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Damon Gallagher in La strega nel pozzo
Quando ero piccolo e mia nonna ancora in vita, mi raccontava storie che la sera d’inverno, davanti al camino, con il vento che urlava dalla canna fumaria, con le lingue di fuoco che sembravano volerci abbrancare, ci facevano stringere gli uni agli altri.
Quella che vi narrerò è una storia tramandata di nonno in nipote, che ha messo a letto con la paura più di una generazione di marmocchi, per lasciare poi spazio ai discorsi da grandi.
Una di quelle storie che mi ritornano alla mente dopo tutto questo tempo, e poi ne capirete il motivo, era quella di un bis nonno di mia nonna che riuscì una sera per un fortuito caso a catturare una strega che tutte le notti gli rubava il cavallo utilizzato per il lavoro nei campi, riportandoglielo il mattino dopo completamente sfiancato con la criniera straziata e con tutte unghiate sui fianchi.
Questo cavallo, dopo aver galoppato tutta la notte, ritornava talmente stanco che la mattina stramazzava al suolo durante i lavori nei campi e sotto le vergate del mio avo infuriato.
La strega fu rinchiusa in uno di quei pozzi costruiti per irrigare i campi, dove tutti i ragazzini avevano il divieto di andare a giocare, e la tenne lì fino a farla morire di fame.
Di questa storia rimase impressa nella memoria di molti, ne ebbi la riprova molto tempo dopo confidandomi con altre persone cresciute insieme con me in quella casa colonica, il punto in cui mia nonna simulava le urla di dolore e paura che la strega lanciò per giorni e giorni dal fondo del pozzo.
Dal sottosuolo, neanche fossero le urla dei dannati dell’inferno, le grida della prigioniera si propagavano per i nebbiosi campi arati fino a raggiungere il centro abitato se si aguzzavano bene gli orecchi.
Urla strazianti di dolore e fame, mettevano raucedine alla povera anima di mia nonna che provava con mimica teatrale a riprodurre, bagnando il tutto con del brandy.
E difficile da immaginare la sensazione che provavamo in quei momenti, il pavimento gelido, il calore del fuoco e noi stretti l’uno all’altro, in quel momento quasi una sensazione mistica ci attanagliava tutti come se fossimo in trans.
Chissà se una sensazione simile la provano i ragazzini d’oggi davanti la televisione.
Mia nonna oltretutto era maestra nel catalizzare su di se la propria attenzione, grazie ad un’innata teatralità e anche grazie al personaggio che si era cucito addosso.
Amava raccontare che suo padre era un fascinoso uomo che aveva esperienze del mondo soprannaturale e della negromanzia, e che una volta da giovane, avendo catturato un gatto nero in un sacco per non si sa bene quale rito magico, il giorno successivo vi trovò una splendida giovane della quale s’innamorò e dalla quale ebbe proprio mia nonna.
E brava la nonnina. Ritorniamo alla nostra storia.
Tale storia mi ritornò in mente molti anni dopo quando, ritrovandomi un po’ a corto di contanti, cosa che accadeva spesso, e dovendo andare a smorzare la calura estiva in qualche luogo a buon mercato, mi venne l’idea di ritornare in quella vecchia casa colonica, risistemarla un pochino e godere di quei paesaggi che mi avevano accompagnato in una spensierata adolescenza.
Arrivai accolto dall’abbraccio dei monti che circondano la vallata e ritrovai tantissimi paesaggi a me molto cari, le persone erano vestite diversamente da allora ma gli sguardi e le espressioni erano tipiche soprattutto in chi quel posto non lo aveva mai abbandonato.
Ritrovai con gioia il viale di casa, gli alberi da frutto che sfamarono tanti appetiti, l’aia e la vecchia casa colonica. Ormai rudere abbandonato, ma con un alto profilo spigoloso che s’innalza man mano che l’ospite vi si avvicina.
Inutile dire che l’essere stata disabitata per molti anni aveva ancor più invecchiato quella dimora ed i familiari che c’erano passati dopo la morte di mia nonna, erano stati esclusivamente di passaggio e per razziare le vecchie spoglie di un tempo.
Il portone lo dovetti forzare tanto da portarmi quasi via le cerniere e la polvere e il cigolare fu il benvenuto che mi diede quel vecchio edificio.
Arrancando arrivai ad aprire una finestra e solo allora mi resi conto di quanto disperato potesse essere lo stato delle cose.
Una coperta ricamata di polvere si adagiava ovunque e la luce che entrava dalla finestra riusciva a rendere l’idea anche della polvere non depositata ma che era sospesa nell’aria e mossa dal mio muovermi nella stanza.
Spalancai ogni cosa e diedi nuovo respiro a quel corpo malandato.
Le ragnatele erano delle sculture agli angoli del soffitto e l’unica aria respirabile era la brezzolina che entrava timida dalle finestre.
Facendomi largo tra tutto il ciarpame che trovai ammassato per la casa arrivai al già citato camino, sul quale ancora era depositata la cenere da chissà quanto tempo. Grande, massiccio, tipicamente colonico, tanto che una persona ci stava tranquillamente in piedi, era affascinante legarlo a tante storie e la voglia di riprovare dopo tanto tempo quelle emozioni che mancavano a questo cuore cresciuto, aumentava in me la voglia di risistemare tutto e riaccenderlo ancora.
E così feci. Durante le pulizie mi resi conto di quanto grande fosse quell’edificio e quanto tempo poteva essere passato da quando qualcuno ci aveva messo mano per fare un po’ d’ordine.
Vennero fuori dai cassetti montagne d’insetti oramai mummificati, santini d’ogni tipo tanto da poter tranquillamente affilare gli abitanti del paradiso, carte da gioco ed escrementi di ratto da poterne fare due o tre viaggi con la carriola.
Non che lo cercassi appositamente, dato che l’idea ancora stava alla larga dalla mia mente, ma non vidi nessun pozzo.
I luoghi che mi avevano visto crescere risultavano più familiari man mano che passeggiavo.
Se ci avessi pensato mi sarei certamente risposto che quel pozzo col passare degli anni poteva essere stato smesso e abbattuto o ricoperto di terriccio.
Invece non lo cercai assolutamente tanto che ai fini della nostra storia fu certamente lui che cercò me.
Andando a fare legna nella boscaglia dietro casa, trovai una vecchia rete arrugginita e in parte abbattuta che divideva il terreno di mia nonna da un appezzamento non molto grande di terra, un fazzoletto a forma di triangolo che mia nonna per non so bene quale motivo vendette ad un signore,
il quale, dopo un po’ di tempo, lo abbandonò incolto come abbandonò l’abitazione che distava non più di 10 minuti di cammino e che fu rasa al suolo per costruirci sopra una locanda.
Continuai a fare legna là dove la boscaglia era più fitta, fino a quando, il colpo di machete che sferrai andò a cozzare su qualcosa che fece resistenza prima di sgretolarsi.
Un pezzo di muratura vecchissima assemblata con non so bene quali sostanze dell’epoca, forse utilizzavano l’albume dell’uovo per tenere insieme i mattoni di cotto.
Mi feci largo a colpi di machete, facendo cadere a terra ogni velleità della natura cresciuta attorno a quella lastra fino a riportarla finalmente alla luce e facendomi lo spazio necessario per poterci lavorare con agio.
Alto poco più del mio ginocchio, aveva subito numerosi aggiustamenti e nonostante le intemperie erano ancora visibili le riparazioni effettuate nel corso degli anni.
Il pozzo mi aveva trovato dopo tutto questo tempo, ma sarà stato proprio quello?
In mente, dopo la scoperta, mi rivenivano in mente stralci del racconto di mia nonna, la sentivo alle mie spalle che con voce cupa raccontava della strega che rubava i cavalli e quell’urlo soffocato sembrava vibrare dentro le mie ossa quasi a staccarne le carni.
Ritornai a casa con il cuore di un ragazzino in gola, alla ricerca di un ferro che potesse fare al caso mio.
Grazie a quella, con la quale Archimede voleva sollevare il mondo, riuscii ad alzare la lastra, che a prima vista sembrava marmo anche se rovinato e scheggiato, fino a sollevarla tanto da farla ricadere a terra dall’altro lato e farla rotolare nel dosso appena sotto.
Una botola completamente ossidata dalle intemperie comparì sotto la lastra, sigillata a prima vista e talmente rovinata che la leva mi rimase in mano senza che applicassi molta forza per aprirla.
Oramai era diventata un unico pezzo con la muratura e sembrava che avesse intenzione di seguire la sua stessa sorte.
O sradicavo il pozzo oppure lasciavo tutto come si trovava. Un pozzo oramai secco e inservibile su un terreno che agli occhi del catasto non era nemmeno più il mio.
La seconda scelta fu certamente la più accreditata e andai subito a provare la sbarra di ferro mezza piegata, con la quale avevo rimosso la lastra di marmo.
Non ci volle molto che la sbarra mi rimase in due tronconi in mano e la botola indifferente lì, ma quello che non poteva una sbarra mezza arrugginita lo poteva una mazzetta da cinque chilogrammi da carpentiere con la quale non si và tanto per il sottile, ma si punta dritto al risultato.
La botola imperterrita resisteva, ma la muratura veniva via come se quel pozzo fosse stato fatto del marzapane delle favole.
Già al terzo colpo assestato al lato della cerniera della botola, aprì un varco per poter infilarci qualcosa e fare leva.
L’odore che veniva fuori da quella fessura era qualcosa che non apparteneva a questo mondo.
L’odore acre ti colpiva direttamente al cervello senza lasciarti scampo. Infilai un palo che avevo lì con me e feci leva con quanta forza avevo in corpo.
Non cedette subito ma quando fu il momento la botola m’investì in pieno volto come se fosse un tappo di spumante.
Eravamo al punto di svolta. Stordito tra le sterpaglie, senza la minima cognizione dello scorrere del tempo, giacevo svenuto.
Con un rigagnolo di sangue rappreso all’incrocio degli occhi fino ad una guancia, un bernoccolo dalle dimensioni spropositate che non si capiva bene dove iniziasse e dove avesse fine, mi rialzai riprendendo padronanza delle membra a poco a poco, aiutandomi con il palo che nel frattempo non avevo mai mollato.
Riconquistai la posizione eretta e, preso atto del grado di devastazione raggiunto, mi sporsi un po’ dentro l’oscuro pozzo per constatarne la profondità. Accertato che con quel buio non si poteva capire niente, lanciai un sasso per vedere la profondità e per vedere se sul fondo c’era ancora dell’acqua stagnante.
Nessun rumore. Assolutamente niente.
Ritornai al pozzo poco dopo essermi medicato e dopo essermi munito della strumentazione necessaria.
Legai una grossa fune ad un albero vicino per prepararmi alla discesa solo dopo aver legato una pietra ad un capo e verificato la profondità.
Abbondanti dieci metri e nessun segnale d’acqua stagnante al fondo.
Mi assicurai la corda alla vita…. O per meglio dire la vita alla corda… e testata la resistenza della stessa alla pianta, armato di torcia elettrica iniziai a calarmi nel fondo.
Il pozzo era stretto e scendevo tenendo la torcia in bocca, cercando di puntare la luce al fondo per regolarmi.
Alla fune avevo fatto dei grossi nodi alla distanza di un metro circa l’uno dall’altro, in modo da avere un riferimento su quanta strada mi mancava ancora da fare.
L’odore non potrà mai essere riportato su di un foglio, da quanto era terribile, e lo sguardo in alto verso l’uscita mi faceva tornare in mente tanti di quei film dell’orrore che in casi come questi possono gettarti con facilità nel panico più totale.
Abbassando la testa il risultato fu ben peggiore.
Sul fondo del pozzo c’era qualcosa di bianco che rifletteva la luce della torcia.
Mentre mi calavo, quella cosa bianca incominciò a prendere forma e alla fine mi trovai dinanzi uno scheletro.
Lo scheletro non era tutto di un pezzo, mancava l’arto inferiore destro, mentre quello sinistro era ancora attaccato al bacino come l’arto superiore sinistro era attaccato alla spalla, mentre quello destro era poco distante.
Quello scheletro valorizzava così tanto la storia di mia nonna da farmi venire la pelle d’oca ancora adesso.
Cercai di scendere il più delicatamente possibile per non devastare quel povero scheletro già scomposto, guardando il fondo se riuscivo a trovare qualcosa d’identificativo.
Sembrerà strano a chi legge, la calma che posso dimostrare in queste circostanza, ma è sicuramente dovuta all’esperienza.
Per chi non mi conosce bene posso dire di aver avuto a che fare con i cadaveri in vita mia.
Oltre ad aver seppellito tutti gli animali domestici che morirono nel corso della mia adolescenza, e vi assicuro che fu una bella gavetta, ho lavorato per molto tempo come aiuto becchino nelle onorificenze funebri qua in paese. Lasciai quel lavoro dove ero pagato poco, ma vestivo bene per andare a fare lo sbirro in città, dove ero pagato poco e vestivo pure male.
La carriera da sbirro non durò molto tempo perché pensarono bene di tagliarmi subito fuori, ma il motivo lo vedremo poi un’altra volta. Vi basti sapere che se vedo un cadavere non lo tocco, ma nemmeno scappo via terrorizzato.
Data una vista al fondo del pozzo alzai lo sguardo in alto verso l’uscita del pozzo, la testa ancora mi faceva male per la botta presa ed ebbi come un malore, forse l’odore mi stava mandando in pappa il cervello, mi sembrava di vedere qualcuno che richiudeva la fessura sopra.
Niente di tutto questo. Passò tutto subito.
Ritornai in superficie.
Lo stretto pozzo era stato per chissà quanto tempo la tomba per quel corpo che ad una prima analisi doveva appartenere ad una donna per la tipica forma dell’osso del bacino.
Le pareti del pozzo erano logore, un’incisione sembrava voler lasciare un messaggio, forse un nome, forse in quei momenti la fantasia riesce a fare molto di più di quello che gli occhi possono testimoniare. Non saprei, forse invece era solo il muschio cresciuto in maniera irregolare a dare quella sensazione alla luce della torcia.
Un senso d’oppressione preme al petto, quando cerchi di capire come possa essere finito lì quel corpo, per quanto tempo possa essere durato là sotto e per quanto ancora in vita.
Quanto può durare un essere umano, quando sa che oramai non c’è più nulla da fare?
Per quanto tempo il coraggio può bastare ad andare avanti? Quando i morsi della fame ti prendono allo stomaco, quando il dolore della caduta oramai non è che un lontano ricordo, quando il silenzio scende e l’umidità ti penetra fino in fondo all’anima, quando non riesci più a capire se è giorno o notte ma per te un eterno oblio.
A cosa pensa una persona in queste condizioni? Dove và a finire il pensiero, come si cerca di evadere da quel posto, come si và a cercare con la mente una soluzione per darti ancora speranza e sopravvivere?
Chi l’ha provato non lo racconta e chi lo racconta molto probabilmente non l’ha provato fino in fondo.
Decisi di avvisare le autorità che fecero un lavoro da incompetenti non prestando nemmeno lontanamente le attenzioni che avevo posto io.
Avevano trovato un cadavere che giaceva da chissà quanto tempo infondo un pozzo, nessuno lo reclamava e quindi a che pro cercare chi l’aveva messo?
A chi interessava quel cadavere che nessuno reclamava? Se è stato laggiù per tutto questo tempo senza dar fastidio a nessuno, perché darsi da fare per dargli giustizia?
Nel frattempo andai a fondo alla questione a modo mio, vecchio segugio dal fiuto fino, indagando sui vecchi archivi ecclesiastici che sono una inesauribile fonte di informazioni quando occorre andare ad indagare nel passato, dove l’archivio civile annaspa nel vuoto.
Arrivai al nominativo dell’intestatario di quel terreno e indagando su quel cognome a ritroso fino a dove riuscivo ad arrivare.
I miei contatti dentro mi portarono all’autopsia e alla data del cadavere.
Le percosse erano state numerose ma non morì sul colpo, passarono almeno due terribili intere giornate condite da dolori impressionanti per il trauma cranico e la rottura di diverse ossa, il primo inferto dall’aggressore il secondo per la caduta.
Ma si poteva fare molto di più e questo me lo ripetevo ogni sera che tornavo a casa e accendevo il fuoco, ma lo facevo non per esigenza fisica ma per dipendenza psicologica, sorseggiando del brandy scadente comprato al bar in fondo la strada, proprio come faceva la mia vecchia nonna.
Mi stendevo sulla sedia cercando di rilassarmi e una brezza entrava dalla finestra fino a dietro la mia nuca.
Era un periodo che la sera faceva sempre uno scroscio di pioggia estiva e il calore del fuoco la sera era a dir poco piacevole nonostante fosse stagione calda.
Sulle prime pensavo che fosse l’effetto delle pillole che prendevo come fossero mentine, dato che la botta oltre a un bel ematoma mi aveva lasciato un forte mal di testa che imperversava da diversi giorni, ma quella sera la brezza la sentivo in maniera particolare fino a quando la sentii un po’ troppo.
Come se fosse stata una carezza di sfuggita, una ventata più forte forse, ma molto simile ad una carezza.
Splendida la sensazione ora che per me è divenuta familiare, ma mi atterriva le prime volte e chiaramente era difficile da spiegare anche ad uno psichiatra, non che non ne abbia fatto mai uso.
La sedia oscillò all’indietro e io mi ritrassi subito alzandomi in piedi. Forse il brandy, forse il ritrovamento del cadavere, chiusi la finestra e ritornai a sedere.
Ancora una volta. Depositai la bottiglia. Forse era troppo e mi misi a letto. Per quella sera bastava così.
Per quella avventura non abbi più simili sensazioni se non una sera che ritornavo a casa, ma era comunque costante la sensazione di non essere solo, e mentre le prime volte ne avevo un po’ di timore, con il tempo abituandomi, imparai a conviverci fino a non poter farne più a meno.
Non che riesca a dialogarci o scambiarci messaggi, anticipo subito dicendo che non so se possa essere mia nonna o quel cadavere che poi scoprirono di donna, comunque quella presenza non mi abbandonò più e in più occasioni si rilevò essenziale.
Divenne da quel giorno come un angelo custode, una guida, un famiglio che mi precede quando si avanza, che mi copre le spalle nel pericolo, che mi sostiene e mi appoggia, una parte di me insomma, una fortunata estremità che non tutti possono vantare.
Dopo una lunga ed estenuante ricerca arrivai dove volevo. Chiaramente non aveva collegamento alcuno con la storia di mia nonna, ma era la moglie scomparsa del signore che si era comperato il campo confinante.
Tutto ciò era avvenuto come minimo il secolo prima, se non di più. L’assassino aveva ammazzato la moglie e l’aveva chiusa nel pozzo per poi subito dopo dichiararla scomparsa, risposarsi e fuggire via senza lasciare traccia alcuna.
Ora saranno sicuramente morti, l’assassino, la sua nuova e forse ignara sposa, i figli e nipoti. Forse qualche ignaro discendente nel mondo non sa nemmeno di essere il fortunato titolare di un triangolare lembo di terra, dove è stato scoperto un cadavere.
E c’e’ chi giura che di notte, in quella vallata, risuonano ancora le urla, provenenti dall’inferno, della vecchia strega rinchiusa in fondo al pozzo che rubava di notte i cavalli.
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- bella storia originale e misteriosa, mi ha tenuto sulle spine!
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