Quello fu il tempo più intenso della mia vita, io di eserciti, armi, combattimenti al fronte non ne ho mai capito nulla, ne mai ebbi la curiosità di affrontare uno studio teorico-pratico in merito; mi ritrovai in veste ad una sudicia divisa e per di più con i piedi periodicamente immersi nel fango.
Questo, pensai, era un buon momento, l’artiglieria nemica si era calmata, avevo un estremo bisogno di mangiare, quanto di fumare, ma, siccome i rifornimenti al campo arrivavano sempre più di rado, “causa mal tempo” ogni uno di noi soldati, si arrangiava come poteva.
La mia tattica non era molto diversa da quella degli altri, consisteva nel raggiungere la prima trincea dove venivano sistemati feriti e non, approfittando della confusione generale facevo razzia nelle tasche dei morti.
Vi fu pure chi non si accontentava delle tasche dei morti, razziando o cercando di farlo anche in quelle dei feriti.
Per quanto riguarda me, dopo aver visto una scena da brivido proprio nella prima trincea, mi convinsi che fosse molto meglio approfittare del morto, piuttosto che rischiar la vita per le tasche di un ferito.
Ricordo che una mattina mi recai in prima trincea, la fame mi assaliva da ore, arrivato notai un “soldatino” così erano chiamati i nuovi al fronte, ebbene, questo con aria furtiva osservava un tale che vedendolo pareva più morto che vivo, il giovane soldato, tirato un sospiro d'incoraggiamento s’avvicinò al moribondo frugandolo rapidamente nelle tasche, non ebbe però il tempo di capire se in quelle, vi fossero delle gallette o del tabacco che egli stesso, si ritrovò con un coltello nell’orecchio.
Io, a vista di quella scena, preferivo le tasche di un morto, ed ascoltato lo straziante urlo di dolore del soldato, capì che i morti, altro non potevano fare che puzzare.
Bando ai cattivi; il campo era come sempre in preda al caos, vi erano uomini che gridavano, barellieri che facevano su e giù per la trincea e il fumo impestava l’aria, ma soprattutto fango.
Il fango era ovunque, da tempo ormai ero immerso in una paranoia riflessiva che gettava le basi ad un pensiero ricorrente: "il fango era stato la mia rovina".
Io sono nativo di Azul, paese che dista circa sei km dal fronte, da tre anni è governato dal Generale Calisto Combusti, famoso in paese per i suoi eroici discorsi da piazza; superiorità territoriale e legalità erano i suoi pezzi forti.
Discorsi, conoscendo il contesto, neanche negativi, se, non fosse stato lui a pronunziarli.
Combusti andò al potere dando un colpo al vecchio governo; una mattina accompagnato da altri quattro ben pensanti come lui, si recò a suon di trombe a Palazzo governo, fece sparire il vecchio governatore, occupandone il suo posto.
Per Combusti fu semplice, come scritto, raggiungere il potere, noi non siamo gente di rivolte che lotta per raggiungere chi sa che, tanto meno c’interessammo della nuova figura politica, però, sei mesi fa anche io, come il resto del paese, fui travolto dalla preoccupazione, il generale fece addobbare la piazza a festa, il fatto credetemi, era maledettamente preoccupante; ogni qual volta che Combusti faceva questo, si era obbligati ad osservare non uno, ma ben cinque maledettissimi minuti di silenzio, per venir meglio alla memoria di Donna Cadlena, protettrice dei raccolti e guardiana dei campi.
Nulla di vero in merito alla martire, perchè ben si sapeva in paese chi in realtà fosse la cara Cadlena, nonché una ladra passata alla storia, ma pur sempre una ladra; si narra, lungo i sentieri chiacchieroni del paese, che questa, una notte si recò fuori paese alla ricerca di polli e galline, quando, ad un tratto si accorse di non essere sola nei paraggi, preoccupata, si nascose dietro un muro di pietra, vedendo al chiaro di luna un uomo, che faceva quello che avrebbe dovuto fare lei. Quella visione, la irritò a tal punto, che senza minimamente pensare ai rischi, s’armò di bastone e con furia disumana, si scagliò contro l’uomo, colpendolo alla schiena.
Questo cadde, ma se pur dolorante l’afferrò per le caviglie, facendola a sua volta cadere all’indietro, gli mise le mani attorno al collo e senza neanche accorgersene la strangolò.
Il postinaro notturno, addetto al trasporto della corrispondenza da un paese all’altro prima che facesse giorno, vedendo la scena, scese dalla bicicletta, impugnò la propria arma ed incominciò a sparare sull’uomo, smettendo, solo, quando, udì l’urlo straziante di questo.
A quel punto il postino fece ritorno in paese gridando come un’aquila:
-Donna Cadlena è morta nei campi sventando un furto!.
Il mattino seguente i Combustiani, con una cerimonia coloratissima, ricompensarono con la refurtiva di una gallina e due polli il postinaro, innalzando Cadlena sul trono della mitologia paesana.
Torniamo a noi, quella mattina il Generale non fece riunire il paese in piazza per la famosa ladra, ben sì per metterci al corrente della sua nuova trovata.
Da tempo Combusti puntava il dito su Domenici, piccolo paese portuale a sei km d’Azul, nessuno però poteva immaginare, che proprio quel giorno sarebbe, con sua tipica autorità, arrivato a dichiarare guerra al confinante paese.
-Popolo di Azul, da tempo ormai prendiamo decisioni tutti assieme, per meglio raggiungere il progresso collettivo del nostro intero paese, ma quella d’oggi è sicuramente la decisione più importante mai presa! Domenici da tempo specula contro di noi per il commercio via mare, soffocando le nostre idee di sviluppo economico; ma oggi, tutti noi, assieme, gridiamo basta a tutto questo, dichiarando guerra a Domenici!.
Il silenzio fu a dir poco imbarazzante, tanto che il Generale “lanciò”un’occhiataccia tale ai propri collaboratori, questi intimoriti, incominciarono a batter le mani con forza, e sempre più forza per incitare la massa confusa, assecondandoli un istante dopo con un applauso incessante.
Come sempre le decisioni le prese nuovamente lui e la sua banda di falsi pensatori, e a noi, non rimaneva che il compito forzato di leggere la storia così scritta.
Dopo aver udito l’inaspettata cazzata, tornai verso casa, la questione era semplice da capire, il nostro paese ebbe sempre legami commerciali con Domenici, se Azul voleva esportare via mare le proprie merci era obbligata ad osservare il pagamento di tasse commerciali, insomma, se noi avevamo il pane, loro avevano i denti.
A crear queste tensioni politiche non era il semplice commercio, ma, bensì, il contrasto dei traffici illeciti, Combusti pensando d’esser una vecchia volpe, approfittava del trasporto via mare, nascondendo tra le merci, armi d’ogni tipo, per poi rivenderle al contrabbando; questo così facendo, arricchiva i propri affari, entrando in competizione con i politici di Domenici.
Scoperto il misfatto nei loro confronti, i Domenicini, o meglio la politica, decise di bloccare tutto il commercio su mare a danno di Azul, abbandonando i due paesi ad un contrasto di tensioni.
Era chiaro, pensai, tutto si basava su divergenze politiche, il problema in questi casi non è mai la comunità, malgrado queste, possano contrastarsi per differenti visioni culturali, ma, mai e poi mai, daranno spazio a sfoghi dannosi, compromettendo la propria visione di vita, almeno che queste, come spesso accade, non si lascino inghiottire dalla politica, che come un cancro alla mente umana, esercita un potere fondamentale istituito sul dovere di superiorità, comportante lo sfascio di tutti i buoni ideali.
Rientravo casa, inutile stare lì a pensare, lo sviluppo delle situazioni era in mano ad un branco d’incapaci, ad un tratto udì provenire dal mercato centrale imprecazioni d’ogni tipo, cercai di capire cosa diavolo stesse succedendo, quando, tra la folla tipica dei mercati, si fece spazio un tale, correva come un gatto inseguito da tre guardie governative, quella era un’immagine da repertorio, il tizio in fuga doveva esser proprio bisognoso per rubare in quei tempi al mercato poiché vennero imposte leggi severissime contro i furti, ma probabilmente il fuggitivo non doveva esserne molto preoccupato.
Girato l’angolo per poco non mi venne addosso, lo vidi bene, secco come un chiodo, teneva nella corsa la testa rivolta verso il cielo, riuscendo per giunta ad impedire che gli ostacoli li complicassero la fuga, la barba rossa come i capelli le davano un tocco di importanza, malgrado già la situazione lo rendesse importante.
Arrivato oramai a destinazione, sentivo lo stomaco in lamento, era oramai l’ora del pranzo, avrei mangiato delle patate lesse, le avevo preparate la mattina; in attesa d’un lavoro decente, mi accontentavo.
Imbucato il viottolo che mi portava di fronte a casa ebbi come un colpo al cuore, la saliva si seccò di colpo, tremai nel vedere la scritta in gran vista che appariva sul muro di casa mia:“Combusti stronzooo” proprio così, con tanto di tre (o) finali.
-Ci divertiamo?.
Mi voltai rapido e li, vidi Balducci, il peggior lecca culo del paese.
-Come sarebbe a dire mi diverto?!
Ribattei con voce tremante,
-Pulisco lo scempio di qualche imbecille!
conclusi.
-Imbecille?! Perchè ti fai male da solo? una scritta del genere sul muro di casa tua non sta poi cosi tanto male.
Balducci era un gran bastardo aveva contro di me un odio incredibile, iniziò tutto da adolescenti; il padre scomparì nel nulla durante una battuta di caccia, la madre, affranta per il dolore, si ritrovò da sola, a rivestire entrambi i ruoli, le cose incominciarono a peggiorare visti i debiti lasciati dal marito, quindi la donna per venir fuori da situazioni finanziare disastrose, vide facile guadagno in una casa per ritrovi notturni, riuscendo così anche a soddisfare gli innumerevoli vizi del piccolo figliuolo.
Una notte Balducci non soddisfatto della negazione ad una sua volontà di possedere un pony, bussò alla porta delle vecchie comari portavoce dei comizi e giudici degli errori altrui; raccontò che la sua bocca non mangiava da settimane e per tale tempo gli occhi suoi non videro la madre, iniziò cosi la caccia alla strega che portò la povera donna alla disperazione, tanto che, una mattina, questa, andò via abbandonando tutto e tutti.
Balducci diventò meta di pellegrinaggi caritatevoli da parte delle vecchie comari, che lo accudirono per molti anni avvenire, sino a, quando, non successe il fataccio paesano, cosi chiamato dalle vecchie sagge.
Vittima di questo, la bella ed appassionante Mara, cosi, noi ragazzetti la chiamavamo, non dispiacendoci in più occasioni di utilizzare vocaboli meno romantici nei suoi confronti.
Questa, raccontò che il Balducci le fece notare la misura in lunghezza della propria virtù; menzogna fu per le vecchie, che prive di ragioni, non vollero credere alle parole di una svergognata, presunta lesbica per giunta.
Mara, testarda come poche, non si diede per vinta, e per rendere pubblica la verità sul Balducci venne da me.
Il fatto che io fossi un ragazzino piuttosto solingo e taciturno, le fece balenare in testa che, una testimonianza da parte mia potesse risultare veritiera, mi chiese di testimoniare contro Balducci, io non esitando accettai, con la promessa da parte di Mara di una più profonda gratitudine.
La mia testimonianza inattesa e credibile, la fece vincere, scoprendo il Balducci in tutta la sua verità. Mara dimenticò in fretta le sue promesse, chi invece non dimenticò mai la gran figura di merda fu proprio lui, Balducci, che dal giorno cova dentro se il seme dell’odio nei miei confronti.
-Così mi dici che questa scritta non è tua?.
continuò a ripetere Balducci.
-Esatto, io non l’ho fatta! Continuai.
Balducci guardandomi negli occhi s’avvicinò e posando delicatamente il braccio attorno al mio collo, con un sorriso ambiguo, disse:
-É Tanto che aspettavo questo momento! Tradimento! Tradimento!
incominciò ad urlare con la sua inconfondibile voce effeminata.
Capirete che, le guardie non vi misero molto ad arrivare sul posto, perchè queste erano ricoperte d’onori e gloria non appena riuscivano a sventare un tentativo di tradimento.
Dopo una passeggiata in compagnia di due guardie sino alla caserma, sedetti in un corridoio, attendendo di parlare con qualche capoccione. Ricordo bene quel posto, era spoglio, le pareti verdi dalla muffa, di tanto in tanto dal soffitto si staccava della vernice vecchia che colpendomi mi faceva saltare da seduto, attirando cosi l’attenzione di un gruppo di soldati che ridevano di me; persino un gatto grigio faceva su e giù per il corridoio come se anch’egli attendesse qualche notizia.
L’attesa finì, quando, il gruppo di soldati, m’indicò ad un altro, un graduato, a giudicare dalla divisa, questo mi fece cenno di avvicinarmi e poi di entrare nel suo ufficio.
Al suo interno non vi era tanto, oltre alle sedie di legno e la scrivania, una mappa geografica appesa al muro ed altri fogli qua e là.
-Allora Razzio Bolli, che dovrei fare con te? chiese,
-Anzitutto non credere ad una sola parola detta da Balducci! risposi deciso.
-Bene allora dammi la tua versione!
-stamane, dopo aver ascoltato le sagge parole del Generale Combusti in piazza, rincasavo, quando, sul muro di casa mia, vidi a lettere cubitali lo scempio scritto.
-Però, Balducci dice d’averti visto con secchio e struggila, mentre di affrettavi a ripulire il tutto, allora mi chiedo, come mai non sei venuto subito a denunziare il fatto?.
Gran bella domanda, pensai, che avrei dovuto dirgli, che per poco mi cagavo sotto, nel vedere la scritta chiara come il sol del giorno sfoggiar sul muro di casa, no, no, ormai dovevo giocare d’astuzia, la frittata era in padella, e dovevo far di tutto per non bruciarla.
-Lei è questo che vuol sapere? ebbene, io mi vergognavo! quella scritta offensiva per l’interessato, offensiva per la comunità e per le regole civili del nostro glorioso paese, quella scritta mi aveva umiliato a tal punto che una rabbia proveniente dallo stomaco mi dettò legge, dicendomi con forza di ripulire il muro, di ripulire, quello scempio incivile che infangava tutti noi!.
Il militare mi osservava a lungo, teneva le mani sotto il mento, il suo sguardo di studio m’imbarazzava, ma la mia astuta carta era ormai giù, dovevo solo aspettare che le cazzate dette, passassero al setaccio di quel soldato, che pian piano, lavorava una positiva risposta, che m’avrebbe portato fuori da quella caserma, magari alla ricerca del Balducci, al quale avrei tagliato le palle per poi appendergliele al primo palo in strada.
Uscì da quella stanza con una frase che ancora oggi mi suona nel cervello
-Vai Bolli, penserò a tutto io!.
Capito? Quel gran bastardo, pensava a tutto lui, è belle e otto mesi che mi ritrovo in questo lurido fronte con il dannato fango che mi entra nelle scarpe, con il freddo tagliente che sfregia il viso e la fame che non conosce limiti; manco a dire che potessi far affidamento su di un compagno! al fronte nessuno conosceva nessuno, venne cosi impostato per motivi di sicurezza per evitare la formazione di gruppetti che con forza di unione avrebbero quasi certamente, tentato la fuga.
Ero in quel momento indaffarato a levarmi come sempre del fango dagli stivali, quando...
-Soldato sei ferito? era un sotto ufficiale di qui non conoscevo neppure il nome.
-No signore! risposi
-Allora che diavolo fai, mentre gli altri lavorano?.
-Signore, riprendevo fiato, arrivo di corsa dagli avamposti esterni per fare rapporto.
-Bene lo farai a me il rapporto!.
Lo seguì lungo la prima trincea, attraversammo un ponticello di legno quasi marcio e scricchiolante, arrivammo nel suo ufficio, una tenda lurida.
Il graduato cominciò nel chiedermi le solite storie, quanti uomini vi erano negli avamposti esterni, il numero d’armi manuali e quello dei cannoni, che io non ricordavo, inutili furono i suggerimenti, tre, cinque, ecc.
Quando Razzio Bolli non ricordava una cosa, non la ricordava e basta; il graduato seccato dalla mia mancanza scrisse tutto, anche quello che io non ricordavo, probabilmente mise all’opera tutta la su esperienza militare per inventare un rapporto che, probabilmente, nessuno avrebbe mai letto. Aspettai educatamente che lui finisse di compilare il foglio di carta per chiederli:
-Signore ma quando arriveranno i rifornimenti?. Il graduato alzò la testa osservandomi con espressione che sapeva di vuoto assoluto.
-Presto soldato. Presto!.
Già, presto pensai, era la decima volta che gli facevo quella domanda, per dieci volte lui, mi diede la stessa risposta, anche se, una certa diversità d’espressione vi era stata in lui, le prime due volte, lo fece con profonda convinzione, nelle altre otto rimanenti, questa gli veniva sempre meno, come un ammalato che pian piano perdeva le proprie forze.
Il nostro esercito, come tanti altri, era povero ed affamato e per giunta senza sergente, infatti, noi esterni costantemente a contatto con l’artiglieria nemica non avevamo più il sergente, in altre parole, quella figura doveva ricoprire la logica della quotidianità d’ogni soldato, sollevando dal difficile compito di prender decisioni. La storia del nostro sergente era tutto un programma.
Ricordo che fu la prima settimana al fronte, in cui i Domenicini da più di cinque ore ci martellavano con “pezzi” d’artiglieria pesante, noi cercavamo di rispondere, ma ogni qual volta ponevamo il naso fuori, si scatenava l’inferno.
Il sergente Mario Carlo, guidava il nostro gruppo, questo era fondamentalmente un bravo uomo, anche se alle volte alternava momenti d’assoluta tranquillità ad altri di incontrollabile follia, instabile diciamo; quella volta pareva, malgrado il nemico si facesse sentire, lui avesse la situazione sotto controllo, organizzò due gruppi d’assalto, nel primo ove mi trovavo io, doveva prendere il nemico scendendo dal lato sinistro, mentre l’altro da quello destro, insomma sin li capimmo, però...
-Una volta giù per la vallata che facciamo?.
Questa fu la domanda posta al sergente, che confuso si accarezzò la tempia per poi sedersi a gambe incrociate su di un grande sasso.
-Perchè diavolo lo dovette confondere!?. Gridò un soldato,
-non sapete che gli viene difficile pensare a più cose in un solo momento?!.
La situazione non migliorò di certo con il dire del soldato, che alle urla fece scatenare l’inferno, una cannonata incredibile esplose proprio vicino a noi che nelle buche apposta scavate trovammo rifugio, subito con lo sguardo impaurito cercammo tra il fumo il sergente, che furbo lasciò la sua postura confusa, per darsi rifugio dietro lo stesso sasso.
-Ragazzi?! gridò forte il graduato,
-Conoscete la leggenda del Marchese Calbot?. Nessuno rispose.
-Non mi stupisco, il Marchese Calbot fu chiamato dal Re in persona per sconfiggere i nemici lungo i confini del regno, Calbot, uomo di lunghe e vittoriose campagne, organizzò una squadra d’assalto, partiti tra i rossi stendardi di festa, andarono a lottare contro il nemico, i giovani che lo accompagnarono erano impauriti, ma trovarono forza e coraggio nel veder il Marchese, fiero ed in sella alla paura.
Combatterono per settimane cercando in tutti i modi la vittoria, poi caddero da eroi per lasciar ancora oggi il ricordo dei valorosi soldati del Marchese Calbot.
-Vi sono domante? chiese il graduato in preda ad uno di quei momenti d’incontrollabile follia.
-Non sarà meglio contattare la prima trincea?.
Quella domanda fece scattare una risata scomposta ma sana, il sergente non si divertì a fatto, anzi, infuriato incominciò a gridarci di tutto, dai complimenti alle nostre rispettive madri, a presunte malattie mentali ereditate da padre in figlio, era veramente incazzato, alzatosi da dietro la roccia impugnò la propria arma e in una corsa disordinata ci veniva addosso con furia animale.
Ricordo il sospiro di sollievo che tirai, nel vedere che, un colpo di fucile sparato da un cecchino gli aprì in due la testa.
Questa fu la brevissima vita al fronte, del nostro amato sergente Mario Carlo.
Visto che mi trovavo nei paraggi, decisi di far visita a Don Vittorino, parrocchiano del campo, Vittorino era il tipico bravo uomo, sempre calmo, dalla voce pacata, riusciva col suo essere a gestire sempre al meglio situazioni complicate, come quando il capo cuoco infuriato dalle critiche per il suo mangiare, prese per la cintura un caporale, minacciandolo di gettarlo nella vallata fitta di Domenicini, insomma era per tutti il punto di riferimento stabile, anche per me ovviamente, era lui che mi passava tabacco e cibo rinvenuto dalle tasche dei morti in combattimento.
La cappella era situata nella parte più alta del campo, sicura dai bombardamenti, fu messa in piedi con ciò che si trovava qua e la nel campo: lamiera per le pareti ed il tetto, riparavano dalle intemperie del tempo il simbolo rappresentativo della baracca del culto, il Cristo, che poveraccio oltre che crocefisso, doveva starsene pure con i piedi infilzati nella terra umida, ma garantisco che quello fu l’unico modo per tenerlo eretto, l’altare, sostenuto per miracolo concesso, venne rialzato con una grossa base di legno agganciato ai lati dalle ruote di un cannone misteriosamente scomparse dai magazzini; utilizzammo le ruote, perchè cosi era facile da spostare dal continuo gocciolio di pioggia che filtrava dalle lamiere arrugginite.
In fine, una ventina di panche di legno inchiodate alle meglio per ascoltare la messa giornaliera. Arrivato alla soglia d’ingresso notai il parrocchiano seduto su una di queste in prima fila con la testa rivolta verso il basso, inizialmente pensai che il parrocchiano si trovasse in una di quelle fasi meditative, dove il circostante si allontana lasciandoti solo in una nuova dimensione, però avvicinandomi con cautela, diventò forte il suono scomposto del russare, provocato da un sonno profondo.
Quale miglior occasione, pensai, se non quella per poter fare uno scherzetto con tanto di fiocchi?
Gli arrivai alle spalle il tanto che bastava per gridargli...
-Attacco nemico! con tutto il fiato che avevo. Il prete fece un tale balzo che io stesso mi spaventai, nel sollevarsi con scatto pauroso mi colpì il mento con una capocciata, facendomi a suo modo veder le stelle.
-Gesù esclamò il parrocchiano col fiato grosso.
-Che razza di scherzi sono mai questi Razzio, ancora un po’ e mi viene un colpo!.
Io, tenendomi con entrambe le mani il mento dolorante, gli dissi che non vi era nulla di male in uno scherzetto ogni tanto.
-Ogni tanto? Razzio tu non li fai ogni tanto questi scherzetti, una volta mi vieni a cercare, dicendomi che una cannonata ha centrato in pieno la cappella, o ancora, che il terreno è franato proprio sotto questa, insomma a tutto vi e un limite Razzio!.
-D’accordo, va bene Don Vittorino, mi spiace, ma lo faccio per stravolgere il giornaliero del campo... capisce?!
-Certo che capisco Razzio... ah sapessi però... ti invidio sai?>>
-E perchè mai dovrebbe invidiare me? Chiesi confuso.
-Invidio la tua giovinezza, il tuo spirito giovane, la tua visibile voglia di vita, è questo che invidio di te... Sai da ragazzo io amavo viaggiare, tanto che non appena entrato nel mondo di chiesa scelsi di andare in Africa come missionario volontario.
-Lei è stato in Africa?
-Ti pare strano eh... in pieno deserto pure, lì la vita si presenta veramente difficile, vi sono delle popolazioni che nel più assoluto silenzio insegnano a vivere con la povertà, la povertà quella vera, quella che ti insegna ad apprezzare ogni singola cosa, anche la più banale, insomma quella povertà che ti rende felice dentro.
-Già, ma e pur sempre nel deserto! Dissi. Entrambi ci sedemmo lui affianco a me, incrociò elegantemente le gambe e con voce calma disse:
-Razzio, non pensare al deserto come la tua mente, che per mancanza di conoscenza in questo, ti obbliga a pensare, io il deserto l’ho vissuto, l’ho amato, ho amato la sua sabbia che assume varietà di diversi colori, come il rosa cristallino al sorger del sole che ti permette d’osservar ogni più nascosto angolo del suo infinito orizzonte, all’abbagliante giallo oro, che a dispetto della tua curiosità ti acceca con lacrime agli occhi, per poi finire col rosso fuoco che ti lascia solo come il deserto. La notte in quel mondo sprofonda nel vuoto, il vento si trasforma in un canto armonioso, quasi angelico, che approfittando con inganno della debolezza umana, la inghiotte come a ricordarti che li, ogni pensiero è suo, ogni emozione gli appartiene, tutto lì, appartiene a lui.
A quelle parole non riuscì a fare nessun tipo di commento, non so se fosse per via di quella voce calma e paziente o per il racconto stesso, fui come paralizzato, Don Vittorino riusciva, con stile di pochi, a nascondere tutto se stesso, i propri sogni e le proprie emozioni, non era difficile colpirmi nella parte di me più sensibile, io non avevo mai avuto tale guida, un oratore a fianco a raccontarmi storie come quella, storie che a modo loro davano fiducia e speranza.
Il parrocchiano mi regalò delle sigarette, trovate nelle tasche di un poveraccio, accompagnandomi alla porta approfittai per domandargli il perchè se amasse tanto il deserto venne in questo lurido fronte dimenticato dal signore, lui mi rispose:
-Sono venuto qua per poterlo rivedere!.
Solo più avanti avrei capito il significato di quella frase, ma in quel presente non vi feci molto caso.
Rientravo agli avamposti esterni, il buio era ormai sceso in quella sera umida, nella mia stretta buca avrei probabilmente dormito bene, era sempre così, ogni qual volta m’accadeva qualche cosa di bello, dormivo bene e qualcosa era accaduto, quella storia del parrocchiano mi rilassò, pensavo che magari un giorno da vecchio avrei avuto anche io da raccontare: un viaggio, un amore perso o trovato, questo stesso stramaledetto fronte, dove ogni idea veniva logorata da ogni colpo di cannone nemico, magari lo avrei raccontato ai nipotini, o più semplicemente a me stesso.
All’alba seguente, venni dolcemente svegliato dalla guardia di turno.
-Ehi! Alza il culo, sono arrivati i rifornimenti!.
Dalla gioia lasciai il pesante fucile, sinceramente non avevo neppure l’abitudine di portarlo a presso, corsi dietro agli altri soldati, tutti verso la stessa direzione: ai cancelli d’ingresso; tutti gridando e felici come non mai percorremmo la prima trincea, calpestando feriti e non, i barellieri, eccitati dalla fame accumulata, vennero a meno al proprio obbligato compito, lanciando i lettini per aria colpendo chiunque capitasse a tiro. All’ingresso furono inutili i continui richiami dei graduati, che inermi dinanzi a tanta felice disperazione mettevano in risalto il civile comportamento, il discorso non trovò fine, perchè, visto entrare il primo autocarro, una sessantina di soldati gli si scaraventò contro, lasciando i superiori parlare al vento, io seguì la massa, ma erano troppi, non riuscivo neppure a toccare il freddo metallo del mezzo, forse per disperazione incominciai a lanciare sassi contro i graduati, che inferociti urlavano:
-Animali! Animali bastardi!.
Io non curandomi di nulla continuai a lanciare sassi, nella speranza di spaccare qualche cranio; fuori di me, forse impazzito, immerso in un’urgente voglia di potere scagliavo vigliaccamente sassi contro gli ufficiali.
Il primo autocarro era andato, ribaltato sul fianco con tutta la preziosa merce nel fango, in preda alla disperazione collettiva di soldati affamati. Arrivato il secondo, approfittai della confusione provocata dal primo, ed in compagnia di una ventina di simili mi scagliai contro, riuscì ad entrare nel cassone, la brusca frenata dell’autista mi fece sbattere contro alcune casse, ma poco mi importava, incominciò la razzia, presi una scatola di medio peso vi era scritto fragile;
-Grissini!: gridai solo come un matto.
Pensai fossero grissini, su tutte le scatole di tale contenuto era scritto fragile, sceso dal cassone mi allontanai dalla confusione, aprì di tutta forza quella dannata scatola, messa la mano dentro mi resi conto che si trattava di bicchieri, piccoli bicchieri da grappa, utili solo agli ufficiali, quando, obesi dal pranzo, degustano in allegria della grappa presa chi sa dove.
Il camion era ormai razziato, ero infuriato, sfigato sino all’invero simile, cercai tra la folla uno più idiota di me, notai un tizio basso e gobbo che a passo appesantito dal fango, trascinava un intero sacco marrone dal quale usciva un ben cotto filone di pane, non vi pensai due volte, gli andai addosso, ma lui fece resistenza, gli tirai l’orecchio sinistro, chissà poi perchè decisamente più grosso di quello destro...
-Lasciami andare idiota! Non vedi che c’è roba per tutti!. Gridò, mentre ben stretto io gli tenevo il suo grosso orecchio.
-Visto che te vedi tutta sta roba vattela a cercare! Risposi secco. Questo incominciò a urlare aiuto gridando a gran voce.
-Aiuto! È amico degli ufficiali! lo gridò per almeno tre volte, io non vi feci molto caso, insomma in tutto quel gran casino chi diavolo mai si sarebbe preoccupato, certo in condizioni normali le cose dovevano andare per quel verso, ma siccome io sono io, indovinate un po’... un bestione visibilmente infuriato mi venne contro, era armato di spranga e con tono minaccioso disse:
-E così, sei degli ufficiali?
-Chiaramente no! Risposi.
Nulla da fare, era grosso ed idiota, però anche armato da spranga di ferro, io allora, lasciai l’orecchio al poveraccio, posi il sacco a terra e senza neppure alzare lo sguardo mi diedi alla fuga.
-Ora arriva! Gridò lo scimmione, alludendo chiaramente al lancio della spranga contro di me, lancio, che venne interrotto da un colpo di fucile.
Mi voltai di spalle pensando al peggio, ma la fucilata non fu sparata dal bestione, ben si, da un giovane biondo che in piedi sul cassone di un terzo camion, teneva bassa la mira verso noi tutti.
-Voi soldati? ... -No! Disse il tizio ad intervalli decisi.
-Straccioni, farabutti, malfattori e mendicanti! Tutto all’infuori di degni soldati!.
Offensivo, ma allo stesso tempo deciso, così si presentò a noi il giovane generale Amiano Damiani, la sua voce, dal timbro autoritario, bastò quel giorno a tutti noi, per capire chi realmente fosse quel giovane generale; elegante nella sua tenuta militare dal pantalone nero scuro, giacca altrettanto nera con un dorato cordone che gli scivolava lungo il petto visibilmente atletico.
Con un salto balzò giù dal cassone dell’autocarro, tolto il berretto, contornato da lucide stellette grigie, si sistemò la folta capigliatura bionda che ben rispecchiava sul viso dalla pelle chiara, per un istante rimase immobile ad osservarci, visto cosi, fermo, in quella sua decorosa divisa, pareva uno di quei manichini perfetti, quelli che sfoggiavano elegantemente i migliori abiti, era perfetto, ogni lineamento del suo viso lo era, la statura uno e ottanta circa completava quella sua raffigurazione di perfetto manichino.
Tolsi dalla mente quel mio pensiero strano e forse un tantino perverso, per concentrarmi seriamente sul giovane biondo in carne ed ossa.
-Io sono il generale Damiani, inviato dal generale primo Calisto Combusti con l’incarico di prendere tutti i poteri del campo, tra venti minuti tutti gli ufficiali verranno da me per meglio capire ogni singolo cambiamento!.
Il mio sguardo non so perchè, andò a cercare tutti i graduati, che a loro volta si ritrovavano in cenni intimoriti, persi, tra sconfitta e timore.
Avemmo il compito di sistemare nei magazzini ciò che restava dei viveri, lo scimmione di poco prima assunse il compito, e ovviamente il “gusto” di caricarmi due pesanti sacchi di farina, che bucati chi sa dove mi annebbiavano la vista od ogni movimento; lì, prima di voltarmi in direzione dei magazzini, vidi scendere dal cassone del terzo autocarro, quattro uomini con abiti civili, facce mai viste prima, tranne una, un tale alto, visibilmente disordinato, sceso per ultimo non seguì subito la guardia che accompagnava gli altri tre in qualche ufficio, si guardava attorno stiracchiandosi con ben poca eleganza, pareva che avesse dormito per tutto il viaggio, più l’osservavo e meno ricordavo dove l’avessi visto, ma del resto, come detto in precedenza, quando Razzio Bolli non ricordava, non ricordava e basta.
M’incamminai lungo il sentiero fangoso, avevo sulle spalle cinquanta chili di benedetta farina, e benedetta lo sarebbe stata ancora di più, se a portarla non fossi io, il fango rendeva ancor più difficoltoso il tragitto, ma, con sforzo e volontà arrivai al capannone; per un istante pensai quale fosse quello giusto, arrivando ben presto alla conclusione che uno valeva l’altro.
Dentro vi era più freddo di fuori, era grande, altissimi scafali di ferro alle pareti coprivano alcuni evidenti fori della ruggine, appoggiai subito il pesante carico nel ripiano più basso, tirando un sospiro di sollievo; da lì a poco entrarono tre soldati, non si curarono minimamente della mia presenza, uno di questi chiuse il portone scorrevole, lasciando un sottile spiraglio di luce, poi di corsa andò verso gli altri, li vidi inginocchiati, tirarono fuori, da sotto uno scafale, uno scatolone, risero di gusto, dentro vi erano coperte di lana, calzettoni, scarpe e alcuni teli para pioggia, tutta quella attrezzatura, pensai, la stessa che per mesi aspettavamo, era li, chissà da quanto in balia del freddo e dell’umidità.
Anch’io volevo una coperta, mi avvicinai al gruppetto, ma, nell’istante stesso, la porta scorrevole si riaprì con forza.
-Cosa accidenti fate voi qui?. Era un graduato, sergente per esattezza.
La luce alle spalle metteva in risalto la sua sagoma bassa e grassa, quando si avvicinò gli notai l’acconciatura, aveva i capelli impiastrati di gelatina, Dio solo sa dove l’avesse presa, li teneva tirati indietro, schiacciati sicuramente con le mani, si sa, chi si concia in quella maniera tiene almeno un pettine a portata di mano, ebbene questo ne aveva due, li portava nella tasca destra della giacca, uno per i capelli e l’altro probabilmente per acconciarsi i grossi baffoni; la divisa in disordine, la giacchetta aperta ed il colletto della camicia dal bordo sporco dal sudore, e per sudare il tizio sudava, merito di tanto lardo addosso.
-Allora che diavolo fate qua dentro? Continuò irritato.
-Abbiamo l’ordine di risistemare il magazzino!. Rispose deciso uno dei tre soldati.
Il graduato, scorse con la testa, lo scatolone, alle spalle dei soldati e con un sorriso ambiguo disse:
-Avete pure l’ordine di rubare materiale dell’esercito?.
-Nessuno rubava nulla! Abbiamo trovato questa roba!.
Il battibecco continuò ancora per poco, il sergente minacciò di fare subito rapporto, promettendo a tutti e quattro una punizione esemplare.
Questo voltò le spalle, uno dei tre gli si avventò contro colpendolo forte con una gomitata alla nuca, un altro, richiuse il portone, e raggiunto l’uomo incominciò un pestaggio selvaggio.
Io, non proprio reattivo inizialmente, rimasi immobile, confuso, poi, gridai loro di smettere, ma nulla, mi avvicinai rapidamente al terzetto, che con la forza della disperazione totale, si avventò con brutale violenza al sergente, che a terra, cercava invano di ripararsi dai violenti colpi.
La situazione era orma fuori controllo, cercai rapido con lo sguardo un qualcosa che potesse aiutarmi a calmare gli animi, vidi nella penombra un pezzo di metallo, lo presi, e di corsa mi lanciai contro uno dei tre, lo colpì piuttosto violentemente sulla schiena, questo si voltò di scatto e osservandomi dritto negli occhi lasciò partire un pugno veloce, un movimento brusco da parte mia, evitò che il colpo mi colpisse nell’occhio, però mi centrò in piena bocca. Cadendo all’indietro, colpì con la nuca il sacco di farina, per fortuna che vi era la farina, pensai.
Stordito, riaprì gli occhi, udì la fuga del terzetto aprire bruscamente il cancello scorrevole facendo entrare la luce del sole appena spuntato.
Trovai le forze per rialzarmi e con il dolore pulsante alla bocca, ora sanguinante, recai con passo squilibrato verso il sergente, lo vidi a terra rannicchiato a difesa, in un rantolo di sangue e dolore. Lo voltai a pancia in su e lì che le forze mi vennero meno, mi dovetti inginocchiare, attorno sentì una sensazione di vuoto, fuori in lontananza vidi arrivare di corsa il parrocchiano accompagnato da alcune guardie, feci cenno con le ultime forze, dopo di che svenni.
Al risveglio mi ritrovai in un freddo letto d’infermeria, accanto Don Vittorino, lo vidi così vigile che preferì non svegliarlo, il dolore alla bocca era meno tremendo, malgrado la sentissi gonfia.
In silenzio pensavo a quel che successe in quel capannone, la feroce aggressione al sergente dalla faccia bastarda, giustificava in quei tempi la violenza per ogni cosa, quei tre erano poveracci, d’accordo violenti, ma pur sempre disperati; sono certo che se i graduati avessero spartito coperte, calzettoni e teli antipioggia in maniera bilanciata, probabilmente non avrebbero mai neppure immaginato di gonfiare la faccia al sergente, o magari, lo avrebbero fatto ugualmente, chissà.. Comunque inutile pensarci sopra, oramai era andata, svegliai il parrocchiano, che agitato incominciò a chiedermi come fossero andate le cose, io gli spiegai lo svolgimento dei fatti, ma egli poco attento al mio discorso, m’informò che vi sarebbero state grandi novità su tutti i fronti, compreso il mio..
-Cosa vuole dire? Chiesi confuso,
-Sentirai Razzio, sentirai.
Disse il parrocchiano lasciando intravedere un solco sul viso come una sorta di sorriso felice, dopo di che andò via, con quella stessa espressione, lasciandomi sospeso nell’ansia della sorpresa. Rimasi solo, una decina di minuti, poi come dal nulla apparse il Generale Damiani, feci uno scatto per sollevarmi dal letto, ma lui cordialmente mi invitò al riposo.
-Sei il soldato Bolli?. Chiese togliendosi il capello.
-certo signore risposi.
-Bene, sappi che sono stato messo al corrente di tutto, dallo stesso sergente vigliaccamente aggredito e del tuo coraggio in quella situazione, io sono alla ricerca di gente come te in questo letamaio di un campo, quindi domani non appena verrai dimesso, presentati nel mio ufficio, li ti consegnerò i gradi da sergente.
-A domani allora!
Il Generale parlò tanto in fretta, che non appena lui uscì dalla stanza, il mio cervello ancora elaborava la parte in cui io, il mattino seguente, mi sarei dovuto presentare nel suo ufficio; la parola sergente, risuonò forte in testa, creando in me un vortice di forti emozioni, l’ansia che lo strano sorriso del prete mi mise sparì, ora, vi era una silenziosa riflessione, come una vocina “rompipalle” che continuava a ripetermi:
- sergente... io sergente... sergente io ma come, io inizio il mio scritto deducendo un basso interesse ad ogni politica militare, in gran parte contrario ad ogni forma di organizzazione armata, quale appunto l’esercito e adesso quasi piangevo dalla gioia per quella promozione, incominciai a riflettere sul meccanismo.
Insomma, un ragazzo valorizzato dalla scuola, con il suo giusto carico di esperienze che comportano automaticamente ad una più profonda riflessione sul circostante, mai e poi mai avrebbe provato un tale compiacimento per il nuovo grado, a meno che, non si pensi ad un fanatico militare, però, io, essendo l’inverso dell’immaginario giovane, provavo piacere, ero felice che il Damiani mi avesse promosso, lo ero, perchè fragile, povero di spirito, insomma vittima impotente di quel meccanismo di superficiale felicità.
Dedussi allora che il Damiani approfittava di questa mia povertà interna, inconsapevole sicuramente, però lui approfittava di me, dei miei disagi sociali ed economici, approfittava del fatto che mai nessuno, prima di allora mi diede tanta gioia, tanta importanza.
Fanculo, pensai.
Irritato da quel mio pensiero, sapevo di aver ragione e questo mi faceva male, faceva ancor più male il fatto che non potessi controllare quella gioia, o forse non la volli controllare, perchè per la prima volta mi sentì soddisfatto, tristemente soddisfatto.
Passai una notte da schifo, mal grado il giorno prima ebbi la bella notizia, quel dannato letto non riuscì mai a riscaldarlo, neppure a metterli fuoco, alzatomi trovai una divisa nuova sulla sedia a fianco, mi lavai il viso e la indossai, era calda e pulita. Uscito dall’infermeria con entrambe le mani sulle palle, per l’arrivederci col quale il medico mi salutò, andai alla ricerca dell’ufficio del Damiani, il sole era già nato, tiepido e dolce mi accarezzava le spalle aumentando la bella sensazione di calore che quella, pulita divisa, mi donava. Chiedendo informazioni lungo il cammino, trovai l’ufficio del Generale, all’esterno vi erano due guardie armate di fucile, presentatomi, mi fecero entrare. Dentro vi erano altri quattro soldati che si voltarono a guardarmi, da parte del generale accettai l’invito a sedermi, presi posto nell’unica sedia libera, che chiudeva il semi cerchio delle altre quattro occupate.
Damiani parlava del nuovo campo e dell’esigenza di far terminare prima della primavera il conflitto, chiese quale fosse il compito di ognuno di noi, prima del suo arrivo, io dissi:
-addetto agli avamposti esterni, continuò nel chiedermi quanti uomini fossimo ed il numero dei cannoni, non vi era nulla da fare, se io avevo il vizio di non ricordare queste cose, loro di porre le stesse domande, comunque onde evitare la figura dell’incompetente, così all’esordio da sergente, gli dissi che non vi erano cannoni, e se mai in futuro gli fosse venuto in mente qualche ispezione... bhe avrei sostenuto che li avessero messi li, la notte precedente.
Terminato di porgermi le domande io ne approfittai per dare uno sguardo in giro, mi accorsi di uno seduto nell’ultima sedia alla mia sinistra, si trattava del tale visto scendere dall’ultimo autocarro, era lui, solo più ordinato e pulito, barbetta rossa, corta ed ordinata, capelli leggermente smossi che gli scivolavano sul viso; buffamente seduto con quelle lunghe gambe incrociate, era visibilmente anch’egli poco interessato, si guardava intorno, illudendo Damiani con lenti movimenti del collo, come a dire, “si sto ascoltando”.
Più lo guardavo e meno ricordavo dove l’avessi visto, ero convintissimo d’averlo visto molto prima del fronte, ma vai tu a ricordar dove.
Il discorso del Generale era chiaro, riorganizzare gli avamposti esterni con il posizionamento di tre cannoni, che dall’alto avrebbero “martellato” i Domenicini a valle ed aperto la strada alla fanteria da lui guidata, dovevamo sfruttare quella che il Damiani, disse essere una grande fortuna naturale, la discesa, più noi riuscivamo a scendere per la vallata, più i Domenicini erano costretti ad arretrare. Nel giro di pochi giorni era tutto pronto, i cannoni vennero sistemati su alture artificiali e la fanteria pronta a scendere, nell’arco di una settimana conquistammo gran parte della vallata, il Damiani ormai preso nella morsa dell’euforia non stava più nella pelle, io intanto ero stufo, ogni qual volta vedevo arrivare la “staffetta” con il solito messaggio di spingere i cannoni più a valle, andavo su tutte le furie.
-Sapete quanto pesa uno stramaledetto cannone?.
-Ebbene, tanto! ancor di più quando le ruote facevano i capricci impantanandosi nel maledetto fango.
Insomma la grande ed incontrollabile gioia era svanita nel tempo a seguire, arrivai alle conclusioni che lo stesso Damiani, malgrado giovane e decorato, fosse completamente fuori di testa, non sostava un solo istante, sempre di corsa a modificare i piani con quella sua mappa del territorio, una volta gliela vidi persino leggere al contrario, per quanto mi riguardava il Generale pensava alla guerra anche quando cagava. Ma quello che più mi preoccupava era il parrocchiano, agitatamente si aggirava con andatura confusa attorno ai cannoni, non dialogava, sempre zitto, con espressione pensierosa, alle volte si assentava, pensai che la mancanza della catapecchia del culto lo avesse affranto, però egli ebbe la possibilità di restare al campo, al sicuro, vista la nostra avanzata. Un pomeriggio di pioggia, lasciai il compito ad alcuni subalterni di trasportare i cannoni a valle, io volevo capire che accidenti avesse il parrocchiano.
Vedendolo con aria furtiva addentrarsi nel bosco che fiancheggiava la vallata, lo seguì tra la fitta vegetazione, corse veloce sotto la pioggia, come colui che non ha molto tempo, arrivato ad un punto, il parrocchiano si fermò di scatto, si voltò rapidamente guardandosi alle spalle, io impaurito mi gettai tra un cespuglio, il tonfo delle pioggia nascose il suono della mia caduta, alzando il viso vidi il parrocchiano in compagnia di un uomo, almeno credo fosse un uomo, perché l’acqua che violentemente picchiava al suolo rimbalzando continuamente sul mio viso, non mi permetteva di distinguerne la figura, comunque vidi che passò alla misteriosa presenza un foglio di carta, si salutarono e lì, io scappai. Corsi via come un matto, pensai che il parrocchiano stesse aiutando la popolazione colpita dalla guerra, che fuggendo da questa trovò rifugio tra i boschi. Confuso da quella visione arrivai alla fine del sentiero, mi sentì chiamare, era il Generale.
-Bolli, ma che diavolo fa, scompare ed appare come la madonna?.
- Stavo nel bosco a cagare signore!.
-Bravo sergente, continui a parlar così e presto la faranno capitano!. Chiesi scusa e mi ordinò di seguirlo.
-Sa chi sono quelli?.
Chiese euforico, indicando dei punti grigi in lontananza.
-No signore, chi sono?.
Risposi io confuso.
-Sono guardie nostre, capisce, le strade della città di Domenici sono libere!.
Con quella sua euforia pazzesca mi informò che la guerra era finita, che quel maledetto conflitto, era oramai giunto al termine, l’indomani tutto il resto del nostro esercito sarebbe, vittoriosamente entrato in città.
Quella notte trascorse tra balli e canti, potemmo accedere un fuoco senza aver paura dei cecchini, urlare alla vittoria e sparare colpi di fucile al cielo, tanto tutto era finito. Io mi appostai su di un albero, non era un posto qualsiasi quello, tra i robusti rami fu creata con delle assi una stretta pavimentazione, luogo quello, fabbricato dai cecchini, ebbene, mi sdraiai li, ad osservare il cielo con stelle mai viste. L’aria più mite per l’ormai vicina primavera trasportava in alto l’odore del legno umido che scricchiolando, intrappolato tra le fiamme, accompagnava il bivaccar felice del Damiani, immerso nei racconti del suo passato militare.
Mi risvegliai col sole dritto in faccia, sceso dall’albero andai incontro al Generale, il gonfiore accerchiava i suoi occhi segno evidente che il Damiani quella notte non chiuse occhio, egli stesso lo confermò. Ci mettemmo in marcia percorrendo gli stretti sentieri nei boschi, il parrocchiano non partì con noi, disse al Generale d’esser felice dello svolgimento dei fatti complimentandosi con tutti noi, ma, il suo lavoro lì, era finito, accompagnato da un gruppetto di soldati tornò verso Azul. Difficile dare una spiegazione al suo comportamento, andò via come se nulla accadde, forse era cosi, davvero nulla era accaduto, quella guerra vinta avrebbe portato cambiamenti? ne dubitai seriamente.
In ogni caso, restava il fatto di averlo visto nel bosco, non ebbi il coraggio di chiedergli spiegazioni, se lo avessero “colto” sul fatto, mentre chi sa che faceva con quel tale, l’avrebbero certamente accusato di tradimento, forse neppure processandolo, cosi pensando decisi di non dire nulla a nessuno. Camminammo per circa una mezzora per raggiungere l’ingresso della città sconfitta, vi erano case fatte a metà dalle cannonate, la strada era una pozza d’acqua, per via sicuramente di qualche linea dell’acqua saltata per aria, al nostro passare, fummo osservati da una cinquantina di sguardi pallidi ed annebbiati dalle polveri delle macerie, man mano accompagnate, da attrezzi improvvisati lungo i bordi della strada. I veri segni della guerra, io li ricordo negli sguardi dei bimbi, che intimoriti e curiosi, guardavano noi, nascondendosi tra le gambe delle madri.
Ci radunammo nella piazza del porto trovata grazie all’ immancabile mappa del Generale, li trovammo una folla di civili che a cerchio disposti, ci vennero incontro; dal gruppo uscì un uomo, magro, molto magro, il viso spigoloso accentuava la sua esile corporatura, il Generale con tono autoritario gli chiese dove fossero mai i soldati, gli ufficiali, insomma, voleva ad ogni costo sapere dove fosse l’esercito Domenicino. L’uomo lo guardò con un sorriso, che sapeva di sfottò
-Voi cercate soldati, ma, vi garantisco che qui non vi sono soldati!.
Disse indicando con la mano il resto della folla alle spalle.
-Quelli che voi cercate sono andati via questa mattina presto, hanno raccolto i propri stracci, lasciando però, le prove della propria codardia.
Il magro uomo si avvicinò al Generale che stupito lo osservava, con garbo gli pose una mano sulla spalla invitandolo a voltarsi, lo fece anche a noi l’invito, accennando con lo sguardo, di guardare dietro noi stessi.
-Vedete il mare? Che bello è il mare, e vedete quei punti ormai lontani? Ecco, quelli sono i vostri nemici.
Vi erano davvero, quei punti erano scappati, bhe, forse era meglio così; il Generale si voltò di scatto spostando con forza il braccio dell’uomo dalla sua spalla, gli chiese, irritato da quella strana cordialità, chi fosse.
-Io sono Dersin il farmacista del paese, voglio rappresentare tutti i miei concittadini, assumendomi di persona ogni rischio futuro!.
-Farmacista! Esclamò incredulo il Generale, lo ripetete ben tre volte, non volle credere a nulla, ma era visibile la realtà dei fatti, quella gente non armata, con la faccia sincera, stava tutta li, in quella piazza del porto, sotto il sole di quella nuova primavera. Damiani fissava il mare, tutta l’euforia del giorno prima, si era dissolta sotto il sole di quella piazza, negli sguardi sinceri di quella gente, che riunita come in uno stretto recinto, aspettavano con speranza, il carro di una nuova vita.
Così le file, andavano sciogliendosi, io non ero felice e tanto meno triste, forse confuso dai tanti avvenimenti, decisi di passeggiare verso i muraglioni del porto, lasciandomi alle spalle la piazza. Andai, ad osservare il mare era davvero bello quell’immenso maestro misterioso, nascondiglio segreto per sogni reduci di tristi esistenze.
Da bambino desideravo tanto venirlo ad osservare, a giocare con l’acqua, costruire lungo le spiagge stupendi castelli di sabbia, abitati da chi sa quale folletto di una mente infantile…
non posso dire di averlo visto veramente il mare da bambino, una volta supplicai la mia povera e distratta madre di portarmi qui, ma lei donna ammalata d’insicurezza, si trovò dinanzi ad un rebus, le cose erano due, o portare me ad ammirare il mare mai visto prima, o scatenarsi in baldorie notturne, in una delle tante bettole del paese in compagnia di un amico dal pessimo odore e dagli occhi incrociati.
La scelta fu per la seconda, comunque, diciamo che questa accontentò anche me, perchè il barista del locale, stanco del mio assillante pianto, fece apparire da chissà dove un grande quadro in cui vi era rappresentato il mare con tanto di cavalloni. I miei pensieri furono interrotti dalla confusione che proveniva dalla piazza del porto, notai, malgrado la lontananza, uomini armati, incominciai a correre, ed una volta li, venni bloccato da armate guardie governative.
-Non ricordate la vostra stessa divisa? Gridai.
-Guarda, guarda! Disse una voce, voce che ben ricordavo.
-Ti hanno per giunta graduato!
Era Balducci, gli occhi infastiditi dall’abbagliante sole non mentirono, il dannato bastardo era li, cercai di capire che diavolo stesse succedendo, il Damiani aveva il fiatone tipico della collera, osservava Balducci, che sorridendo come un’imbecille guardava me.
-Signori, mi rendo conto della confusione che regna in voi, ma dovete arrendervi a tale comunicato. Precisò Balducci. Io chiesi quale comunicato, lui, lo lesse con la sua voce femminile, gesticolando con le mani per meglio render l’idea dello scritto. Diceva, che Combusti era soddisfatto del nostro operato, soddisfatto della vittoria sul nemico e che ora Domenici sarebbe passata sotto il controllo del Balducci, nominato podestà a tempo indeterminato; noi soldati combattenti avremmo avuto una terra da coltivare. Era tutto, il governo mise da parte noi, il Damiani, visibilmente contrariato da quello scritto e la guerra, certo l’idea che Balducci fosse podestà di Domenici era assurda, quanto incredibile, le sue doti da ruffiano mi erano note, ma per diventar podestà doveva averla consumata quella sua linguaccia. Damiani non controllò più la sua collera, incominciò ad urlare che pretendeva di più, che lui era un Generale e tale grado lo portava a chiedere molto di più che della terra da coltivare. Una risata scomposta in merito al dire del Generale, “scoppiò” dalla bocca incosciente del Balducci, che fece scatenare, un’altrettanta scomposta reazione da parte del Damiani, questo con furia incontrollabile si scagliò contro Balducci, che travolto dalla forza fisica del giovane Generale, cadde sotto una ripetizione paurosa di pugni violenti. Tutte le guardie gli si avventarono contro nella speranza di porre fine a tanta furia, ma lui si dimenava, colpiva ancora l’inerme Balducci che sdraiato a pancia all’aria non aveva neppure la forza di darsi riparo; tra quella baraonda generale successe l’impensabile, un colpo di fucile echeggiò forte nella piazza creando un tombale silenzio, Damiani sanguinava, il proiettile gli perforò la schiena, dal gruppo di persone confuse, uscì, facendosi spazio con la forza il farmacista Dersin,
-Lasciatelo respirare!, urlò inginocchiandosi al fianco, lo girò supino, senza neppure curarsi di Balducci, svenuto dalla violenza precedente. Io gli andai vicino, tremavo intimorito per l’accaduto, il farmacista mi disse che lo avremmo dovuto trasportare a casa sua, assieme lo prendemmo, uno dai piedi e l’altro sotto le braccia, ma non facemmo molta strada, il farmacista imprecò, dicendo che non riusciva a tenerlo, del resto lui aveva una corporatura esile, a differenza del Damiani che pesava come un masso, ci venne in contro il tizio dalla barba rossa, quello rivisto nell’ ufficio del Generale al campo, lo prese per le ascelle, e di corsa seguimmo il farmacista. Arrivati, per poco questo “buttò” giù la porta a calci, ci aprì una grassa vecchietta, non appena ci vide incominciò a recitare il padre nostro, ci diceva per di qua, per di là, per poi continuare la preghiera da dove l’aveva interrotta. Sistemammo il Generale in uno studio tipicamente medico sopra un lettino, il farmacista tolse giacca e camicia al Generale, che privo di sensi respirava a fatica, poi urlò alla madre di portare acqua calda e bende pulite, la schiena di Damiani era rossa di sangue, si intravedeva il foro causato dal proiettile, non era proprio in centro ma quasi nel fianco, la cosa rasserenò il farmacista, che concentrato rattoppava il foro con del cotone. La vecchia donna, sempre in preda al padre nostro, arrivò, con in mano, due caraffe d’acqua bollente e le bende sistemate sui polsi.
-Se non siete deboli di stomaco restate, altrimenti fuori!.
E fuori, andammo, ci sedemmo sui gradini d’ingresso, in silenzio osservai quel tipo come la prima volta, dopo di che gli chiesi...
-Come ti chiami?
-Il mio nome è Spartago.
-Piacere allora, io sono Razzio.
Ci stringemmo la mano, poi, lui tirò fuori dal taschino una sigaretta, non mi chiese neppure se ne volevo una, l’accese con un fiammifero spezzato, si voltò verso me sbuffando il fumo.
-Scusa, ma che razza di nome è Razzio?.
-Un nome come tanti, anche il tuo non è molto comune da queste parti sai?. Gli risposi a tono uguale, notando in lui una certa spavalderia. Quella barbetta rossa accentuava il suo facile sorriso, di fronte, alla stranezza del mio nome.
S’appoggiò con i gomiti al gradino di spalle teneva la sigaretta in bocca verso l’alto e osservava la piazza silenziosa ed ambigua come lui.
-Sappi che il mio è un nome importante, Spartago, ai tempi suoi fu Imperatore Disse atteggiandosi nei movimenti.
-No, credo ti sbagli! Precisai.
-Come sarebbe a dire... ora Spartago non era un Imperatore?.
-Esatto! Non lo era, e mai lo è stato! Esclamai secco.
Spartago si tolse la cicca di bocca e sbuffando fumo, si voltò verso me...
-Che mai vai dicendo, come diavolo fa uno che si chiama Razzo.
-Basta ora. Lo interruppi urtato.
-Mi chiamo Razzio!.
-D’accordo... fa lo stesso. Dicevo che puoi saperne tu di Spartago!.
Incredibile, pensai; stavo seduto sulle scale di una farmacia, stanco, sicuramente depresso e parlavo con un tipo convinto che il suo nome fosse quello di uno dei tanti maledettissimi imperatori della storia, era completamente scemo. Gli chiesi da dove venisse, fu evasivo, da qua, da la, comunque saputo che io ero di Azul, mi disse di esserci stato, anzi lo disse ridendo ambiguamente, si colpiva il ginocchio con la mano come colui che ride di gusto.
-Anche questo ti pare strano? Chiesi.
-Cosa? Domandò.
-Come cosa? ti ho detto che vengo da Azul…e ti sei messo a ridere.
-Ridevo del fatto che vi sono stato... che spasso!. Continuò a ridere da solo, spense la sigaretta, ormai col filtro bruciato.
-Allora, credo d’averti visto proprio ad Azul... insomma è tanto che ti osservo sai ma non riesco a ricordare l’occasione.
-Può, anche darsi Rispose.
-Lavoravo li, io, avevo un banchetto al mercato centrale, un banco di frutta, e verdura... ah! Vendevo i migliori cavoli del paese.
-Ora ricordo! Tu eri in fuga dalle guardie governative, la mattina della dichiarazione di guerra! Era così, sentì in me, una liberazione, ora il mistero era svelato; Lui non parve particolarmente “toccato” da quella scoperta, non si scompose neppure un po’, anzi andò ad accentuare il sorriso ricordando la fuga come un felice ricordo. Chiesi curiosamente spiegazioni, m’avvicinai a lui con il divertimento in viso, aspettando pure io, il dettaglio che avrebbe portato un pizzico di gioia, per quei momenti.
-Tutto, iniziò quando presi in affitto un banco al mercato centrale, le cose andavano più che bene, la fila al banchetto mio si allungava giorno dopo giorno, riuscivo a vendere il doppio di frutta e verdura, più degli altri, il segreto stava nei prezzi, due, tre volte inferiori dei rimanenti banchi, insomma soldi e popolarità commerciale, era chiaro come il sole a metà del giorno... Si fermò lì, il racconto.
-Allora che successe?.
Domandai agitato dalla curiosità.
-Bhè...! Una mattina gli altri invidiosi e porci commercianti, chiamarono le guardie, queste incominciarono a chiedermi la licenza, la dannata licenza. Pronto al linciaggio popolare scappai travolgendoli contro il banchetto... Cristo!. Esclamò ridendo.
-Quanto corsi quel giorno e quelle non mollavano la presa, allora, incominciai a svoltare per strade mai viste, seminandole.
Davvero una storia divertente gli dissi, perchè realmente la trovai divertente, insomma io ricordavo la fatica delle guardie nel stargli dietro. Ridemmo assieme, mentre lui, alzatosi in piedi, imitava la corsa delle guardie e di quando gli scaraventò il banchetto con sopra la verdura.
-Sappi, in ogni caso che il divertimento arriva ora…seminate le guardie, mi ritrovai in una via estremamente fangosa, tanto che caddi come un’imbecille, volli rifarmi di tutto, presi del fango, e sul muro di una casa scrissi Combusti stronzooo! Con tanto di tre "o" finali, la mia vendetta era compiuta.
Smisi di ridere, non potevo crederci, mi alzai in piedi, li afferrai il braccio, mentre lui, spaventato, perdeva gradualmente il sorriso, gli dissi:
-Ripeti! Ripeti, la scritta sul muro!. La risposta era giusta, tutto era giusto, la via fangosa, era giusta, il muro con il cancello di legno, era giusto, lui era quello giusto.
-Ma che diavolo ti prende!. Gridò agitato.
-Mi spiace di aver ferito i tuoi ideali politici, mi spiace veramente!. Neppure lo ascoltai, portai rapidamente il mio braccio attorno al collo e di forza lo inchinai al mio fianco, colpendolo con l’altra mano sulla schiena, gli gridai contro di tutto, ma più di tutto gli gridai:
-Quel muro era il mio! Quello era il mio stramaledetto muro!.
Sentivo la rabbia che senza controllo veniva su dallo stomaco, liberandosi tutta nel pugno che selvaggiamente colpiva la sua schiena. Di colpo lasciai la presa, qualcosa, forse la ragione, mi bloccò, lo sentì tossire forte e tiratosi in piedi, Spartago, si portò la mano piegando il gomito verso la schiena, io stanco, sedetti sul gradino con i gomiti sulle ginocchia sostenendomi con le mani la testa rivolta verso il basso,
-Mi dispiace! Non sapevo che il muro fosse il tuo!. Disse Spartago con voce affaticata.
Gli dissi che oramai era andata, scusandomi per la reazione violenta.
-Comunque se ci tieni tanto e se ancora non lo hai fatto, lo posso pulire io il muro. Insomma... ricordo di aver letto che ogni persona si lega affettivamente anche alle cose più strane, ed in questo caso, tu, ti sei legato al muro di casa tua!.
Tirai su la testa guardandolo infuriato.
-Che vai dicendo! Possibile che tu sia tanto “storto” di mente, ti pare che io sia legato al muro di casa mia?.
-Che male c’è, pensa che io ero cosi legato ai cavoli che... insomma... Facevo una fatica tremenda, a venderli.
A scongiurare una seconda mia violenta reazione fu l’arrivo di una guardia, pallida e con la schiena ricurva camminava verso noi con lenta andatura, arrivata, appoggiò il fucile a terra, sedette sul gradino più basso e piangendo chiese del Damiani. Spartago lo riconobbe subito, si trattava della stessa che sparò al Generale, in un pianto per noi imbarazzante gridò che non era sua intenzione sparare, doveva essere così, era molto giovane e probabilmente non sparò mai un colpo prima di allora. Riuscimmo a calmarlo assicurandogli che il Generale stava bene, poi, approfittai nel chiedergli se conoscesse Balducci, lui con forti singhiozzi rispose che tutti lo conoscevano, raccontò che diventò braccio destro di Combusti per via degli articoli di giornale che scrisse in merito alla guerra. Quel ruffiano bugiardo, pensai, si è fatto conoscere come giornalista; potevo solo immaginare la marea d’idiozie scritte pur di conquistare la fiducia di quello sciroccato di Combusti.
-Allora, oggi tristezza generale, uno piange dal pentimento, l’altro perchè gli hanno umiliato il muro di casa... Che paese strano!. Guardai Spartago, e...
-Chi accidenti credi di prendere in giro con quelle parole! Tu, truffatore stupido pensavi di farla franca eh! Ma, ti è andata male... Imbecille! Tranquillo... Continuai, rivolgendomi alla guardia:
- Lui vendeva al mercato frutta e verdura rubata chi sa dove...
-Non era verdura rubata! Precisò subito Spartago.
-Poco importa!. Ripresi.
-Ciò che conta e che sei idiota su tutti i fronti!.
-Lui si chiama Spartago! Diglielo pure tu!. Continuai agitato verso la guardia.
-Che Spartago non era un Imperatore! Diglielo! Diglielo!
Il giovane ci osservò confuso, mentre la mia insistenza, divenne alla pari con l’arroganza minacciosa di Spartago, che mirandolo dritto negli occhi gli ripeteva:
-Provaci! Provaci!.
Di tutta risposta il giovane si alzò e sollevando le mani al cielo disse:
-Grazie Dio! Grazie per avermi evitato il fronte!.
In quel momento uscì la grassa vecchietta e con tono forte di rimprovero, disse di smetterla di gridare, minacciandoci con lo spazzolone da pavimento; nessuno parlò, la giovane guardia scappò via impaurita, riprendendo lungo la corsa il suo rumorosissimo pianto isterico. Entrammo in casa silenziosi come non mai, la vecchia ci fece accomodare in salotto, solare ed ordinato, questo si presentava molto accogliente, quattro poltrone bianche con al centro un basso tavolino di vetro, forse troppo basso, sbattei entrambi gli stinchi nell’accomodarmi; sulle pareti vi erano quadri ovunque, la mobilia interamente in legno scuro con lucide vetrine donava quel grazioso tocco di rustica accoglienza. Arrivò il farmacista, sereno in viso sorrise piacevolmente nel vederci, ci strinse la mano affermando che riuscì, malgrado lui fosse solo un farmacista, ad estrarre il proiettile dal fianco del Generale, chiesi di poterlo vedere, ma, lui accigliandosi in un’espressione negativa, disse che la febbre lo indebolì ulteriormente, era quindi meglio per lui un profondo riposo. Presentati a dovere parlammo, lui ci chiese le nostre origini, gli risposi in modo chiaro, mentre Spartago no, lui, incominciò a raccontare del suo nome e che questo derivava da una nota famiglia dell’antica Roma. Parlò per più di venti minuti, cioè, il tempo che l’anziana donna vi mise nel preparare il thè, raccontava storie incredibili, storie dal sapor mitologico, il farmacista annuiva con lenti movimenti del capo visibilmente stufo da tanto ed inutile esibizionismo, cercava con lo sguardo un qualcosa, che so, forse un oggetto raro, di probabile grande importanza, che potesse porre fine a quel fiume di ridicola fantasia. Accade la cosa più impensabile, ricordo che mia madre una volta con la mente libera dall’alcool, disse una frase, frase che ben si adagiava in quel contesto: -Razzio, se tu vuoi che qualcosa accada pensalo intensamente e questo qualcosa accadrà. E così successe, l’anziana donna arrivò fischiettando dalla cucina, in mano il vassoio del the ed un grande piatto di dorati pasticcini...
- Ecco il the! Gridò fiera la vecchia, che un istante dopo inciampò proprio sul quel dannato e basso tavolino in vetro.
Il vassoio schizzò in aria con tutto il coloratissimo servizio da the, la grassa donna, un cento chili buoni di saggezza, andò ad urtare contro le ginocchia di Spartago, che, grazie alla buona sorte smise di raccontarci le sue antiche origini Romane.
Il thè lo bevemmo ugualmente, ma, seduti in cucina, Spartago, facendo finta di nulla si strofinava le mani sulle ginocchia indolenzite dal dolore. Il farmacista rosso di vergogna, continuava a scusarsi per l’accaduto, invitandoci, come atto dovuto, a stare da lui per quella notte. Accettammo senza ribattere, poiché non avevamo altro posto dove andare. Scesa la sera, la vecchia ci diede una saponetta a testa e disse di averci preparato un bagno caldo, per disagio all’acqua corrente, nel piano superiore, non potevamo svuotare la vasca e nuovamente riempirla, quindi, ci consigliò di affrettarci a fare il bagno prima che l’acqua si freddasse. Perso lo stupido gioco al pari e dispari fatto con Spartago, per definire chi dei due avrebbe per primo fatto il bagno, aspettai fuori dalla porta. Lo sentivo gridare.
-Porca ladra! Quanto bene si sta. Diceva sempre quelle parole, alle volte le alternava con strani versi come un ululare da lupo, con lo scopo di elogiare ulteriormente la vittoria a quello stupido gioco, che lo decretò vincitore al primo bagno. Io fuori nel corridoio altro non potevo fare che osservare il pigiama datomi dalla vecchia, era orribile, a dir poco orribile, blu notte con sottili striscioline gialle, sulla maglia vi erano incisi tre limoni sorridenti, si, proprio cosi, vi erano stati posti diversi “passi” di cucito sino a creare occhi, orecchie contornati da un sorriso idiota. Ma, che diavolo di fantasia dicevo in me, insomma, un pigiama è un pigiama, la vecchia mi disse di averlo fatto per la laurea del figlio, ma, d’essersi resa conto d’aver sbagliato le misure... Già, le misure, pensai, altro che misure sbagliò. Spartago finì, uscì dal bagno sorridendo, nel vederlo provai un certo piacere, anche il suo vestire notturno non era proprio elegante, il pigiama era tutto rosso con una bella margherita in fiore sul petto.
-Anche tu vittima delle bizzarre fantasie di una donna?. Alludeva ovviamente al mio pigiama ben sapendo che il suo non fosse migliore.
Gli risposi con un gesto, il dito sulla tempia, dopo di che entrai nel bagno. L’acqua malgrado il bagno precedente di Spartago era abbastanza limpida, ma, sopratutto calda, mi spogliai, la divisa non faceva una piega, talmente zozza che i pantaloni parevano stati immersi nell’amido e lasciati essiccare sotto un sole bollente.
Immerso nella vasca non mi sentì più solo, fu come se la mia anima si fosse allontanata dall’ultima volta che feci un bagno per poi ricongiungersi in quel momento, adagiandosi dentro di me, donandomi quella serenità tipica dell’uomo libero e felice.
Nemmeno ricordavo più l’ultima volta che immersi il mio corpo in una vasca; sicuramente a casa mia, penso fosse l’ultima volta, quindi un anno fa, ne ero convinto.
Al campo non vi erano bagni, figuriamoci vasche, ci si lavava nelle buche d’acqua piovana, ora, per comodità ritrovata le nomino buche, ma, li erano delle piscine nel senso più lussuoso del termine.
-Basta! m’ interruppi, non dovevo assolutamente pensare al campo, anzi, non pensare a nulla, difficile a farsi, ma, era cosi, dovevo rilassarmi in quella vasca, chiudere gli occhi, immaginare interminabili pascoli verdi macchiati dal bianco di margherite in fiore.
-Razzio? La vecchia dice se hai finito!.
Spartago urlò come un dannato, dallo spavento ricordo d’aver sbattuto ginocchia, gomiti e testa ad ogni capo della vasca, lo maledissi imprecandogli contro di tutto, lui con un ridere fastidioso andò via.
Indossato l’orribile pigiama, scesi in cucina, con l’approvazione del farmacista, feci visita al Generale, il suo viso incominciava a riprendere colore naturale, sebbene le smorfie del dolore visibilmente presenti.
Dormiva profondamente per via dei tranquillanti somministratogli, ad ogni modo ebbi la certezza che Damiani era oramai fuori pericolo.
Quella sera mangiai come da tempo non accadeva, ricordo ancora la cena, zuppa di pasta e patate, meravigliosamente saporita da tocchi di lardo in soffritto, bruschette di pane casereccio tostato all’aglio, che ben s’accompagnava al sapor intenso del vino, che incontrollato al narrar di felici e simpatici ricordi del farmacista, scendeva giù con immenso piacere. Chiudemmo la serata in salotto, riportato a nuovo, dall’anziana donna dopo l’incedente pomeridiano. Fumai il sigaro, era la prima volta, sentì subito un sapore amaro in bocca, seguito da un graffiare in gola che mi provocò un forte tossire, risi con Spartago e il farmacista per quella mia inesperta boccata di sigaro.
- Ditemi giovanotti, che farete ora? Chiese Dersin.
-Sinceramente non so. Risposi.
-Io, voglio accettare la terra offertami dal Governo! Disse sicuro Spartago.
Il farmacista spense il sigaro e guardandoci disse:
-Io, avrei dei progetti!.
-Quali? Chiesi.
- Sapete il perchè di questa guerra? Intendo... il vero motivo di questa guerra!.
Rimasi in silenzio, confuso, il timbro di voce assunto dal farmacista non mi piacque neppure un po’, era fermo su quella poltrona, osservandoci in attesa di una risposta.
-Io so solo perchè ci sono finito in questa guerra, vendevo senza licenza al mercato! Disse Spartago ridendo. Io non gli volli dire il mio perchè, lo trovavo imbarazzante.
-So di un traffico d’armi, competizioni politiche, insomma tutte storie strane... Ecco! Gli dissi.
Dersin sospirò profondamente, riaccese il sigaro coprendosi il viso dal fumo.
-Tutte chiacchiere il traffico d’armi!.
-Capite, solo chiacchiere inventate per distogliere l’attenzione sul vero motivo di questa guerra!.
-Quale sarebbe il motivo vero allora? Domandai.
-Conoscete la grotta del gufo?.
-Grotta del gufo? Ripetei.
- No! Conclusi.
-Neppure io, non la conosco! replicò Spartago con aria attenta.
-Ebbene, la grotta del gufo si trova fuori dal paese.. Il racconto del farmacista venne bruscamente interrotto dalla madre, che entrata in salotto, gridò:
-Guardie Governative!
-Che accidenti vuol dire Guardie Governative? Gridò Spartago.
-Le stesse che ti hanno arrestato... Idiota! Gli dissi.
Mi augurai che la donna si fosse sbagliata, scherzi di vecchiaia, che so, ma non era cosi, il Dersin guardò alla finestra, quanto bastava per confermarcelo.
Cercavano noi, il farmacista ne era convinto, ci disse di scappare dal retro, subito e senza perdere tempo.
-Scappare? E dove accidenti scappiamo?! Disse Spartago agitato. Le guardie, annunciandosi, bussarono alla porta, mentre noi spaventati fummo accompagnati dal farmacista, che agitato, c’indicò la fuga dal retro. Veloci come il vento percorremmo quelle strade buie e fortunatamente deserte, in punta di piedi come ladri, c’infilammo in strette vie di strade ciottolate, trovando un momentaneo riposo sotto una scala in pietra.
-Dio fulmini il farmacista! Imprecò Spartago a bassa voce.
-Il farmacista?... Non centra nulla lui Dissi.
-Centra! Almeno poteva darci i vestiti...! Mi sento orribile!.
-Mi dici che diavolo facciamo qua e sopratutto dove accidenti andiamo conciati in questa maniera?.
Entrambi stavamo stretti in quel sottoscala, le idee non affioravano di certo, la notte fonda, poi, i consigli se li teneva, tutti per se. Spartago si alzò, guardò in giro per la strada deserta e silenziosa, poi guardandomi...
-Che serata incredibile! Non posso crederci! Siamo dentro ad un orribile pigiama, immersi in una notte da schifo e tutti dormono...! Sveglia gente! Alzate i vostri grassi culi dai letti!. L’incontrollato urlo di Spartago venne sentito, una luce di una casa innanzi a noi s’accese, da una finestra si affacciò un tale, la luce delle stanza dietro le sue spalle, mise in chiaro, il folto di una barba lunga.
-Che diavolo ti strilli matto! Va via! Se scendo ti prendo a calci in culo!.
La spavalda risposta di Spartago non si fece attendere.
-Cos’è che fai barbone! Occhio! Non sia io a salire da te!.
Dissi a Spartago di smetterla, ma lui continuò si mise ad urlare ancora più forte.
-Ehi! Ehi barbone! Ascoltami, non avresti in quella topaia di casa degli abiti più civili dei nostri pigiami?.
L’uomo, non era più alla finestra.
-Non preoccuparti Razzio! Ho l’uscita sotto controllo! Disse sereno Spartago, che fisso con lo sguardo alla finestra rideva spavaldo.
Io m’alzai dal sotto scala e m’avvicinai a lui, tutto era silenzio, solo la finestra di quella casa era accesa, dissi a Spartago di lasciar perdere, di venire via, lo minacciai di lasciarlo solo, non convito io stesso non lo feci.
Dio, pensai, era tutto rimbecillito, possibile che non capiva, con tutti i casini che avevamo, lui, imperterrito continuava quella ripicca nei confronti di quel tizio.
-Andiamo via, tanto quello s’è cagato sotto!
-Ti sbagli bastardo!.
L’uomo ci apparve nel buio, al nostro fianco, uscito anche lui da qualche porta sul retro, ci venne addosso con un forcone da fienile, era veramente incazzato, io, rapidamente guardai Spartago, che agile come un coniglio, corse in direzione opposta da quella precedente. Lo seguì, senza pensarci due volte, corremmo, corremmo veloci, l’uomo dietro di noi imprecava infuriato e temibile, Spartago, avanti a me, urlò di tutto, capì, vedendolo saltellare che aveva preso qualcosa sotto il piede, speravo non fosse un chiodo o del vetro, si voltò verso me e ridendo, come un fuori di capo, gridò...
-Il barbone è quasi andato!.
Riprese la corsa, io mi voltai verso l’uomo, era sfinito, lanciò contro di noi il forcone come ultimo ma, insignificante gesto di una collera sfinita anch’essa, in quella corsa affannosa. Ci fermammo cinque minuti dopo, il fiato grosso di entrambi risuonava in quel silenzio assoluto, m’ inchinai, sentivo in me il calore, tipico dopo uno sforzo del genere, dal naso mi colava un freddo “ruscello” fastidioso, che con la mano, cercavo di fermare.
Eravamo fermi in una zona di campagna dove non vi erano segni della guerra, pareva tutto un altro ambiente, la strada fiancheggiava case tutte uguali in altezza, con intorno, giardini dai bassi muri di cinta. In silenzio camminammo alla ricerca di un posto per sederci e pensare, la fantasia non fu tanta, sedemmo sotto un albero poco lontano dalla strada. Spartago con il piede indolenzito, lamentoso per il freddo ora aggressivo, imprecava come suo solito contro il Dersin e la madre, che senza complimenti definì:
-Racchia Grassa e Matta!. Concludendo la sua lamentela con l’incidente avvenuto nel salotto, dove, vedemmo il thè per aria e l’obesa donna sulle sue ginocchia.
In cuor mio ero convinto di questo:
prima ero sicuramente sfortunato, mai una volta che le cose andassero per il giusto verso, ma ora con Spartago a fianco la questione fortuna diventò sempre più critica, con lui mi capitò in un giorno, ciò che in passato accadeva alla settimana, pensai in cuor mio di lasciarlo, lì sotto quell’ albero, per quella strada buia, in quella folle notte che neppure la luna, assente, volle illuminare; Ma, io dentro non ero cosi, sicuramente altri lo avrebbero fatto.
La mia mente tornò a “scavare” quel pensiero assillante, che la notte nell’infermeria al campo mi contorse in una confusa girandola d’emozioni contrastanti, con l’interrogativo...
-Sono debole?.
Quella sera nel letto freddo dell’infermeria, provai felicità nel grado da sergente... Perchè debole? Senza alternative? Come un impiccato, col collo al cappio!
Non riuscivo a lasciare Spartago lì, da solo, perchè non potevo fare altrimenti,
ero confuso, sentivo il mio cervello che a fatica riusciva nell’intento di stare a galla da quei pensieri, guardava in giro, verso quella lunga strada, buia e deserta, il cantico inquietante di uccelletti notturni rendeva quel posto sinistro e misterioso, mentre il freddo, pian piano saliva, penetrando dalla stoffa dell’orribile pigiama variopinto.
Spartago strofinandosi le mani, a fine di darsi calore, ricordò le parole del farmacista, in merito alla grotta del gufo, domandandosi ripetutamente che mai vi sarebbe stato. Io voglia di pensare non ne avevo più, lo maledissi a gran voce, come maledissi il giorno e la notte, la guerra, l’orribile pigiama e pure gli uccelletti e il loro strano cantico; nascosti tra i rami come cecchini, parevano in vena di sfottò contro di me e tutta quella dannata situazione. Mi alzai di scatto, raccolsi un sasso e lo tirai dall’altra parte della strada, da dove perveniva il fastidioso cinguettar, gli uccelli si alzarono in volo e nella notte fuggirono spaventati.
-Che ti prende? Domandò Spartago.
-Domanda idiota...! Come... Cosa mi prende? Ribattei urtato.
-Stiamo vagando come fantasmi, al freddo, fuggendo da tutti, e tu, mi chiedi che mi prende!.
-Esatto! Ti chiedo... Che ti prende?.
Dopo un breve silenzio Spartago si alzò, continuava con forza a strofinarsi le mani, alternando ugual movimento nelle braccia e nelle gambe, disse che l’ultima cosa da fare, era proprio farsi intrappolare dal panico, propose di continuar la camminata per trovare un posto ove dormire.
Ci incamminammo lungo la strada buia avvolta nel silenzio, di tanto in tanto interrotto dall’abbaiar di cani lontani. Stanco e infreddolito seguivo Spartago che silenzioso si guardava in giro, ogni tanto la sua camminata venne interrotta dal dolore al piede, dolore procuratosi dalla folle corsa precedente. Percorremmo la strada per un’altra mezza ora più si andava avanti e meno erano le case, proposi di tornare indietro, bussare ad una casa e chiedere aiuto. Già, Spartago, non aveva tutti i torti nel farmi notare le difficoltà che avremmo incontrato in quella mia proposta, che mai avremmo raccontato:
-Buona sera signori, scusate per l’ora, ma, siccome che io ed il mio amico siamo in fuga dalle guardie governative non è che per gentilezza potreste lasciarci dei pantaloni?
Magari gli avremmo chiesto pure un bel maglione, delle scarpe comode e sempre per gentilezza, ospitalità per la notte. Aveva ragione Spartago, chi mai in piena notte, svegliato da due giovani con le facce stravolte dalla stanchezza e pallide dal freddo, si sarebbe obbligato a dar soccorso a due come noi, in pigiama per giunta?
Restammo fermi per alcuni istanti, poi, udimmo non lontano una voce, non riuscivamo a capire da dove perveniva con esattezza, Spartago afferrandomi il braccio m’indicò di seguirlo.
Andammo poco più avanti, ricordo, nell’aria un leggero odore di cenere, come se nei paraggi vi fosse un fuoco acceso, guardammo attorno senza, però, vedere il bagliore tipico delle fiamme, poi, la voce tornò a farsi sentire, era di un uomo, cantava, o meglio cercava di farlo; il timbro rauco e soffocato proveniva da dietro un tratto di vegetazione posto al nostro fianco, trovammo un breve sentiero, che in silenzio salimmo, vedemmo un’ombra poco lontano, un cerchio di pietra tratteneva delle braci che il leggero bagliore, ne illuminava, la sagoma di un uomo. Noi ci avvicinammo cautamente, l’uomo non mostrava segni d’alcun tipo, continuava a cantare come se non si fosse accorto di noi, poi, con un gesto improvviso, alzò il braccio con, in mano una doppietta a canna mozza.
-Diavolo... fermi dove siete, o sarò costretto a tirare un paio di colpi!.
-No! Non spari, non vogliamo fare nulla di male!. Dissi spaventato.
-Allora che diavolo andate a cercare in piena notte! Chi siete?.
-Siamo due soldati o meglio ex soldati, siamo in pigiama, vorremo solo scaldarci un momento!. Cercai d’essere più chiaro possibile, l’uomo impassibile non si voltò neppure verso di noi, lo trovai insolito, in questi casi uno per timore balza minacciosamente in piedi, invece questo, sdraiato, ci voltava le spalle tenendo alto e fermo il braccio, nonostante il peso dell’arma ben impugnata contro di noi. L’uomo dopo un silenzio riflessivo abbassò l’arma e invitandoci ad avvicinarci, sedemmo vicino al calor delle braci, il tizio tirò fuori della carta di giornale, la accartocciò per poi gettarla in mezzo alle braci, al baglior della fiamma improvvisa ebbi un sussulto, sia io, che Spartago, vedemmo chiaramente il viso dell’uomo; i suoi occhi, o meglio, ciò che ne restava, erano completamente bianchi, ciò, ci fece dedurre che questo, era cieco.
-So, che non lo farete Disse l’uomo accarezzando l’arma.
-In tal caso sappiate che, alle volte non vi è miglior tiratore di colui che vede poco, quindi... occhio!.
Alludeva allo stupore nostro, quando sorpresi ci accorgemmo della sua cecità. Tranquillizzammo l’uomo e noi stessi, dopo quell’ episodio, si creò un rapporto sereno e disinvolto, ci presentammo, il suo nome era Ernesto, solo questo disse, ne io ne Spartago chiedemmo il cognome, gli raccontammo gli ultimi avvenimenti accaduti, ma lui disse di non saperne nulla, era cosi, neppure sapeva della guerra appena conclusasi, disse di dormir sempre per strada, l’aspetto suo descriveva la sincerità, vestiva un cappotto lungo e sporco, un cappello in testa e scarponi di cuoio. Spartago scherzò tanto con quell’ uomo, gli faceva battute di ogni genere, gli chiese persino che effetto facesse mangiare un boccone dopo settimane di digiuno:
-Quando arriva giù, rimbomba come un batter di mani in una stanza vuota. Rispose l’uomo ridendo di gusto, sembrava che i due si conoscessero da tempo. Tra una battuta e l’altra chiesi informazioni sulla misteriosa grotta del gufo.
-La grotta del gufo? A già... cosa volete che vi dica, sapevo che qualche tempo fa, un tale, Antonio Caresci, venditore di sandali da spiaggia, proprio in quelle zone disse di aver trovato dell’oro!.
-Oro? Ripetemmo in coro io e Spartago.
-Si oro, non so dirvi di più, è storia vecchia, comunque, un libro già letto.
-Cosa vuol dire, che non è vero nulla?. Domandai.
-Sia verità o meno, non so, una cosa è certa, successe già una ventina d’anni fa, un’altro tizio disse di aver trovato un blocco d’oro in quella grotta, si mise a scavare e scavare sino a quando, una parete di terra, non lo seppellì; quel giorno dovettero continuare a scavare e scavare per tirarlo fuori da lì, il bello è che si dovette scavare ancora, per fargli la tomba. L’uomo, concluse sorridendo quel suo racconto, io e Spartago trovammo in brevi sguardi, la reciproca convinzione di andare quella miniera.
-Avete voglia di saper dove si trova quella grotta... vero? Ad Ernesto gli bastò ascoltare il nostro silenzio per percepire la nostra volontà.
-Vi ho detto che quel tale è un venditore di sandali da spiaggia?
-Certo, lo ha detto prima!. Risposi.
Restammo in silenzio, aspettavamo entrambi di sapere dove si trovasse questa miniera, l’uomo, però, anch’egli in silenzio, continuava a sorridere muovendo lentamente il capo, poi disse:
-Camminando lungo la strada che conduce fuori paese, incontrerete un probabile paesaggio di campagna, il tanfo del letame sarà tale da farvi ammirare un pascolo di vacche, salvo che, in quelle zone non le abbiano mangiate tutte le vacche. Di là, a dopo, annuserete, forte l’odore della salsedine, ove, con vostra deduzione intuirete l’avvicinarsi del mare. Proseguendo lungo la strada vedrete sulla vostra sinistra il folto di una pineta, l’aria sarà gonfia di resina, che accompagnata dal vento di mare, guiderà, voi, verso la grotta del gufo.
Questo era tutto, Ernesto ci propose di passare la notte lì con lui, accettammo, diede una coperta a testa, male odoranti, però calde, ci mettemmo vicino al fuoco, tornato ormai ad essere un mucchio di braci morenti. Osservavo il vecchio, sistemandosi con cura la testa, appoggiandola sopra ad un improvvisato cuscino fatto con carta di giornale.
-Lei è stato sempre cieco?. Gli chiesi.
L’uomo si portò la coperta sino a coprirsi l’orecchio, con bruschi movimenti voltò la schiena verso il calor delle braci e rispose:
-Il non veder mai la luce del sole è un crimine, pensa l’averlo visto anche solo per un giorno, per poi ritrovarmi immerso, nel buio più profondo.
Era un no, non aveva mai veduto nulla, triste pensai, vagare nel mondo senza poterlo vedere, al solo pensiero mi correvano i brividi per la schiena, ma un nuovo pensiero, incominciò a girarmi per la testa, se Ernesto, non vide mai in vita sua, come accidenti sapeva di quella strada, dei campi, vacche e di tutto ciò che descrisse come avendolo visto? Già, pensai, tranquillizzandomi, lui sentiva gli odori, accendeva la fantasia su quei luoghi, ascoltandone i profumi.
Allora, tutto tornava, l’odore del letame di vacche corrispondeva con probabili pascoli, salsedine, con il mare e resina, una pineta. Provai un senso di sollievo, questo, diede la conferma, che quei luoghi vi fossero per davvero, magari il vecchio Ernesto si augurava che fossero cosi, come da lui descritti, in ogni caso, la questione era tale da meritar un gran sonno riposante, mi addormentai pensando all’oro di quella miniera dal buffo nome.
Il mattino seguente mi sentivo tutto un dolore, dormì con la testa sulla mano per evitare il contatto con la terra, l’orecchio indolenzito dal peso della testa pulsava un dolor fastidioso, sentì, come il sangue tornò a circolare attorno ad esso, poi, il naso, la notte lo aveva ghiacciato, lo tenni fuori da sotto la coperta per non respirarne il tanfo dello sporco. Spartago, a differenza mia, si vegliò col sorriso sulle labbra, i suoi capelli rossi erano tutti un disordine, si sedette e portandosi la coperta sulle spalle, disse: -Caffé! Caffè!.
Il vecchio Ernesto sveglio molto prima di noi, acceso il fuoco, preparò il caffé, fu più quello che cadde a terra che quello riposto nell’apposito filtro. Tolse dal mezzo d’alcuni stracci una borraccia rivestita di pelle, legata attorno con un laccio di spago bianco, conteneva acqua che usò per completare la preparazione del cafè. Aspettammo l’avvenimento che lentamente veniva fuori da quella caffettiera, Ernesto chiese di versarlo nelle tre tazze, poco prima sistemate dal vecchio, due di queste, erano rotte nei bordi e se pur pulite, macchiate dai tanti cafè precedenti. Versato con qualche imprecazione da parte di Spartago, che si bruciò un paio di volte, il vecchio prese dalle sue tasche una boccetta verde, pareva una di quelle tipiche dei profumi, con il vetro lavorato tutto in torno, tolse il tappo di sughero e annusando intensamente il contenuto della boccetta, disse con fierezza:
-Inconfondibile!.
Era grappa, la versò nelle tre tazze affermando che non avendo zucchero, quella avrebbe migliorato il gusto al caffé.
Migliorato o meno, quel caffé era una poltiglia nera come pece, dal sapore fortemente amaro, scese giù con il solo beneficio di riscaldare lo stomaco, fortemente provato dal freddo notturno. Con Spartago parlammo chiaro, trovare quella grotta nella speranza di trovarci pure la sorpresa oro, speranzosi sul futuro, salutammo il vecchio Ernesto, che prima di andare via, chiese, per la terza volta:
-Vi ho detto che il Caresci era un venditore di sandali da spiaggia?. In coro, rispondemmo nuovamente si, tornammo sulla strada, lasciandoci il vecchio cieco alle spalle, assorto in una strana risata. Eravamo nuovamente in cammino questa volta con una nuova meta, la grotta; il nostro primo problema si rigettava nel trovare degli abiti civili e anche delle scarpe.
Camminavamo nuovamente in quella strada lunga e deserta, che ci riportava verso quelle case con il giardino attorno, cammino andando discutevamo con Spartago sul da farsi per raggiungere la grotta, cercando pure di riflettere, su quella strana risata del vecchio Ernesto, riflessioni concluse con deduzione non proprio fantasiosa da parte di Spartago:
-La strada può rivelarsi peggiore di ciò che si crede.
Quelle parole dette con un triste accento di ricordi vissuti, rifletterono visibili sul suo volto infreddolito, che, chinandolo verso il basso, lo vide sospirar forte come per liberarsi da un peso che lo opprimeva da tempo. Lungo la strada ci venne in mente una grande idea, da una casa vedemmo uscire una donna, nel giardino vi erano degli abiti stesi, la donna si allontanava rapidamente verso il centro del paese; noi aspettammo dietro un albero che questa scomparisse lungo la via, poi corremmo verso la casa, ove, scavalcammo il cancello ed entrammo nel giardino.
-Razzio io prendo pantaloni e i maglioni, tu guarda in giro se trovi delle scarpe!. Feci come disse Spartago, il giardino, girava intorno alla casa, vi trovai, attrezzi da lavoro, una scala, due gatti, ma di scarpe neppure l’ombra.
-Scarpe nulla!. Dissi a Spartago.
-Va bene, mettiamoci questa roba addosso e poi si vedrà! Vestì gli abiti, erano bagnati:
-Dio, sono fradici! Feci notare urtato.
-La prossima volta dirò a quella donna di stendere il bucato qualche ora dopo, magari, facendoli asciugare col calor del sole. Non volli rispondere alla provocazione, accettai di indossare il vestito bagnato, dopo di che andammo via di corsa. I vestiti gli avevamo trovati, il primo problema era quindi risolto, il sole, che lentamente si levava davanti a noi, col passare delle ore avrebbe fatto il resto, camminando, notammo un’altra casa, diversa dalle altre, si levava su tre piani, ma la cosa più importante, la notò Spartago:
-Il mio passato alle volte ritorna. Disse, indicando verso il giardino di quella casa; vide un albero con rami così lunghi che uscivano abbondantemente lungo la strada, in questi, vi erano appese delle mele piccole e verdi.
-Quelle sono ottime al primo mattino!. Furtivamente, ci avvicinammo al muro di cinta che proteggeva il giardino, Spartago salito sopra le mie spalle, si arrampicò sul muro, una volta lì, incominciò a prendere le mele.
-Questa, lasciamola al padrone e questa, no, questa al padrone e questa no!. Sceglieva le mele migliori, così, come se fosse al mercato.
-Avanti... muoviti!.
Gli dissi, ricordandogli che non eravamo tanto lontani dalla casa, dove, poco prima rubammo gli abiti.
-Tranquillo Razzio, ne prendo ancora e poi filiamo!.
-Solo una! Prendine solo un’altra e vi buco la schiena a tutti e due!.
La voce minacciosa arrivò da dietro le mie spalle, ebbi paura di voltarmi, ma, lo feci, seguendo le istruzioni del tizio armato.
-Anche tu, scendi lentamente dal muro!. Spartago con un salto, scese:
-insomma, è un’abitudine di queste parti girare con i cannoni in mano!.
L’uomo armato, disse a Spartago di non fare commenti d’ogni tipo e puntandoci il fucile contro, ci ordinò di seguirlo in casa. Sulla soglia, stava un altro giovane, era uguale a quello che ci puntava l’arma alle spalle, stesso viso, piccolo, col naso schiacciato, come quello di un maiale, pelle scura e capelli rasati a zero, persino identici nel vestire, maglione marrone a collo alto e pantaloni verdi chiaro. Entrammo in casa silenziosi, percorremmo un breve corridoio che arrivava dritto in un salottino spoglio e cupo, lì, quello non armato prese due sedie di legno, le affiancò una accanto all’altra e ci ordinò, con voce brusca, di sederci.
-Tutto ciò per delle mele?. Chiese ridendo Spartago.
-Esatto! Tutto ciò per delle mele, spilungone rosso! Decisi risposero.
I due ci osservavano dritto, dritto negli occhi con quelle facce strane, poi, quello armato, con disgusta espressione chiese:
-Parete due matti voi... chi accidenti siete?.
-Noi, due matti?.
Rispose visibilmente sorpreso Spartago.
-Insomma, vista la situazione, pare inappropriato dar dei matti a noi, per delle mele prese dall’albero, ci avete sequestrato puntandoci un fucile addosso, quindi, non mi pare d’esser noi i matti!
-Diavolo... ma che vuol dire tutto questo!.
All’espressione, chiaramente confusa del giovane armato, io risposi:
-Quello che ti va dicendo l’amico mio, è che, puntare un’arma contro chi prende... quante? Tre o quattro mele, insomma, pare un tantino da fuori di capo... se ti avessimo rubato il mobilio di casa, che accidenti avresti fatto?>>.
-Avrei di sicuro sparato!.
Risposero entrambi decisi, con quei loro volti incredibilmente brutti e violenti, continuavano ad osservarci come bestie rare, pareva che, sino ad allora, mai avessero visto dei loro simili. Ricordo che una volta lessi in una rivista dai temi sociali, intitolata: “Siamo tutti brutti”.
Questa scriveva che, dai lineamenti di un uomo puoi dedurne la personalità, riuscendo a riannodare il suo passato, costruendo da questo, il proprio futuro. Allora, chissà che ne avrebbe tradotto l’autore di quello scritto, avendo visto le facce di quei due gemelli:
“Bassa scolarizzazione, comportante: Cultura insicura ed arretrata, deducendone: ignorante stupore innanzi ad una presunta diversità, con probabile soggezione nel concepirne il nuovo, autodifesa banale, con utilizzo della violenza tramite armi da fuoco”. La rivista centrava il segno? Siamo tutti brutti, quindi, anche io, nella situazione dei due gemelli, avrei puntato l’arma contro di loro, non tanto per il furto di alcune mele, ma, per aver sconfinato gratuitamente nei miei spazi personali? Ciò vuol dire, che io, avrei dovuto puntare un’arma contro Spartago per ciò che scrisse contro il muro di casa mia, obbligandomi a sopportare una guerra e tutto ciò che segue?
Allora di Balducci, che farne mai? e dei suoi lineamenti da bastardo?.
Insomma tutti pronti, spinti da una situazione di disagio a mostrare il peggio di noi, seppellendo vivo il prossimo, accecati da una vittoria di violenta supremazia?
No e poi no, non ero d’accordo, non poteva essere cosi, che mondo sarebbe mai, una vendetta continua, mi levi un dito ed io ti levo un braccio? Scrivi sul mio muro di casa, Combusti stronzoo, ed io ti sparo in testa? No non credo affatto che siano i lineamenti a fare una persona, ma, bensì la persona ad incidere su questi.
Tutti e quattro, chiusi nella morsa del silenzio ci osservavamo, confusi e stanchi, i nostri sguardi, quasi si toccavano in un pensare contrastante.
Di lì a poco, udimmo dei passi dall’esterno, che affrettati, venivano verso la porta d’ingresso, notai i due gemelli perdere la rigida espressione di controllo verso di noi, rilassandosi, come dopo una paura svanita in leggeri e ambigui sorrisi.
Conoscevano bene quello che oramai era in procinto d’arrivo in quel salottino cupo e triste, e quando questo, apparve ai miei occhi, ebbi un blocco alla gola, la saliva s’impastò velocemente sotto la lingua in una frenetica respirazione, per scendere come un fiume in piena giù in gola, raschiandone le pareti secche.
?"Don Vittorino! Gridai emozionato alzandomi di scatto, provocando così l’immediata reazione dei due gemelli.
-Fermi! Gridò ai due giovani il parrocchiano, lasciando cadere al suolo le due buste da spesa, che saldamente teneva poco prima in mano.
-Lasciatelo! Lo conosco! Era al fronte con me!. L’emozione, mia e del parrocchiano, scansò come d’istinto i due gemelli, lasciando così spazio alla libera esibizione di contentezza reciproca. Finito l’incantesimo emozionale di quel insperato ritrovo, il parrocchiano ci fece accomodare in cucina, ambiente anche questo buio e triste come il salotto, dalle veneziane impolverate filtravano sottili i raggi del sole, evidenziando il cullare di piccoli pallini di polvere, sostenuti tra il nulla di quella stanza, dai nostri stessi respiri. L’ambiente rallegrò, quando, una tovaglia rossa con grandi fiori gialli, rivestì il tavolo di legno, dove poco dopo il parrocchiano adagiò, con fiera espressione d’allegria, due filoni di pane, un salame dall’intenso odore casereccio ed una bottiglia di latte.
Mangiammo tutti e quattro, chiusi in cerchio di quel tavolo non proprio stabile, consumammo quella colazione, a suo modo abbondante, il parrocchiano volle sapere gli eventi che spinsero me ed il mio compagno Spartago a portarci lì, in quella casa, gli dissi degli ultimi avvenimenti, di ciò che accadde nella piazza del porto la mattina scorsa, del ferimento del Generale Damiani da parte delle guardie Governative, guidate da quello stramaledetto Balducci.
Don Vittorino annuì con il capo come se sapesse già tutto, gli parve banale, almeno questo sembrò descrivere l’espressione del suo viso, ma quando parlai, del breve tempo trascorso nella casa del farmacista Dersin, si arrestò, inghiottì con forza il boccone, afferrò il bicchiere di latte, bevendolo come affrettato a porre, stupite domande.
-Razzio!. Disse, agitato il parrocchiano, che asciugandosi di gran fretta la bocca dal bianco del latte, prese la sedia e si accomodò al mio fianco.
-Vuoi dirmi, che siete stati a casa del farmacista Dersin?.
Vittorino non diede tempo di risposta, ripetendo con più agitazione, nuovamente la domanda.
-Si, siamo stati da lui perchè è lì che il Generale è stato portato dopo il ferimento, lui lo ha ricucito, avendogli estratto il bossolo dal fianco.
Il parrocchiano agitò entrambe le mani, contorcendo il suo viso in un’espressione di disappunto.
-Non voglio sapere chi ha salvato il Damiani, ma, bensì, se il farmacista vi ha detto qualcosa in merito ad eventi sensazionali!.
Sino ad allora, mai vidi il parrocchiano in quello stato, pareva come impazzito all’improvviso, mi teneva il braccio, lo stringeva forte, come preso da una morbosa voglia di sapere, mi voltai verso Spartago per cercar nel tempo di uno sguardo un silenzioso ma importante consiglio, lui mi guardò sbarrando gli occhi sino all’impossibile, come dire: La grotta! La grotta!. Almeno questo pensai.
-Il farmacista parlò di una grotta!. Dissi.
-Del gufo? Razzio la grotta del gufo... vero. Urlò il parrocchiano.
Gli risposi sì per tre volte, seccato, da tanta insistenza, Vittorino si alzò in piedi, lentamente camminò su e giù per la cucina, immerso in un silenzio interrotto solo da lievi suoi colpi di tosse. Poi, con il viso segnato dallo sconforto tornò a sedere incrociando le gambe e appoggiando le mani sulle ginocchia, lì per lì, mi ritornarono in mente, alcuni, suoi strani comportamenti, quasi evasivi dal circostante periodico; comportamenti in parte misteriosi, come la volta che lo segui infilarsi tra il bosco nella vallata, sotto quella pioggia battente, per raggiungere chissà chi e scambiare misteriose informazioni. Vittorino consapevole che la sua esibizione singolare, lo espose al centro di sguardi perplessi, con un profondo sospiro si ricompose, in una postura meno appariscente. Superato il disagio, ci presentò i due gemelli, Gaetano e Rocco, figli di una sorella di Don Vittorino, che orfani, andarono a vivere con lo zio, per l’appunto il parrocchiano.
-Allora. Disse il parrocchiano:
-Il Dersin vi ha informato della grotta, sapete come detto della presenza dell’oro, però, l’unica cosa che non vi ha potuto dire, è, chi ha la mappa per trovare senza troppe difficoltà, l’oro!.
-Vi è pure una mappa?. Chiesi.
-Certo, che ti credi di trovarti l’oro appena dentro la grotta? Disse Gaetano con tono provocatorio.
-No, al contrario, io non penso più a nulla e vi dirò di più, io a questa storia incomincio a non vederci tanto chiaro... grotta! Oro... insomma, chi accidenti ha lasciato quest’oro, un antenato vostro?. Conclusi seccato da quell’ambigua situazione.
-No, Razzio, nessun antenato, chi lo ha lasciato lì non si sa, o forse, non interessa a nessuno saperlo, l’unica cosa certa è che, quell’oro sta all’origine di tutto, della guerra, dell’atto di generosità compiuto dal caro e astuto Dersin, che, donando aiuto al Generale Damiani si è aggiudicato, una buona fetta di quel tesoro.
-Ma... cosa vuole dire tutto ciò?. Chiesi.
-La guerra, Razzio non è iniziata per i traffici illegali d’armi, quella oramai è storia vecchia, Combusti venne informato della presenza di questa grotta con il segreto del suo oro, non avendo trovato altro che fare, per accaparrarsi la fetta più ingorda della torta, decise di dichiarare guerra a Domenici. Inizialmente, come tu ricorderai, non vi fu un vero scontro, tutto ciò per prendere tempo in trattative, andate poi a monte, allora per dare un definitivo taglio, Combusti inviò il giovane, quanto determinato Damiani, affidandogli l’eroico compito di entrare a Domenici, prendere il controllo della città, per poi, metterlo da parte, e cosi iniziare la ricerca di quest’oro... capisci, è tutta politica d’oro!>>.
-E lei si presta al gioco di tutta questa marmaglia ignorante?. Chiesi con tono forte al parrocchiano.
-Come puoi dire questo, Razzio... io con i miei nipoti faccio il mio gioco, non il loro!.
-Sarà come dice lei Don Vittorino, però io mi sento deluso, profondamente deluso da lei, dove ha nascosto i suoi tanti discorsi di umanità conosciuta nel deserto... lei, ha lasciato marcire i suoi sogni per rincorrere un mucchio d’oro, che scivola sempre più in basso trasportato da un fiume di falsità e idiozia!
Mi dica, che vuole da me ora, che lo aiuti a trovare quell’oro...? É questo che vuole propormi, lo dica, io l’aiuterò, aiuterò lei e i suoi strani nipoti, che per tre o quattro mele hanno imbracciato un fucile contro di noi, lasciandomi a questo punto il dubbio di scoprire, che mai saranno capaci di fare per qualche granello di quell’ oro!.
-Parli senza sapere. Replicò il parrocchiano a volto basso.
-In questa storia vi sono vari tipi di sogni che mescolati ad altrettanti vari comportamenti, ne tracciano i confini della realizzazione, vedi Razzio, io voglio realizzare un sogno pratico e speranzoso; ti raccontai il mio tempo nel deserto, ebbene, quello è il mio sogno, l’oro, altro non mi servirà che portar agio a quelle popolazioni, realizzare per l’appunto, tanti sogni di speranza.
Il viso del parrocchiano fu segnato da una triste espressione, confusa nei suoi lineamenti, questa, trasmetteva il suo contrasto emozionale, contorto tra la ragione del fare ed il peso d’ideali giusti e rigorosi, che sempre l’hanno accompagnato nel suo pellegrinar religioso. Pareva come immerso in una sfida con se stesso, lottava tra il senso del giusto, che gli comportava piegarsi contro corrente, sebbene, le circostanze ne violentavano il proprio senso di vita, e l’alleviare il peso del martirio d’ideali, che col tempo lo avrebbe soffocato in un contrastante mutamento.
Insomma, come quello che per salvare dieci vite, si vede costretto a spezzarne due, giustificando la propria scelta in un elogio alla maggioranza. Il senso dell’azione giusta, ben si sviluppò col tempo dentro il parrocchiano, che ad una mia reazione di contrarietà, nel comporre un’alleanza per raggiungere assieme quella grotta, ci minacciò di denuncia alle autorità, essendo noi ricercati per complotto contro il Governo; obbligati dalla situazione, accentammo.
Vittorino aveva previsto tutto, con un piano semplice, ma, a sentir lui efficace, io e Spartago membri di quell’alleanza, particolarmente osservati, con i due nipoti ci saremmo recati a casa della vecchia donna Serafina, quella che, secondo il parrocchiano possedeva la mappa, mentre lui, si preoccupava di trovare un mezzo che avrebbe portato tutti noi alla conquista di quell’oro.
Calzati degli scarponi di cuoio rigido, maledettamente scomodi e doloranti, c’incamminammo verso il centro del paese, era una bella giornata, soleggiata e dall’aria pulita, la lunga strada di tanto in tanto percorsa da automezzi carichi di lavoro, pareva non finire mai, si estendeva dritta come uno stretto tappeto con quel suo color nero pece, a contrastar i lati verdi d’erba nuova primaverile, che a fatica, riusciva nel suo intento di vivere, soffocata nei bordi da quel passar d’asfalto. Spartago nel suo camminar deciso staccava i fili più lunghi di quell’erba, assaporandone il dolce naturale con visibile piacere. In silenzio arrivammo in paese, i due gemelli a conoscenza della via ove si trovava la casa della donna, ci raccomandarono di non dare nell’occhio, consigliandoci di camminar disinvolti seguendo loro.
-Dar nell’occhio? Replicò sarcasticamente Spartago, alludendo ai nostri vestiti non proprio idonei per non passar inosservati; Gaetano non avendo armi in mano lo minacciò mostrandogli il pugno chiuso, come dimostrazione di una prossima scazzottata.
Il tutto venne interrotto dal richiamo violento di due guardie governative, richiamate verso di noi, non tanto dall’agitazione tra Spartago e Gaetano, ma, proprio dal comportamento nostro, prevedibilmente furtivo, alle urla dei due guardiani dal fisico non proprio atletico, seguirono le nostre fughe, inizialmente parallele verso un’unica direzione, poi, in seguito separatesi nella corsa. Io e Spartago non dovemmo faticare troppo per seminare i due guardiani, che come detto, si muovevano goffi, appesantiti dai chili di troppo; trovammo rifugio presso un largo spiazzo, da dove, forte sentimmo l’odore del pane appena cotto, dietro noi vi era per l’appunto un panificio. Ripreso fiato, chiedemmo informazioni ad un giovane garzone, infarinato dalla testa ai piedi, riguardo donna Serafina; in un primo momento il giovane assunse un’espressione confusa, forse, per la nostra insistenza nel chiedergli il punto esatto della casa, poi, come d’incanto abbassati gli occhi dal cielo, il giovanotto s’illuminò di gioia, per la risoluzione del quesito, indicandoci la casa, che manco a farlo apposta, stava al termine di uno stretto vicolo poco lontano da quel panificio.
Decisi entrambi nel muoverci da soli, ridemmo con gusto nell’immaginare le imbecilli espressioni dei due gemelli nel non vederci più, lì con loro. Percorremmo quello stretto vicolo, uno guardando dietro, l’altro avanti, arrivando alla conclusione che quello, doveva essere il retro della casa, il vicolo era buio, al confronto del bel sole mattutino, passammo, in pochi passi dal poetico profumo che il pane dona alla cottura, al tanfo nauseabondo dello sporco visibile al nostro passare. Spartago indicò una finestra socchiusa al primo piano della casa, escogitammo, se pur con qualche perplessità fondata, un modo semplice e veloce per raggiungerla, accatastammo due bidoni presi in prestito da quel lurido vicolo, affinché potessimo arrivarci.
Il piano andò cosi come previsto, il primo a salire fu Spartago, che con la grazia di quelle sue lunghe gambe, con un balzo si addentrò per la finestra, io pure non ebbi problemi, ed aiutato, entrai dentro. Ci ritrovammo in cucina, demmo uno sguardo in giro, era tutto sotto sopra, pentole, mestoli, bottiglie di vetro rotte al suolo, tutto lasciava i segni, che qualcuno prima di noi fece visita a donna Serafina. Comunicando solo con silenziosi gesti, uscimmo dalla cucina, Spartago allungò il collo sulla soglia, sporgendolo una volta a destra ed un’altra a sinistra, con l’udito teso a percepire un suono, un rumore, una qualsiasi cosa che ci permettesse di capire se in casa si trovasse altra gente. Soli, nessun altro all’infuori di noi era in casa, ci addentrammo nel salone da pranzo, buio con le finestre sbarrate, l’odore della polvere era tale, che a mala pena vi si riusciva a respirare, incominciammo col controllare i cassetti, coscienti che se mai, la mappa fosse stata lì, qualcuno prima di noi pensò bene di portarla via.
-Chissà Disse Spartago alla ricerca di qualche colpevole.
-I due gemelli bastardi sono arrivati prima di noi.
Proposi allora di scendere al piano terra, anche se la situazione non sarebbe stata tanto diversa, ma, appena imboccata la scala, risuonò forte una voce minacciosa alle nostre spalle:
-Voltatevi lentamente!. Riconobbi subito quella voce femminile e voltandoci vedemmo, uscita da chi sa da dove, l’anziana madre del farmacista Dersin, con in mano una doppietta, ci puntava contro.
-Non ci riconosce? Chiesi spaventato.
-Si, vi riconosco, non sono una vecchia rimbecillita!.
L’aggressivo tono di voce dell’anziana non fece emergere nulla di buono.
-Cosa diavolo ci fate voi due in questa casa? Chiese irritata.
-Lei piuttosto che fa. Replicò Spartago.
-Senti straccione, io ho un fucile carico in mano e sappi che lo so usare moto bene, quindi, vedi di non farmi incazzare o sarò costretta a bucarti la testa!.
L’anziana posta tra l’oscurità del salotto e il baglior del giorno, non mostrò sul viso segni d’imprecisione, veramente incazzata ci ordinò bruscamente di tenere le mani in alto per aver completamente la situazione sotto “tiro”.
-Allora perchè siete qui?. Volli risponderle io, dicendole, che Vittorino il parrocchiano ci mandò lì per cercare la mappa.
-Don Vittorino. Ripeté per tre volte la donna.
-Quel dannato mangia ostie sa dove si trova la mappa?.
-Si!. Risposi.
L’anziana, restò per qualche istante ferma, vigile su di noi, ma, dagli occhi si vedeva che quella mia rivelazione la scosse, allora, ci ordinò di voltarci sempre lentamente verso la scala e di scenderla sino al pian terreno, lei, con passi affrettati, ci venne alle spalle picchiando la canna del fucile contro la schiena di Spartago, che dietro me, scendeva lentamente le scale.
-Allora, la mappa la cercheremo assieme!. Continuò la donna ridendo morbosamente.
-Anzi, la cercherete voi per me, io farei soltanto disordine!. Concluse lei, accentuando quel ridere folle.
Nelle mie orecchie suonava quella risata, risata grassa, satanica, che avrebbe fatto piangere dallo spavento chiunque. Lentamente, con le mani in alto, scendevo quella scala, quando, un’idea improvvisa, come suggerita da un folletto nascosto chissà dove, mi balenò per la testa, sulla parete che accompagnava la nostra discesa, vi erano appesi dei quadri, pensai di afferrarne uno, scaraventarlo contro la vecchia, nella speranza di distrarla, per poi, prendergli con forza l’arma dalla mano; senza pensarci troppo feci come scritto, purtroppo però, afferrato il quadro, lo lanciai si verso la donna, ma, Spartago impreparato a tale mia azione non si scostò di mezzo, neppure al mio avvertimento, forse troppo tardivo, prendendo in piena fronte lo spigolo della cornice.
Quella mia imprecisione non fu vana, perchè il colpo da Spartago ricevuto, lo fece balzare all’indietro, colpendo quanto bastava la donna per far cadere anch’essa all’indietro, perdendo così la presa del fucile. Immediatamente, calpestando Spartago, stordito dalla botta, m’avventai contro la donna prendendole di forza il fucile, le andai alle spalle invitandola ad alzarsi con le mani in alto.
-Cristo m’aiuti! Cristo m’aiuti se perdo sangue!. Gridò Spartago spaventato.
-Se così è, lascialo pure dov’è, non stai sanguinando!. Gli dissi.
-Dio Razzio... che accidenti ti è venuto in mente... insomma, lanciarmi contro un quadro, per poco mi ammazzavi!.
-Scusami, che altro fare con questa donna armata!. Risposi.
Spartago con entrambe le mani reggendosi la fronte indolenzita, s’alzò osservando duramente la vecchia, poi, con voce grossa disse:
-Vecchia matta!.
-Bastardo!. Rispose pronta la donna,
- Squilibrata!: Ribatte Spartago.
-Straccione morto di fame!. La vecchia.
Spartago abbassò il capo, diede a noi le spalle, riprendendo la discesa delle scale, d’improvviso si voltò con scatto:
-Accattona! paranoica!. Urlò ridendo.
La donna spinta dalla rabbia accennò un brusco movimento, io pronto con in mano il pesante fucile, le ordinai di non muoversi, rimproverando Spartago per il suo continuo ridere.
Terminata quella guerra di verbale offensività, ci recammo al piano di sotto.
-Bene Razzio lega la vecchia matta, così, incominciamo a cercare quella dannata mappa.
- Legala tu!. Risposi contrariato.
-Come sarebbe a dire legala tu? Dai io ti tengo il fucile!.
-No, no, Spartago, io non ho mai legato nessuno, figuriamoci se inizio proprio oggi a farlo!.
-Discorsi idioti Razzio. Disse Spartago seccato.
-Che ci vorrà mai a legare una vecchia!.
- Legala tu allora! Io la tengo sotto tiro!.
Spartago se pur poco convinto, staccò un cordone dell’unica tenda che copriva la finestra del salotto, con aria intimorita si avvicinò all’anziana donna, che infuriata, minacciò:
-Prova a toccarmi lurido straccione!.
Vista l’irruenza della vecchia, decidemmo che Spartago avrebbe cercato la mappa, mentre io avrei tenuto la donna sotto tiro; cercò nei cassetti, sotto il tappeto, dentro i vari comò, ma nulla, poi, sconsolato imprecò contro la donna, divertita dalla situazione, aprendo bruscamente la tenda, osservò fuori.
-Se quella dannata mappa non salta fuori siamo fregati!. Disse Spartago.
-Dev’essere in questa casa, il parrocchiano ha detto così, quindi... Spartago m’interruppe, si voltò agitato verso di me e con voce spaventata disse:
-Cristo santo! I due dannati gemelli!.
Li vidi, loro videro noi, poco lontani camminavano di fretta verso la casa, vedendoci si misero a correre, la donna approfittò di quella nostra agitazione lasciando partire una gomitata che mi centrò in pieno stomaco, riuscì a non perdere di mano l’arma; spingendo la grassa vecchia al suolo, gridai a Spartago di correre al piano superiore della casa, mentre i due gemelli con violenti calci, cercavano di buttare giù la porta.
Troppa, fu l’agitazione di entrambi nel risalire le scale, tanto che, ci scontrammo uno contro l’altro, ove io, da quello scontro, persi il fucile dalle mani, lasciandolo grazie a Dio senza tragiche conclusioni, rotolare giù per le scale. Nello stesso momento i due gemelli entrarono in casa fracassando la porta, mentre io e Spartago ci rifugiammo su al primo piano.
-Fanculo Spartago, mi hai fatto cascare il fucile!. Dissi accompagnando un gestaccio alla mia rabbia, lui non si curò di nulla, da sotto udimmo la voce dei due, che c’intimavano con urla violente di scendere. Mai e poi mai, essendo loro armati, avremmo vinto un probabile scontro, quindi decidemmo senza pensarci troppo di buttarci giù dalla finestra, "Tanto vi sono i bidoni, basterà saltare sopra a questi per attenuare il colpo"pensai; questo sarebbe stato fattibile se quei maledetti bidoni si sarebbero trovati dove noi li lasciammo, invece no, un gruppo di chiassosi bambini li prese, disponendoli al centro dello stretto vicolo come pali di un’immaginaria porta, per il gioco al pallone. I gemelli urlando vendetta salivano in fretta le scale, il suono pesante dei loro passi risuonava forte, malgrado, le urla della vecchia che invocava un tragico nostro finale.
Spartago mi guardò senza dire nulla, dopo di che si lanciò di sotto urlando incomprensibili parole, l’angoscia d’essere io l’ultimo a dover saltare prevalse in me per un istante, risalendo rapidamente la mia schiena in un brivido di paura maggiore; vidi Spartago cadere al suolo, per poi, rialzarsi indolenzito dal violento atterraggio, vincendo il fastidioso brivido nella schiena, presi coraggio, chiusi gli occhi e con le gambe tremanti mi gettai di sotto, riaprendo la mia vista alla luce poco prima di arrivare a terra. Caddi, per fortuna mia facendo leva sulle ginocchia, malgrado ciò, per la violenza dell’urto, pestai forte le mani sull’asfalto di quel vicolo, provocandomi dolorosi e insanguinati tagli su entrambe le mani, guardai in alto, verso la finestra vedendo i due gemelli in una lotta di posizione per meglio guardare giù di sotto, seguendo il consiglio di Spartago fuggì tra la mischia dei bambini impauriti, mentre, un primo colpo di fucile partì dall’alto centrando in pieno uno dei bidoni. Corremmo, corremmo disperatamente per non so quanto senza curarci di quale direzione prendere, correvamo e basta.
Ci fermammo sfiniti al centro del paese, la gente non curandosi di noi, piegati dalla stanchezza, camminava lungo i marciapiedi, i suoni dei camion per la strada nascondevano quelli dei nostri fiati, affaticati da quella disperata corsa; ci sedemmo sudati sul bordo del marciapiede, la gente ci passava davanti, dietro, alcuni ci guardavano con occhio storto, altri, non guardavano affatto, Spartago con la testa tra le ginocchia, raccolse da terra una sigaretta, la osservò bene, si voltò verso me dicendomi con fiato corto:
-Questa l’abbiamo meritata. Chiese ad un tale un cerino, questo, gentilmente glielo diede e con un prego accompagnato da un sorriso gentile, riprese il suo cammino. Fumammo in silenzio osservando il circostante, la vita del dopo guerra riaffiorava lungo la strada, i negozi dai vari prodotti esponevano la merce lungo i marciapiedi, affollati da ogni genere di persona, il sole brillava forte in un cielo sgombro da ogni disturbo, ma, soprattutto incominciava ad essere caldo, davanti a noi vedemmo un locale, il tendone marrone scuro segnalava con una scritta in gesso bianco l’intitolazione:
“Il nodo del marinai”.
Spartago propose di andare là, sederci dentro quel posto, magari, giusto per bere un sorso d’acqua fresca, accettai la proposta, d’altronde la sete era tanta, sopratutto dopo quella maledetta corsa; attraversata la strada, sempre con sguardi vigili entrammo dentro il locale completamente arredato in legno scuro, all’ingresso un lungo bancone con alti sgabelli, la sala, dispersiva nel suo spazio, era piena di tavoli, alcuni apparecchiati con qualche cliente, altri vuoti con le sedie sopra, sulle pareti alcuni quadri con cupe rappresentazioni, qualche corno, credo fossero di cervo e poi, tanto spazio vuoto.
Il mio pensiero andò a ricercare quel particolare che lo rendesse tale, come lo voleva l’intitolazione, nonché, un luogo di ritrovo per marinai, ma, non vi trovai nulla, piuttosto, fummo fermati da una donna di mezza età, vestita con abiti scollacciati e un trucco provocatorio; sbattendo lentamente le ciglia, allungate elegantemente per l’occasione lavorativa, ci chiese se fossimo in cerca di divertimento, imbarazzati rispondemmo:
-Abbiamo sete. Provocando così commenti divertiti di alcuni clienti seduti in fondo alla sala, la donna ci guardò con visibile disprezzo, vai a capire poi il perchè, e voltandosi verso il divertito gruppetto disse:
-Poveracci!.
Lasciammo stare, avvicinandoci al bancone sedemmo su due sgabelli, chiedemmo al barista dell’acqua fresca, questo, portando le sopraciglia all’insù in un’unica espressione facciale di contrarietà alla nostra richiesta, prese due bicchieri riempiendoli sotto il rubinetto. Era il tipico personaggio presente in quei posti, capelli rasati a zero, braccia dai muscoli sviluppati, probabilmente dal pesante lavoro, non tanto alto, per questo dal corpo tozzo, come appesantito da una muscolatura eccessiva. Bevemmo l’acqua di un fiato calmando di colpo la sete, la sentì scivolare giù in basso con una violenza rinfrescante, tipica di quando non si beve da ore.
-Sarebbe buono mandar giù un bel boccone, non credi?. Osservai Spartago, con la mano si strofinava la bocca, lo osservai compiaciuto, avrei anche io mangiato volentieri un boccone, ma senza denaro... notai nella sua faccia lunga, avvolta in quella barba rossa, nuovamente impegnata in una crescita invadente, un’espressione che non mi piacque per niente.
Alle volte, affrontando discorsi dall’orizzonte progettato, decadiamo in noi stessi con il solito ritornello: " Tra il dire ed il fare vi è in mezzo il mare", quasi a voler giustificare dei futuri fallimenti, nel caso di Spartago, tra il dire ed il fare non vi era in mezzo nulla, i suoi spazi riflessivi erano differenti da quelli di altre persone, la silenziosa riflessione del pensiero che calcola le certezze, affinché, l’azione possa riuscire nell’intento di realizzarsi, lui, non lo considerava, lo capì standogli a fianco; per Spartago non vi era nessun limite all’azione, al tempo stesso, nessun pensiero alla certezza.
Da parte mia ammirazione sincera, perchè colui, che in se detiene questa forza, resta pur sempre una persona decisa e quindi decisiva, però col tempo rischia di ritrovarsi a galleggiare in un rammarico profondo d’esser stato fin troppo deciso, tralasciando dettagli importanti della propria esistenza. Spartago chiamò il barista:
-Dimmi amico mio, che diavolo bolle in pentola oggi?.
-Il piatto del giorno è carne grigliata con patate fritte!.
-Allora fanne due, uno per me e l’altro per l’amico mio.
-Raccomanda il cuoco...!. Continuò Spartago, gesticolando boriosamente:
-la carne non sia troppo cotta! E... visto che ci siamo, portaci mezzo litro di sangue di Cristo, sai... l’acqua mi ha graffiato la gola!.
Aspettai che il barista, presa l’ordinazione s’allontanasse verso la cucina, per avvicinarmi con lo sgabello il più possibile a Spartago.
-Cos’accidenti ti viene in mente!. Gli dissi, a voce bassa, voltandomi di spalle per guardarmi bene da eventuali curiosi.
-Perchè, ho ordinato il pranzo come fanno tanti!.
-Tanti, intendi quelli che vanno in giro con i soldi, per poi poterlo pagare, intenti quelli con i tanti?.
-Perchè ti fai tanti problemi!. Rispose tranquillo come se nulla fosse.
-Certo che mi faccio problemi, ti credi che io sia come te abituato a non pagare il lavoro altrui, pur di mangiare?.
-Io Razzio non conosco le tue abitudini, però, conosco le mie e queste mi dicono, che non posso morire di fame solo perchè non ho il denaro per non pagarmi il pane!.
-Pane! Quale pane! hai ordinato un pranzo completo di vino, non un panino vuoto!. Ribattei.
-Facciamo una cosa Razzio, se non ti va il pranzo, lo mangerò tutto io, così, il tuo moralismo non verrà ferito.
-Spartago, non sto facendo del moralismo, possibile che non capisci! Insomma, con tutti i guai che abbiamo, veniamo in un posto del genere a mangiare a scrocco, il cervello tu lo hai perso nella fuga!.
-Un posto vale l’altro o che ti credi, di poter mangiare in un ristorante di lusso, in un paese di matti come questo?.
Lasciai perdere tutto, inutile continuare a parlare, Spartago non volle sapere di nulla, lui, se ne stava seduto lì su quello sgabello come se nulla fosse, assumeva una distinta caricatura di normalità; come dissi, lui non aveva in se il pensare all’azione, lui agiva, perchè il contesto della situazione, tramite vari segnali, gli imponeva d’agire.
-Sai Razzio, stavo pensando a questa maledetta storia della miniera.
- Poco da pensare alla miniera abbiamo!.
Replicai deciso.
-Si si, io pensavo alla miniera, pare che vi sia un gran bel mucchio di gentaglia appresso a quest’oro, politica, preti, vecchie matte... troppa gente!.
-Banale non credi, insomma, l’oro in quanto tale non potrebbe fare altrimenti che riunire tanta gente?. Precisai.
- Speriamo che ne valga la pena Razzio, altrimenti sarà tutto inutile!.
-Senti venir meno la fiducia?. Chiesi con un sorriso provocatorio.
-Più che fiducia, sono tutti questi tizi armati sino ai denti, a me non piacciano sai, ciò fa sicuramente capire che vale la posta in palio, d’accordo, però noi corriamo sempre per arrivar dove?.
Spartago perdeva fiducia o semplicemente era stanco, parlava picchiando le punte delle dita sul bancone, guardava in basso sconsolato, allora gli ricordai che, se il problema era il correre continuo, doveva farci l’abitudine.
-Corri corri vero Spartago? non appena finito il pranzo che non possiamo pagare, vedrai te che corri corri.
-Ancora con questa storia! non ti sei accorto che ci hanno preso per gente come loro, perchè credi che parlassi così al barista?
-Già ora capisco!. Esclamai sarcasticamente.
-La tua è una strategia!.
-Esatto Razzi.
-Il tuo parlare da scaricatore di porto ha una logica di base.
-Sempre più esatto Razzio!.
- Capisco, capisco!.
Spartago intuì nelle mie controrisposte che in realtà lo prendevo per il naso, ma, l’arrivo del barista con in mano le pietanze gli interruppe ogni replica.
-Ecco a voi!.
Disse questo posando sul banco di legno i due piatti con la carne arrostita, a tal punto da meritarsi i complimenti di Spartago, sempre più in vena di sbruffoneria. Portato il vino con le posate e tovaglioli, incominciammo a mangiare, per un istante volli dimenticarmi di tutto, lasciando libero sfogo alla fame, saziandola con incontrollabili gesti affrettati.
-Non temere Razzio, ho un piano per evitare calci nel culo da parte del titolare!.
Lui ha un piano, pensai con la testa bassa sul piatto, lui, privo di quel tempo riflessivo, in quella sua testaccia rossa, custodiva un piano che ci avrebbe permesso di lasciare il pranzo non pagato con estrema naturalezza.
-Razzio, tornando al discorso della grotta, dimmi cosa centra quel prete?.
-A centrare centra, pensa lo stupore mio nell’averlo visto in quella casa con quei due buzzurri, a vederli non sembrano neppure parenti suoi, penso che questa grotta abbia sconvolto parecchie persone, lui, vuole il tesoro per tornarsene nel deserto, ove in gioventù trascorse sicuramente il suo tempo migliore.
-È il farmacista con sua madre?
Chiese Spartago.
-Pure quelli immagino, vedi, in questa dannata storia la verità viene a galla in una sola volta, senza lasciarti neppure il tempo di capire quanta gente sia coinvolta, pensa alla guerra, insomma, dichiarare guerra per una grotta...
-Per una grotta piena d’oro!
Precisò Spartago.
-Tu l’ai visto quest’oro?.
-Come posso averlo visto!. Rispose.
-Per questo lo chiedo, io non l’ho visto, anzi, credo che nessuno lo abbia mai visto, sono convinto che tutti siano spinti dalla volontà di una facile ricchezza, che dalla possibilità che questa possa realmente trovarsi in quella grotta!.
-Tu Razzio, da cosa sei spinto?.
Rispettai un breve momento di riflessione prima di rispondere a quella domanda.
Spartago centrò in pieno, come una freccia scoccata con precisione dall’arco, il segno di tutti i miei pensieri forzati alla comprensione di me stesso.
-Pure io Spartago, anche io sono spinto dalla stessa voglia
di realizzazione di avere, non avendo mai avuto in passato, ora, pretendo tutto e subito!.
Così pensai a malincuore accettando quel mio mutamento di persona. Poi perchè mutamento? Domandai a me stesso, questo lo ricerchiamo disperatamente in noi stessi con fine di porre un limite allo stesso cambiamento! " Prima non ero così, lo divenni col tempo". Già, io il mio tempo lo conoscevo abbastanza, per riconoscermi in quella frase?
Se in futuro mi vedrò salvo da una gioventù allo sbando, sollevandomi così dalle critiche di una mia colpevolezza per ciò che accade oggi, che mai avrei raccontato? Di averci provato con tutte le mie forze a restare a galla della speranza?
O avrei detto con più franchezza che pure io fui travolto dalla volontà di avere e dal potere d’essere, scivolando come tutti gli altri in quel vomito d’egoistica disperazione.
Confuso sino al mal di testa, mi chiedevo quale mai fosse la risposta giusta, chissà, magari attraversavo quel periodo di non conoscenza della propria conoscenza, quel tempo in cui tutto è confusione, tutto è racchiuso in uno sforzo celebrale per dar una risposta ad una domanda che gira attorno alla nostra personalità: " Essere uguale agli altri o diverso da tutti?".
Dipende dal tempo che vivi risposero calmi i miei contrastanti pensieri, forse è così, d’altronde il tempo comporta azioni, queste portano a situazioni, ed in base a queste, diveniamo più simili agli atri, oppure, diversi da tutti.
Terminato il pranzo, il barista ritirò i piatti lasciandoci solo i bicchieri colmi di vino, guardai Spartago intento con le unghie a ripulirsi i denti dai residui del cibo, non parve ne agitato, ne tanto meno assorto in chissà quale piano di fuga, nel frattempo il Barista chiese se volessimo altro, risposi che andava bene così, aspettai un segnale, un gesto da parte di Spartago, che appagato nel suo sbadigliar digestivo, altro non fece che sorridere ed agitare la mano, dicendo:
-anche a me, va bene così.
Il barista si allontanò dal banco, quanto bastava per chiedere a Spartago che intenzione avesse.
-A già... la fuga... ora ricordo! Disse lui stiracchiandosi.
-Amico... il conto!.
Rimasi per un istante perplesso, non so perchè, ma sentì dentro me come una forza o meglio un senso di fiducia.
Che errore fu quello, a pensarci ora, come poter lasciare al caso, una tale situazione?
Qualcosa mi fece credere che, chissà come, Spartago potesse avere in tasca il denaro necessario per pagare il pranzo, credo fosse la sicurezza che ebbe lui al momento di chiedergli il conto, oppure, la volontà da parte mia di donare al caso l’epilogo di quella situazione scomoda.
L’epilogo non vien tanto difficile da immaginare, Spartago aspettò che il barista, allontanatosi da noi verso la cassa, lasciasse cadere la sua attenzione sul foglio, sul quale avrebbe riportato il risultato finale della nostra scrocca permanenza, per poi tirarmi con violenza verso l’uscita, ad affrontare l’ennesima fuga disperata.
Fummo fortunati, la sorpresa ci donò il tempo di uscire dal locale, girare al primo angolo, poi, ad un altro, seminando così eventuali inseguitori, ma, nel momento stesso,, che pensammo d’averla fatta franca da un vicolo ci riapparve il barista, non era armato, a differenza d’altre situazioni, nella corsa teneva
le mani ad altezza del viso con le dita piegate, rigide, come in un gesto di rabbia incontrollata.
Noi di nuovo in fuga, il barista veloce, malgrado gli elencati chili di troppo, s’avvicinava, Spartago avanti a me durante la sua corsa gridava lungo il cammino bestemmie d’ogni genere, afferrava per giunta dei vasi posizionati sopra alcuni davanzali, lasciandoli cadere al suolo, in un disperato tentativo di deviare la corsa del barista, supportato però, da una forza rabbiosa.
Svoltammo per un terzo vicolo inutile continuare a correre, quello ci avrebbe raggiunto, notammo l’allontanarsi di un pesante mezzo carico di carbone, la prima cosa che mi venne in mente fu quella di saltargli sopra, ma, era oramai lontano, Spartago si fermò, continuava a saltellare come non volendo perdere il ritmo della corsa, poi, d'improvviso indicò proprio il buco di una carbonaia e senza pensarci c’infilammo dentro.
Scivolammo giù di sotto, io chiusi gli occhi sentì gli scarponi di Spartago colpirmi il viso, poi, ebbi la sensazione di vuoto sotto me, cascando dritto dritto sopra un cumulo di carbone.
Aprì gli occhi vedendo quel maledetto di Spartago farmi segno con l’indice sulla sua bocca annerita dal carbone, di stare in silenzio, indicò verso lo scivolo, mi voltai spaventato, pensai che il barista si fosse infilato dentro la carbonaia, ma, non era così, gli vidi i piedi, notai che si voltò due volte intorno a se stesso con movimenti bruschi, speravo, altro non potevo fare, che lasciasse perdere tutto, abbandonasse ogni lecita ritorsione contro noi, mi voltai da Spartago, mi voltai perchè lo sentì sbuffare con forti singhiozzi, e ancora più forti, intensi, ma sopratutto rumorosi. Lo vidi, stava per esplodere, certo, alcuni penseranno: " Starà per starnutire, poverino". No, lui rideva, quel bastardo malgrado cercava di non farlo, scoppiò a ridere, gridando con voce soffocata:
-Pare un’imbecille! È troppo imbecille!.
Gli chiusi la bocca con violenza, mi voltai nuovamente verso l’imboccatura della carbonaia, vedendo l’oscurarsi della luce che mise in risalto il viso incattivito del barista, inchinato questa volta verso di noi.
Gridava incazzato, lanciando con gesti delle mani minacce d’ogni tipo, l’espressione divertita di Spartago continuò ad essere tale, lui, malgrado si sforzasse con le mani di trattener le smorfie di quel ridere incontrollabile, non vi riusciva, lasciandole libere di espandersi per tutto il viso.
Il barista intanto cercò di addentrarsi dentro, ma, per fortuna nostra la su stazza fisica gli impedì di farlo, allora, rialzandosi, grido:
-Bastardi non finisce qua!.
Andò via di fretta, sempre accompagnati dalla risata di Spartago, nel buio, cercammo la luce, la trovai; accesa, capimmo di essere in trappola, trovammo una porta, era chiusa, poi, nell’agitazione più totale, sentimmo arrivare qualcuno, la porta fu aperta con un giro di chiavi, lasciando entrare una donna con abiti da inserviente.
-Avevo sentito bene allora!. Disse la donna.
Questa nel vederci lì, sporchi di nero da capo a piedi, neppure si agitò, neppure uno strillo, nulla.
Spartago con un movimento rapido afferrò una vanga, alzandola in alto minacciò la donna dicendole di accompagnarci all’uscita, ma, la donna che come detto non mostrò alcuni segni di spavento, interruppe bruscamente Spartago.
-Vacci piano con quell’arnese, altrimenti chiudo la porta e chiamo le guardie!.
-No, no, per cortesia!. Implorai avvicinandomi alla donna.
Spartago intuita la possibilità di uscire da quella situazione senza dover ricorrere alla violenza, abbassò la vanga, appoggiandola nello stesso punto in qui stava prima.
-Signora, la prego di aiutarci, un tale ci rincorre per derubarci!.
Cercai di assumere la postura di colui che scappa per reato subito, malgrado ciò, la donna non proprio novizia a tali situazioni, sollevò i sopracigli, come dire “a chi la dai a bere”; con un leggero sorriso di divertimento ci invitò a seguirla.
Con passi affrettati ci portò nel magazzino degli attrezzi, ove legato ad un carretto vi era un pony bianco, colorato con sottili nastri azzurri che gli pendevano giù per entrambi i lati, sulla fronte aveva un visibilissimo fiocco giallo come conclusione di quel addobbamento festoso; la donna ci disse di saltarci sopra e fuggire il più lontano possibile, al resto ci avrebbe pensato lei, raccontando, di essere stata derubata da ignoti dal volto coperto.
Alzata la saracinesca, unica uscita da quel magazzino, Spartago portò in strada il carretto tirando per le briglie il pony decorato a festa.
Salimmo in fretta sul carretto, la donna nel salutarci ci consigliò che, per lasciare il paese, dovevamo percorrere la strada che fiancheggiava la spiaggia, concluse dicendoci di non trattare male il pony, frustandolo inutilmente, osservando per l’appunto Spartago, che come un bimbo viziato volle a tutti i costi le redini del carretto.
Lasciammo la casa alle nostre spalle, così facendo, pure i problemi, almeno quella parte, come il barista ed il conto non pagato; Spartago con leggeri colpi di frustino regolava il passo al piccolo pony che con il muso verso il basso trottava a buon ritmo verso la discesa, che a sentir quella brava donna, ci avrebbe condotto fuori dal paese.
Ora stavamo lì, tutti e due sopra quel carretto, certo se avessi potuto lì per lì togliergli quei nastri e quel fiocco orrendo, che come un insulto alla bestia stessa lo segnava in una discutibile bellezza, lo avrei fatto, ma, vista la fretta...
Di lì a poco vedemmo la spiaggia, capì che eravamo nei pressi del porto, vidi il muraglione grigio, imponente barriera tra l’uomo ed il mare, ora testimone silenzioso di quella nostra fuga pomeridiana, la strada, descritta in fretta dalla donna, affiancava la bianca sabbia della spiaggia deserta, che con i segni materiali di un mare prossimo all’estate, riposava nella solitudine più profonda.
Usciti dal paese, sentì l’aria gonfia di salsedine entrarmi dal mio naso percorrendo velocemente il canale dritto al mio cervello, pronto ad aprir le porte dei ricordi ad ogni suo bussare; Spartago con il volto annerito dal carbone, teso dalla concentrazione per la guida del carretto fissava il pony, di tanto in tanto lo strattonava con le briglie, riportandolo con rigore al centro del cammino, vedendolo, mi osservai le mani, erano anch’esse nere, le strofinai provocando una nuvoletta di polvere nera, che con il vento leggero, volò per aria.
-Spartago! lasciati dire che se un dannato bastardo, alla fine di tutta questa storia mi auguro di non vederti mai più!.
Oggi, forte pesa in me tanta violenza verbale nei confronti di Spartago, solo più avanti, immerso nel silenzio, interrotto con precisione dal trottar del pony m’accorsi di essere stato duro nei suoi confronti, ricordo che non disse nulla, non una replica, solo silenzio, tristissimo silenzio, cercai di provocarne la sue reazione con provocazioni continue, ricevendone però, un silenzio tombale, provai rabbia per lui, rabbia per me stesso, per non esser riuscito a misurare le parole in quel momento, dando libero sfogo a tutta la mia collera.
Passarono forse due ore, quando lungo il cammino vedemmo tre figure in lontananza, avvicinandoci, chiare furono le figure di tre donne.
Guardai Spartago, da chino com’era prima, si portò dritto, lo sguardo appannato dal pulviscolo del carbone, assunse una dignitosa fierezza, pian piano che arrivava vicino alle tre donne, rallentava sempre più il passo del pony, fino a raggiungerle, fermandosi di colpo al loro fianco, le salutò accompagnando questo con un gesto di mano.
Le donne, di qui due molto giovani e carine, con i visi arrossiti per l’insolita apparizione, guidate nei movimenti dalla terza, molto più anziana di loro, spaventate si fecero da parte; la più anziana, con il viso fortemente segnato dal tempo, teneva ben stretto in mano un qualcosa paragonabile ad un frustino che spesso usavano le educatrici adolescenziali.
-Scusate il nostro aspetto belle signore sapete mica dove trovare la grotta del gufo?. Domandò Spartago con un sorriso stupido tra le labbra.
-Cosa pensi giovanotto di incontrare per strada tre donne e chiedere loro ove si trovi una grotta?. Replicò decisa la più anziana.
-Certo, io non vi trovo nulla di strano, signora mia cara, le faccio presente che se non avessi fretta di trovare tale grotta, a lei e alle sue graziose compagne, avrei chiesto altro, magari l’indirizzo di casa!.
-Come no! Giovane dal color pece... dimmi che ci farebbe un tale come te con l’indirizzo di casa nostra?.
La voce della donna seria e provocatoria mi fece capire subito che Spartago avrebbe combinato qualche altro casino.
-Vediamo, mi faccia pensare. Continuava lui, sollevando il viso al cielo.
-La tipica cenetta a base di pesce, penso possa andare bene, poi... vediamo... A già! Conversazioni piacevoli, poi... una cosa che tira l’altra... insomma... lei capisce.
Le due giovani si voltarono nascondendo tra le mani un dolce sorriso fanciullesco, immediata, la reazione dell’anziana che vedendole compiacersi di tale situazione, le osservò con aria rimproverante.
Dopo di che riportò il suo sguardo verso di noi, avvicinandosi con passi lenti, ma, decisi accarezzò il pony, che come una vittima, riposava con il muso verso il basso, agitando di tanto in tanto le orecchie, infastidite dal volar di alcune mosche.
-Dimmi una cosa giovanotto. Disse la donna rivolgendosi a Spartago.
-Per cercar non so quale grotta, vai in giro con un pony addobbato a festa, mi chiedo quindi se mai dovessi venire a prendere una di queste due belle fanciulle a che mai andrai in sella, all’unicorno!.
La donna finì con un sorriso maligno sulla bocca che le percorse rapidamente il viso, poi, picchiò forte con il frustino il fianco del povero pony, che con un nitrito spaventato si sollevò a due zampe, rivestendo la fierezza di un possente cavallo di battaglia.
Lì, quel maledetto ronzino incominciò allora la sua corsa disperata, Spartago perse le briglie dalle mani lasciando il pony libero in quella folle corsa; il carro volava leggero, trainato con forza da quella bestia spaventata, cercammo di riprenderle, ma, era tutto inutile, gli scossoni provocati dalla corsa, ci facevano balzare dal sedile obbligandoci a mantenerci stretti uno all’altro.
Spartago imprecò contro la donna ed io contro di lui, vedevo nell’avanzar veloce della strada il pericolo che il pony potesse abbandonarla, correva veloce, chissà poi dove, ad un certo punto cambiò direzione; "perchè di quella sua stronza decisione?" resta un mistero, l’unica cosa davvero certa, fu che si diresse in gran velocità verso fuori pista, addentrandosi tra i campi.
Il carro oramai instabile per via dei colpi ricevuti durante la folle corsa, perse una delle due ruote ribaltandosi sul fianco.
Spartago si gettò prima dell’urto, in realtà gridò forte anche a me di fare lo stesso, ma io non lo feci, non ebbi quella spinta di coraggio utile in tali situazioni. Mi ritrovai dolorante con il carro sopra e la schiena sulla terra appesantita da questo, sentivo il pony in un lamento continuo, Spartago gridò forte il mio nome, io risposi, ma lui continuò a chiamare disperatamente, una volta che si rese conto, vedendomi lì sotto, mi rimproverò di non aver risposto, di litigare in quel momento non era il caso, quindi, senza badare al suo dire, gli chiesi di togliermi il carro da sopra, lui con forza lo ribaltò sul lato opposto, mi rialzai, e se pure dolorante, m’accorsi di non essere ferito.
-Il peggio e andato!. Disse Spartago strofinandosi la fronte dal sudore.
-Fanculo tutto!. Ribattei innervosito.
Ci voltammo verso il pony, era impigliato tra le briglie, cercava con sforzi di sollevarsi, Spartago si avvicinò, inginocchiato verso la bestia, disse di avere la caviglia spezzata, mi avvicinai cambiando il mio umore, sapevo che se la bestia si fosse fatta tale danno, avremmo dovuta ammazzarla.
-Sinceramente mi spiace, però, te la sei voluta stupido ronzino!.
Spartago lo ripetete per ben due volte, poi prese le briglie le passò delicatamente attorno alle zampe del pony sciogliendo così la matassa che attorniava la povera bestia.
Questa si tirò su con un agile scatto, tanto che noi cademmo all’indietro spaventati da tale reazione, capimmo che non aveva nulla, sano meglio di prima, emise un nitrito assordante e sollevandosi a due zampe, le agitò riprendendo tra i campi una corsa che sapeva di libertà.
Disperatamente silenziosi, restammo seduti sull’erba, io, ad osservare il cielo, mentre Spartago ad intrattenere la solita postura con la testa tra le ginocchia rivolta verso il basso, intorno a noi, cinguettio d’uccelli, ronzio di cicale e tanta insoddisfazione.
Parlammo poco, se non per incolparci di tutto, il resto fu solo silenzio, neri di carbone stavamo lì, poco distanti l’uno dall’altro a meditare, chissà poi su che cosa, Spartago lo vidi col capo verso il basso, fare movimenti lenti con il braccio, di tanto in tanto lo sollevava di scatto verso il cielo mormorando imprecazioni sotto voce, poi, d’improvviso si voltò verso di me, mi osservò per alcuni istanti e si mise a ridere, ridette in maniera tale, che io non potei resistere, e risi non so perchè, ma risi tanto, veramente tanto.
Ricordammo gli ultimi avvenimenti, come quello della vecchia madre del Dersin e di quanto incazzata fosse quella vecchia matta puntandoci contro un fucile, tutto ci fece ridere di questa storia e riflettendoci profondamente, il tutto faceva ridere, insomma, quale dannato imbecille, pensammo, avrebbe lasciato lì, in quella grotta dall’assurdo nome, dell’oro.
Già... pensai, sia io che Spartago davamo un senso a tutta quella storia, costruivamo una logica appropriata, lasciando nel braccio del destino, tutti gli avvenimenti accaduti.
-Pensa Razzio. Disse Spartago, con espressione seria.
-Adesso ridiamo, ridiamo su tutto, parliamo di destino per evadere il senso d’inutilità che sta dentro di noi è sempre così, cerchiamo di dar risposte immediate ad azioni inriuscite, scaricando tutto su di una piccola frase: “Era destino che non succedesse” questa la usiamo come una sorta di salvagente!.
-È ciò che pensavo io!. Gli dissi sorpreso.
-Pensa Razzio oramai abbiamo gli stessi pensieri.
Chissà, pensai, forse era davvero così, avvertì dentro me che Spartago fosse una persona intelligente, chi mormora poco differentemente riflette tanto, quindi è una persona intelligente! Anzi... non intelligente tutti lo siamo, però c’è chi tende ad una riflessione disperatamente affrettata, lasciando intravedere chiaramente la propria superficialità, c’è invece chi, come Spartago, sono forse più astuti, cambiano maschera come cambiano le giornate, scendendo elegantemente a falsi compromessi, pur di ottenere ciò che più le conviene.
-Cosa facciamo adesso? Chiese.
Io mi guardai attorno, proponendo di sederci lungo la strada nella speranza di incontrare lungo il cammino qualcuno che ci avrebbe dato un passaggio in paese.
-Dio santo Razzio io non ci torno in quel lurido paese!.
-Allora stiamo qua sino al calar della notte?. Chiesi.
Spartago s’alzò in piedi con aria decisa, e con altrettanto tono di voce disse:
-Andiamo in quella maledetta grotta, Razzio! Tanto, non abbiamo altro da fare!.
-Come accidenti credi d’arrivarci in quella grotta, a piedi?.
In quel momento sentimmo delle urla provenire dalla strada, ci voltammo, vedemmo un carro, che di gran velocità correva lungo il passo, senza neppure guardarci, corremmo verso la strada, urlando nella speranza di farci vedere.
Lungo la corsa capimmo che più urlavamo e meno il conducente ci notava, era preso a frustare la bestia che correva sempre più, arrivati al bordo della strada gli gridammo di fermarsi agitando vistosamente le braccia.
-Posso solo rallentare! montate su velocemente!. Gridò il conducente.
Approfittammo del rallentamento per corrergli di lato, Spartago riuscì ad afferrare la maniglia di ferro posta vicina allo scalino e con uno scatto salì sul carro, poi, allungò il braccio gridando contro me d’essere più veloce, assillato a sua volta dal conducente, che non faceva altro che gridare, ad entrambi d’esser più veloci, afferrata la mano di Spartago, riuscì a salire con un ultimo sforzo sul carretto, che poco dopo riprese la sua frenetica corsa.
-Tutto bene? ma che diavolo avete sembrate appena usciti da un fumaiolo!.
Ricordo che fui costretto ad urlare la motivazione di quel nostro colorito, perchè la velocità del carretto, scagliava contro me tutta la forza dell’aria, chiudendomi le orecchie a colpi di vento.
Il conducente, piuttosto anziano, di robusta corporatura, non pareva in realtà interessato alle mie larghe spiegazioni, con una mano stringeva entrambe le briglie, mentre, con l’altra frustava il cavallo, continuava a fare domande, senza però dare il tempo di rispondere, Spartago interrompendolo chiese
il perchè di quella corsa sfrenata, ed il vecchio rispose:
-Osservate dietro, vedete cosa trasporto?.
Mi voltai alle spalle, vidi il carro aperto, vi erano due teloni color giallo, dalle sagome di questi, capì, che ricoprivano un carico, Spartago con un’espressione divertita esclamò:
-Tocca davvero correre allora!.
Non capì a cosa si stesse riferendo, lo guardai sorridere, lui con voce decisa mi disse di non guardare i teli, ma, ben sì poco sopra questi, alzai lo sguardo e vidi una macchia nera scura volar veloce al nostro inseguimento, erano vespe.
Il carretto trasportava degli alveari, il conducente correva tanto per non essere raggiunto dal gruppo di vespe che grazie alla velocità del cavallo, le tratteneva a sicura distanza.
-Come faremo a scendere?. Chiesi preoccupato.
-Io non ho problemi, m’infilerò tra circa una mezzora, dentro un casolare, dove lì vi saranno degli addetti pronti a chiudere le porte alle mie spalle!. Rispose l’uomo urlando.
-Già... interessante ma noi?. Chiese Spartago perplesso.
-Giovanotti, non so dove diavolo dovete andare, voi dove scendete?.
Con Spartago ci osservammo, l’indecisione era tale da lasciarci in silenzio, chiesi al conducente dove si trovasse la grotta del gufo, lui senza esitare rispose che poteva lasciarci presso una pineta, ove, un sentiero portava verso questa, accettammo, lasciando i nostri sguardi parlare da soli.
Vedevo il paesaggio andare via veloce, ma, più che lui, eravamo noi che andavamo via, lui restava lì, malgrado gli occhi ingannati per la velocità lo facevano scivolare alle spalle, lui restava lì, mentre io andavo chissà dove, alla ricerca dell’oro, pensai, già oro, materiale luccicante a tal punto d’abbagliare non solo gli occhi, ma, persino il cuore, riusciva a gonfiarlo di speranza, di sogni pronti alla realizzazione, si dice che con la ricchezza si esaudiscono i sogni più irrealizzabili, sogni irrealizzabili... ma, quali sono quelli realizzabili, insomma, io ho dei sogni...? Certo, credo di si, prima di tutto questo casino, il mio sogno era... basta! Non ricordavo il mio dannato sogno irrealizzabile!.
Una cosa è certa, l’oro non faceva parte dei miei sogni, neppure Spartago, la grotta del gufo, Don Vittorino, il farmacista Dersin, Damiani e tutti gli altri, forse Balducci, si credo che quel maledetto facesse parte dei mie sogni, ma, non quelli irrealizzabili. Dannato lui! Meglio non pensarlo, non lo odio, insomma... lui ha fatto a me ciò che io ho fatto lui, la gran figura che gli feci fare da ragazzo basta per colmare odio verso me.
Ora capisco, io non ho mai avuto sogni perchè non ho mai progettato nulla e chi non progetta non costruisce, secondo alcuni è un difetto che stagna l’uomo in quanto ad essere umano, io, siccome non amo il giudizio altrui faccio della mia mancanza di progettazione una virtù, sì... una grande virtù, forse può apparire difensivo come ragionamento, ma non mi importa, questa è una virtù, vivo oggi perchè domani non so se vedrò il sole, chissà, magari chi progetta domani non vive oggi, comunque sia non mi importa, io sono io, è di questo che debbo convincermi.
É fu nuovamente il paesaggio circostante ad attirare i pensieri, come uno schiaffo mi ritornò in mente il vecchio cieco, quello che ci descrisse la strada, con gli odori, i suoni, mi ritornò in mente il primo odore, letame di vacca, era lui, inconfondibile nella sua categoria, lo sentivo forte, vedendo lungo il cammino le artefici di tale aroma, allungai lo sguardo, lontano vidi il mare, lo lasciai alle spalle appena fuori paese, ed ora, lo ritrovo avanti a me immenso e misterioso, avvicinandoci, l’odore della salsedine trasportato dal vento entrava forte nel naso riaccendendo, sempre più il ricordo del vecchio cieco; tutto questo mi eccitò a tal punto da strattonare per il braccio Spartago e a condividere con lui la descrizione del cieco, rivista nella realtà dei luoghi.
-Allora ci siamo!. Disse Spartago.
L’uomo in coincidenza riferì che mancava poco alla pineta e che avrebbe rallentato quando bastava per permetterci di scendere.
Poco dopo ci affrettammo alla pericolosa discesa, il vecchio conducente disse anticipando la mia richiesta, d’aver rallentato pure troppo, a me non parve, senza discutere ed essendo io il più vicino al gradino del carretto mi lasciai andare giù da questo, rotolando ad occhi chiusi su morbido tappeto d’aghi di pino, poi toccò a Spartago, che poco prima di gettarsi, salutò il conducente che ricambiò con un gesto di mano.
L’urto non fu doloroso, entrambi cademmo sopra il morbido tappeto d’aghi di pino che per intero coprivano il suolo della pineta, rendendola cupa dal colore marrone scuro, c’incamminammo su per questa, che si arrampicava lungo una collina, tragitto andando con Spartago accordammo sulla descrizione perfetta del vecchio, che mal grado la sua cecità ci diede una mappa reale dei luoghi, dedotti per mezzo del suo infallibile naso.
Terminati gli elogi al vecchio cieco, incominciammo con profonde e contrastanti visioni ad organizzare un piano che una volta su, avremmo messo in atto per contrastare eventuali problemi, io, senza alcuno sforzo di logica, bocciai con forte opposizione ogni piano d’azione spiegato da Spartago.
Lui voleva l’azione, la semplificava così, andiamo su, entriamo nella grotta, portiamo via l’oro e tanti saluti a tutta la baracca; Così per lui era tutto facile, sali, entri, prendi, mandi tutti a fanculo... e via.
Con tono aggressivo gli ricordai il fallimento di tutti i suoi piani precedenti e dei rischi che dovetti correre per colpa sua, dal canto suo continuava a ripetere che i suoi piani fallirono per colpa degli avvenimenti, rifugiandosi in discorsi attinenti al contesto della situazione come: "Se non vi fosse stato quello...", oppure, "se quell’ altro non si fosse trovato lì, avrei...".
-Tutte balle!. Replicai irritato.
Spartago voleva farmi credere una marea di stupidaggini pur di uscirne indenne dalle critiche dei propri fallimenti.
-Razzio!. Esclamò Spartago fermandosi d’improvviso.
-Se, i miei piani non ti vanno, allora, ognuno per la propria strada!.
Sentì come un enorme peso sul cuore, Spartago era lì, mi osservava dritto negli occhi, tanto s’immerse in quel suo dire, che non si curò neppure di togliersi un moscerino che gli volava sul viso, lo mandai vistosamente a fanculo con un gesto rabbioso e voltandogli le spalle mi allontanai.
Accelerai il passo allontanandomi da lui, poi, sentì la sua voce chiamarmi, ma, io continuai a salire sempre più in fretta, ad un certo punto mi voltai, lo vidi, lui vide me, accennò di raggiungerlo con un veloce movimento del braccio, ma, io gli rivoltai le spalle e corsi come un matto su, per quella dannata cima.
Camminai solo per quella pineta, ora immersa tra il buio e l’odore sempre più intenso della resina si attaccava alle mani, ogni qual volta che cercavo riposo appoggiandomi ad un pino, non sentivo nulla o almeno alcun suono che potesse mettermi in allerta, soltanto il cantico notturno di qualche uccello nascosto tra i rami, il frusciar degli aghi, spostati improvvisamente, presumo dal passar di qualche topo, ero dunque solo pensai; percorrevo ancora quella salita che pareva non finir più, le gambe irrigidite dalla stanchezza richiamavano i dolori ai piedi, provocati da quegli stivali in cuoio che come una gogna, mi appesantivano i movimenti, mi accasciai stanco per sfilarmeli, quando, proprio in quel momento sentì provenire, poco sopra di me, alcuni suoni allarmanti, mi voltai di spalle verso la salita, lasciai perdere gli stivali e a carponi continuai a risalire; quanto quella notte desideravo la luna è imprecisabile descriverlo, però, la desideravo, riuscì a dare un’anima a quei suoni, capendo che si trattava di ruote che lentamente calpestavano gli aghi di pino, provocando uno scricchiolar come di ramoscelli secchi, dedussi che queste ruote dovevano reggere un gran peso, pensai ad un carro, ma, quando vidi davanti a me un bagliore accecante seguito da un colpo che mi assordì le orecchie, capì, che si trattava di un cannone.
Con il cuore in gola dallo spavento restai lì, fermo, impietrito da tanta e violenta scoperta, le urla che seguirono lo scoppio, echeggiarono per tutta la pineta, lasciando me solo, nel più profondo silenzio.
Tirai su la testa, capì di essere arrivato alla grotta, la vidi col baglior di luce provocato dallo scoppio del cannone, il circostante s’illuminò a tal punto che vidi persino un largo piazzale che separava me dalla grotta, ma, in questo vidi pure guardie governative, ne riconobbi la divisa, con movimenti rapidi cercai di guardarmi in giro, di dare una spiegazione a tutto quello che stava accadendo, tanta confusione, nient’altro ne dedussi; uomini che sparavano, urla, tutto questo in una frazione di poco tempo, il peggio lo avvertì poco dopo alle mie spalle, sentì delle urla, parevano di un reggimento alla carica, provenivano alle mie spalle, mi voltai spaventato, ma, gli occhi abbagliati dalla violenta luce non mi permisero di vedere chi fossero, non ci pensai due volte, m’alzai ed incominciai a correre verso la grotta, udì alcuni colpi di fucile come risposta alla mia fuga, corsi velocemente in mezzo alla confusione, da lì a poco un cavallo, mi sfrecciò davanti, vidi il cavaliere ed urlai forte:
-Generale Damiani!.
Era lui in sella a quel cavallo, esaltato come non mai agitava una spada come un glorioso condottiero, sentendosi chiamato tirò forte le briglie, arrestando con violenza la corsa della bestia, in mezzo alla confusione cercava con lo sguardo chi lo avesse chiamato, io, agitai le braccia, urlando nuovamente il suo nome, lui mi vide, sorrise notevolmente ed alzando la spada sempre più in alto, gridò:
-Bolli, è un piacere rivederti, questa notte combattiamo i nostri stessi amici!. Altro non disse, riprendendo subito la corsa di battaglia.
Non ne capì il significato di quel dire, ma, comunque sia, provai un gran sollievo nel rivederlo, sano ed orgoglioso di se stesso a cavalcare in mezzo alla battaglia.
Ripresi la corsa verso la grotta, stavo per raggiungerla, quando, il cannone tornò a farsi sentire colpendone l’ingresso.
Il colpo provocò un improvviso incendio e tutto intorno sollevò un polverone cupo, l’onda d’urto mi scaraventò al lato del piazzale ritrovandomi nuovamente sotto un pino con gli aghi che mi pizzicavano il viso, mai prima d’ora sentì un tale vuoto dentro me, gli occhi chiusi tremavano con il resto del corpo, cercai di riaprirli, ma, la polvere fitta come nebbia lasciava in me la sensazione che fossero chiusi, sentì le urla strazianti provenir tutte intorno, mi tirai su con forza, corsi all’impazzata cercando tra il polverone di equilibrare la mia corsa lontana dal baglior del fuoco, ma, questo era orami ovunque, oltre a vederne il bagliore ne sentivo il calore delle fiamme, che man mano si liberavano con violenza da un pino all’altro, invadendo il bosco di fumo e terrore. Continuai a correre, proteggendomi il viso con le mani, il respiro appesantito dal fumo veniva meno, lasciandomi in preda ad un tossir continuo, era inutile, lo ammisi a me stesso, inutile raggiungere la grotta, inutile combattere e poi combattere chi, in quella confusione non ebbi modo di capire da quale parte stare, una certezza l’avevo, fuggire, fuggire il più lontano possibile da quella maledetta pineta in fiamme.
La mia corsa fu interrotta da una voce che strillava forte il mio nome, la riconobbi, era Spartago, mi fermai sforzando gli occhi il più possibile per capire dove si trovasse, ma, fu del tutto inutile, come inutile fu fermare la mia corsa, avanti a me apparve Balducci, nuovamente lui come un incubo a distanza di tempo.
-Razzio sei contento di tutto questo casino?. Disse con tono rabbioso.
-Perchè contento dannato bastardo!.
Con uno scatto lo colpì con un pugno in faccia, tutto capitò velocemente, sentì venir su dallo stomaco una tale rabbia che non volli impegnarmi a controllare, assecondandola, con un secondo pugno, ed ancora un terzo che lo fece barcollare per alcuni istanti per poi lasciarlo al suolo privo di sensi.
D’improvviso alle mie spalle arrivò un ordine di stare fermo, mi voltai, vedendo una guardia armata di fucile, mi scagliai anche contro di lui, con la testa bassa come un toro lo colpì dritto nello stomaco, persa l’arma, la guardia cadde all’indietro scalciando ripetutamente contro me, riuscì a colpirmi al volto facendomi cadere di fianco a lui. Con uno scatto rapido la guardia ricercò il fucile, io, lo sgambettai facendolo cadere con la faccia al suolo.
Gli saltai sopra la schiena, pronto a colpirlo alla nuca, Balducci mi richiamò, alzai la testa e lo vidi impugnare la propria pistola contro di me.
Sparò improvvisamente un colpo questo, mi sfiorò l’orecchio, per paura abbassai la testa, vidi il proiettile bucare la nuca della guardia che sotto di me smise di dimenarsi abbandonandosi alla morte.
Balducci ebbe tanta fretta di ammazzarmi che sbagliò mira, lasciai il poveretto e mi lanciai contro quel dannato, gli urlai bastardo per tre volte prima di trovarmelo sotto con la pistola in mano, bloccata dal mio braccio. Ripetutamente lo colpì forte, nuovamente sul viso, vidi la sua pelle lacerarsi ad ogni pugno e questo arrossirsi di sangue, sbavavo di rabbia contro di lui, una rabbia trattenuta nel tempo, ma, che ora in quel momento trovava libero sfogo contro di lui.
Balducci se pur dolorante riuscì con il ginocchio a colpirmi nello stomaco, nonostante la mia rabbia indurisse la pancia, avvertì quel colpo tremendamente doloroso, mi accasciai su di lui che approfittò per colpirmi nuovamente dandomi persino una testata in faccia, poi, con uno slancio si tirò su facendomi ribaltare avanti. Lo vidi barcollare dolorante, io trovando le forze mi tirai su e scappai via, certo, avrei potuto continuare la lotta ma tutto quel fumo, il fuoco che circondava noi, come uno spettatore esaltato, mi diedero solo la forza di scappare via da tutto; dolorante cercai di farmi strada, risentivo nuovamente Balducci che infuriato implorava contro di me, mi voltai di spalle continuando a correre, lo vidi venirmi dietro e vidi pure la pistola, lui urlando incominciò a sparare, udì un colpo conficcarsi nella corteccia di un albero, un’altro nel terreno, corsi più veloce, sempre più veloce, ma ad un certo punto senti un forte bruciore al piede, poi il dolore, un dolore pulsante, incontrollabile, un proiettile mi centrò il tallone, mi lasciai cadere, pronto con le mani a ripararmi il viso dall’urto, chiusi gli occhi, ma non sentì in un primo momento nessun urto, nulla, caddi nel vuoto.
Rotolai giù da una scarpata a peso morto e con gli occhi chiusi rotolai senza poter controllare alcun movimento, sentì nel fianco un colpo forte, ed un’altro ancora, urlai, urlai tanto, ma le uniche risposte furono i colpi dei sassi che violentemente mi colpivano il corpo.
All’improvviso mi fermai, sentì di non rotolare più, ora scivolavo liscio sugli aghi di pino, scivolavo con le gambe verso il basso, cercai un ramo, un dannato ramo per bloccare quel mio scivolone, ma nulla, ad un certo punto apri gli occhi e nuovamente riavvertì il vuoto sotto, li richiusi spaventato, in quel breve tempo di vista mi vidi scivolare nuovamente nel vuoto, urlai forte, urlai sino a che non sentì un forte colpo alla schiena.
Rimasi disteso, sentivo il dolore al tallone mal grado non riuscissi a muovermi per poter vedere la ferita, sapevo che stava sanguinando, la schiena era immobile, rigida, non mi permetteva alcun movimento, riuscì soltanto a portare la mano al viso verso gli occhi brucianti, li toccai con le dita, non riuscivo neppure a stringere la mano, poi, la rilasciai cadere sulla sabbia, lì capì d’esser caduto in una spiaggia, respiravo pesantemente come avessi un peso sul petto, sopra a me le stelle, tante stelle, chiare e luccicanti rendevano quella situazione ancor più triste, a bocca stretta con la saliva impastata tra sabbia ed aghi di pino, sussurravo:
-Muoio, muoio.
Piansi, piansi come forse non piansi mai, in quei dolori che martellavano il mio corpo rividi me stesso, il passato che non passa mai, la mia vita con mia madre, lei, distratta da una vita più semplice che da quella quotidiana, forse neppure meritava ricordi dolci, eppure lei, ricorreva nei mie pensieri, pensieri obbligati a venir fuori come spinti sul palcoscenico da un forzuto buttafuori.
Le lacrime scivolavano lentamente sul viso bruciandomi le ferite, stringevo la pancia in quel mio piangere continuando a mormorare: "Muoio... muoio" poi, mi abbandonai alla tristezza di quelle stelle, alla solitudine del buio e al suon del mare che ora sentivo forte nelle mie orecchie, liberate dalla sabbia dal mio ruscello di lacrime.
Pensai al mare immenso come un sentimento, profondo come un rimorso, lui, unico silenzioso testimone in quella mia notte di dolore.
Il mattino seguente aprì gli occhi, spaventato dal brusco risveglio sentivo il cuore battermi forte, tanto da farmi pensare al peggio, mi trovavo disteso in un letto con delle lenzuola bianche a tal punto di abbagliarmi la vista al riflesso del sole che entrava dall’esterno della stanza, una tenda che ne ricopriva l’ingresso sventolava forte sollevata con dolcezza dal soffiar del vento, gridai due volte agitato:
-Dove sono, dove sono!.
Cercai invano di tirarmi su, ma, lo sforzo mi fece risentire il dolore al tallone, dolore che rapidamente risaliva tutta la gamba, mi guardai le mani scolpite dai tagli provocati nella caduta, osservandomi queste mi ritornò in mente tutto, la lotta, la caduta, il dolore; in quel momento, all’improvviso la tenda di quella stanza si sollevò, lasciandosi sfilare lungo, un viso chiaro di un ragazza, che vedendomi sveglio disse:
-Finalmente sveglio!.
Si avvicinò al letto sistemandomi il cuscino in maniera tale da potermi tirar su con delicatezza, ricordo questa ragazza, era bella, come detto dal viso chiaro, con lunghi capelli castani che gli scivolavano lungo il viso, gli occhi leggermente tirati gli donavano un aspetto di profonda sensualità.
-Dove sono?. Chiesi.
-Prima lasciati dire che sei stato fortunato, sai se mio padre non ti avesse visto sulla spiaggia saresti sicuramente morto o chissà, magari, pizzicato da qualche gabbiano curioso, ma come hai fatto a cadere da la su?.
Restai in silenzio ad osservarla sorridere a chissà quali ipotesi di risposta, le richiesi dove mi trovavo, ma la ragazza continuò a commentare il mio ritrovo, con espressione visibilmente evasiva faceva di tutto pur di non rispondere alla domanda, continuava a sistemare il cuscino, consigliandomi di non fare sforzi, informandomi che il padre mi aveva estratto il bossolo dal tallone solo la notte prima. La dovetti interrompere, la sua voce continua senza alcun tempo di pausa faceva venire il mal di testa, o meglio, ne aumentava il dolore, lei si scostò, arrossendo, ammise che il suo difetto maggiore stava proprio nel non smettere mai di parlare, chiese conferma decisa a risolvere quel suo problema proprio in quel momento, la confortai dicendogli che forse non era un difetto, che io avevo male alla testa per le botte prese nella rovinosa caduta, lei, si fermò pensierosa, strofinandosi la fronte con la mano tornò a ripetere:
-No, no, il parlar troppo è un difetto inutile negarlo, sai, da bambina lo dicevano sempre!.
Continuava a parlare, io mi portai le mani al volto, sarei voluto scattare in un grido, ma dovetti controllarmi, la vedevo attraverso le di dita leggermente strette sugli occhi, parlava, parlava sino all’impossibile, io accennavo con movimenti del capo la mia comprensione di quel suo difetto, poi all’improvviso smise, tolsi le mani dal volto vedendo entrare un anziano signore con vestiti da pescatore.
-Ben tornato nel mondo dei disperati!. Disse con un sorriso.
L’anziano prese una sedia dal fondo della stanza, lasciandola poco lontana dal letto s’avvicinò a me, allungò la mano al mio viso aprendomi gli occhi con decisione, gli osservò per alcuni istanti, poi con un gesto liberatorio disse, osservando la figlia:
-Il giovanotto ha una grande stoffa, il peggio è andato altrove.
Sedette al mio fianco incrociando le gambe.
Questo, era un uomo basso, con pochi capelli, il suo viso pareva una maschera di gomma, ogni movimento facciale gli mutava i lineamenti, assumendo spesso, una buffa espressione comica.
-Dove mi trovo?. Chiesi gentilmente all’anziano.
-Ti trovi nel mio nascondiglio io sono Antonio Caresci, da ieri notte ricercato numero uno dalle guardie governative!.
Sorrisi, ricambiando la sua stessa espressione, nel mio cervello, distratto da quella figura davanti a me, risuonò il suo nome: "Antonio Caresci"..."Caresci Antonio".
-Certo, Caresci!. Esclamai forte.
-Il venditore di sandali, quello che per primo ha trovato l’oro nella grotta del gufo!.
Un’emozione forte investì il mio viso, quella situazione, probabilmente spinta dal fatto che per la prima volta ricordavo qualcosa, mi diede una gioia tale che con un movimento brusco per poco non caddi dal letto.
-Calmati figliolo!. Disse l’anziano alzandosi in piedi.
-Hai indovinato tutto tranne un dettaglio importante!.
L’uomo assunse un’espressione seria che allungandosi per tutto il suo viso, eliminò ogni altra contrastante.
Avvertì un silenzio sinistro, tutti e due stavano con il volto verso il basso, erano come inghiottiti in chissà che accidenti di strano rimorso.
-L’oro non esiste! Capisci? É tutta una mia invenzione, sai.. credevo che facendo questo... inventandomi la storia della miniera piena d’oro la gente sarebbe venuta sin qua per stabilirsi, così facendo, io, avrei potuto incrementare la vendita dei sandali da spiaggia, niente altro capisci!.
Come il Caresci concluse il suo discorso io incominciai a mormorare: "Il vecchio cieco lo disse... è solo un venditore di sandali... il vecchio cieco... Dio! Dannato sia il vecchio cieco, lui sapeva tutto, ma non disse nulla ne a me ne tanto meno a quel gran bastardo di Spartago, capite!... Lui, ripeteva soltanto..."Vi ho detto che il Caresci è un venditore di sandali? Questo solo disse il vecchio cieco!".
-Di che vai parlando giovanotto?. Chiese Caresci interrompendo quel mio dire solitario.
"Noi non lo abbiamo ascoltato..." Continuavo io, non curandomi di nulla.
-Lui, il vecchio cieco voleva dire: perchè mai un venditore di sandali dovrebbe rendere pubblica una scoperta del genere... la terrebbe per se... come l’oro!. Conclusi osservando il Caresci, la figlia, la stanza, osservavo tutto e tutti, in loro rividi me stesso, risi, risi davvero tanto, mai più, ridetti in quella maniera.
Il tempo passò velocemente, affrontando i percorsi obbligati
del cambiamento, a distanza di tanti anni, infatti, tutto è cambiato, io pure sono cambiato, non so se in meglio o in peggio, in genere lascio al tempo giudice inflessibile della nostra vita, il verdetto finale del mio mutamento, ciò che posso dire riguarda l’aspetto di tutto quello che mi ha e che ancora mi circonda, i luoghi, le persone, le storie di queste.
Domenici divenne un luogo per ricche villeggiature, di tanto in tanto io che risiedo qui dal giorno in cui incontrai il vecchio Caresci, passeggio lungo il marciapiede che costeggia la spiaggia, lì, osservo i villeggianti, li osservo ridere con gli occhi sepolti sotto un vetro scuro, li osservo nei loro visi sudati, nei loro movimenti liberi che sanno di gioventù sicura, osservandoli mi chiedo chi siano mai, forse esagerando in un pensiero che li ritrae come impostori nei miei luoghi, irrispettosi del mio tempo.
Già, penso che sia questa la vecchiaia, la non accettazione del nuovo che sovrasta il passato, la vecchiaia è come una manna che picchia forte sulla testa con un peso di ricordi passati, purtroppo, questo malessere viene visto con occhio storto dal resto del branco, dipingendomi come il matto del paese.
Sorrido con auto ironia, a tutto questo, avendo vissuto nell’incredulità che mai, ciò, potesse capitare a me.
Ricevetti una medaglia al valore militare per la guerra vissuta tra Azul e Domenici, una medaglia per non raccontare, le dico io, per non raccontare il vero motivo della guerra.
In quanto agli altri, Don Vittorino sparì, non lo vidi più, come più non vidi i suoi nipoti, chissà, magari tornò nel suo deserto, a distanza d’anni capì che andò alla ricerca dell’oro proprio per tornare la, dove come disse lui, si sentiva utile.
Il Damiani rimase ad Azul, perse ogni carica militare per via dell’irruenza del suo carattere, per restare in tema creò un’organizzazione dal nome: “A cavallo con i combattenti”. Le cose andavano così bene che organizzò una rapina in banca, ricordo che andai a trovarlo in carcere, lui dopo avermi elencato data per data, tutte le battaglie del passato rispose così, alla mia domanda sul perchè di quella rapina:
-Bolli, ricorda che è meglio derubare una banca che esser derubati da questa!.
Più verità? Ho troppo errore? Mha! Ognuno la pensi come vuole.
Il Dersin resta ancora oggi l’unico farmacista del paese, negò tutto, negò ogni sua complicità ai fatti accaduti, negò la mia conoscenza, pensate che rinnegò pure la madre finita in galera per aver quasi ucciso una guardia di governo, penso che abbia fatto di tutto per levarsela di torno.
Combusti cadde, cadde il suo potere, scappò dalla ressa popolare dopo il fataccio della miniera, la nuova politica chiamata democratica, ma, che in realtà altro non è che politica, lo volle artefice di tutti i mali assoluti, pure quelli che non gli competevano.
Balducci il mio vecchio “amico” restò in politica, fu addirittura eletto a distanza di tempo sindaco ad Azul, venne ammazzato da un tale che poi si scoprì esser pagato da alcuni suoi rivali politici;" da non credere!, quel gran figlio di puttana, lo ritrovo, per il suo presente martirio, ad intitolazione di alcune vie del paese".
Spartago si sposò, poi divorziò, si risposò per ancora separarsi, mi disse che faceva una fatica cane a trovare l’anima gemella, il suo solito dire.. ebbe fama di pelandrone a Domenici, e forse lo era, cercò di scrivere un libro senza cavarne piede, incolpando penna e carta e la loro inutilità ai suoi pensieri, un giorno non lo vide più nessuno, volle ritrovarsi nei suoi panni, quelli ricamati dal non pensare a nulla, come suo solito fare; nel suo carattere dall’azione facile sfidò un super sub, Spartago che mai si voltò a pensare al mare, accettò l’impresa di scendere il più in basso possibile nel fondale, per poi raccogliere un oggetto da lui stesso gettato.
Dando retta a quel tizio tutto esibizione, sceso in acqua ebbe un blocco al cuore, quell’imbecille morì, così, all’improvviso com’era abituato a vivere.
Infine, io, come detto vivo a Domenici, mai sposato, acquistai una piccola mansarda con i denari guadagnati facendo il maestro, il posto l’ottenni facendo pressione sul Balducci durante le sue campagne elettorali. Ora, vecchio, siedo davanti alla finestra, una finestra che dà sul mare, quel mare che di tanto in tanto riporta me indietro nel tempo come un vecchio incapace di vivere.
Di quel periodo ne faccio tesoro, essendo questo l’unico a colmarmi dentro, concludo dicendo che alla fine d’ogni tragitto appare il ricordo del cammino, ma al termine della mia vita resta soltanto della carta scritta...
“Dedico questo scritto a mio padre
schienale mancante della mia sedia e
a Maria Giovanna intrattenimento spirituale.”
Alessio Sanna.
123456789101112131415161718192021222324252627282930313233343536373839404142434445464748495051525354555657