calma, non sei sparito dalla faccia della terra. Se vuoi farti trovare da Alena, devi fare qualcosa di più costruttivo di grido attraverso l’etere, o di un monologo rivolto ad un tizio stramorto e strasepolto. Potresti tornare nel tuo vecchio quartiere, molte persone che ti conoscevano sono rimaste lì. Buona, idea, ci vado, e lascio l’indirizzo e il numero di telefono a un po’ di gente. E, visto che sono da queste parti, perché non provare a lasciare un messaggio al Café Jan Neruda? Sta cadendo a pezzi, quel posto, ma è ancora in attività, forse ad Alena verrà in mente di tornarci.
Anzi, ci vado subito. E tu, Horymír, fai il tifo, mi raccomando.
Anch’io faccio il tifo, vorrei dirgli. E, magari datti una mossa, vorrei dirgli, non osare cambiare idea all’ultimo momento, vorrei dirgli.
Alena ha continuato a camminare verso Vyšehrad. Nei suoi occhi noto, con piacere, un lampo battagliero.
Non sarà scomparso nel nulla, pensa Alena, adesso, bella mia, smetti di girare come una trottola impazzita, e ti organizzi. Intanto torni dove abitava Viktor, forse qualcuno si ricorda di lui, e chiedi in giro, invece di scappare in lacrime come stamattina, poi, visto che sei quasi a Vyšehrad, potresti fare un salto al Café Jan Neruda, e lasciare un messaggio, chissà mai che lui, ogni tanto, non ci capiti, sempre che quel posto sia ancora aperto.
Se lo è, mi ci bevo un bel caffè e mi tuffo nei ricordi. Quasi quasi, poi, faccio anche due passi al castello. Da sempre penso che quello sia un posto magico, così magico da farmi trovare Viktor oggi stesso, magari proprio al Café Jan Neruda, ma sarebbe chiedere davvero troppo alla sorte.
No, non sarebbe troppo Alena, vorrei dirle. Non scoraggiarti adesso, vorrei dirle, hai fatto la cosa giusta, vorrei dirle.
Avessi le dita, le incrocerei.
Avessi le dita, toccherei legno.
123456789
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0