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Dippy
Dippy l’avevo incontrata una mattina che ero andato a prendere un caffè al bar sulla tangenziale. Ricordo due ragazze dietro al bancone, con una divisa estremamente sensuale che si capiva facilmente essere studiata appositamente con lo scopo di attirare clientela maschile, minigonna super corta e calze rete, col nome scritto in una etichetta attaccata alla divisa, Moira e Dippy. Entrambe carine, Moira bionda sopra i trenta, con dei boccoli biondi che le sfioravano le spalle, Dippy mora, molto giovane, con fattezze lievemente orientali, fisico molto proporzionato, belle gambe e culetto tondo. Attrasse la mia attenzione. Inizialmente la credevo italiana, magari ben abbronzata, sì perché il colore della carnagione faceva pensare soltanto ad una bellissima abbronzatura. Quando ebbi finito il caffè le chiesi scherzosamente se Dippy fosse un soprannome, ma lei mi rispose seria che era il suo vero nome e che lei non era italiana, ma bensì che era nata in India. E chi l’avrebbe mai detto un’indiana così sensuale, non l’immaginavo proprio.
Uscii dal bar col desiderio di rivederla e di farne conoscenza. Tornai altre volte, ma era difficile attaccare bottone e finalizzare l’approccio; il locale era sempre affollato di avventori e lei restava molto sulle sue. Era del resto comprensibile. Ma intanto mi attraeva sempre di più.
Quella sera eravamo andati al disco pub con Mik. Lui aveva con se della marijuana che ci facemmo nel parcheggio. Soltanto pochi minuti dovettero trascorrere perché sentissi la testa e gli arti informicolirsi. Ci eravamo detti poche parole fino ad allora. “Third Uncle” dei Bauhaus ci aveva accompagnati durante la fumata e ci aveva decisamente caricati per iniziare una nottata delle nostre. Lo guardai dritto negli occhi. Erano dolci e languidi come quelli di un cane bastonato. Erano teneri. Li adoravo. Mik capì il mio sguardo, avvicinò il suo viso al mio e le nostre labbra si unirono mentre le lingue si cercavano. Un breve ma intenso bacio. La sua bocca sapeva di fumo e di birra, non male.
Ci dirigemmo, senza dirsi una parola verso l’ingresso dove già si affollava un nugolo di persone insignificanti.
Mik indossava il solito giubbetto di jeans, che ormai gli avevo visto centinaia di volte, dei jeans sdruciti e il solito sguardo stralunato, ma simpatico e accattivante, che incuriosiva le ragazze. Io non ero male: maglione di cotone arrotolato in vita, polo Nike blu, vecchi jeans e scarpe da ginnastica Adidas anch’esse blu. Entrammo guardando in cagnesco il buttafuori di turno. Odiavamo quella razza di persone che si piazzano lì, davanti all’ingresso e ti scrutano da capo a piedi per intuire se sei degno di entrare nel locale che loro, in qualche modo, si sentono in dovere di controllare, nonché per cercare di capire se sarai il tipo che nel corso della serata potrà piantargli delle grane. Di solito ti scrutano in maniera minacciosa per intimidirti e per mettere in chiaro chi è il più forte. A noi piaceva anticipare la loro mossa.
Si entrava in un cortiletto spazioso che era già popolato di gente, con un bar dalla parte opposta rispetto all’ingresso. Poi c’erano delle sale al chiuse con altri bar. La maria intanto stava salendo sempre di più. Veramente roba buona a questo giro. E mentre la testa si alleggeriva, la mia percezione si modificava e nuove porte si aprivano verso paradisi immaginari fatti di pensiero puro, e ancora porte che si aprivano inondando i miei occhi di visioni illuminanti. Un flusso di pensieri brevi ma percettibili iniziarono ad ingolfare la mia mente, come fotogrammi veloci che guardavo passare cercando di fermarli con lo sguardo, ma che ti lasciavano tutti una sensazione netta. È la sensazione associata, poi, l’unica cosa che ti resta.
Le cose, gli oggetti, iniziarono a diventare più leggeri, come se avessero perduto la loro consistenza. Muoversi in quella nuova dimensione che mi si era appena aperta era molto meno faticoso del solito. Ancora immagini inondarono la mia mente come un fiume in piena, vedevo una moglie, poi un figlio, vidi i miei genitori invecchiati, mi vidi su una poltrona in giacca e cravatta dietro una scrivania da dirigente d’azienda, poi una bellissima ragazza bionda con un visino angelico che mi pomiciava e ancora mentre facevo sesso con una ragazza mora e …., mi vedevo giovane e solare con tanti tatuaggi, ognuno associato ad un ricordo e ad un momento preciso, e ancora giovane, abbronzato e spavaldo mentre ero con una ragazza straniera appena conosciuta e un coltello che usciva fuori improvvisamente, che colpiva la malcapitata alla gola senza lasciargli neanche il tempo di rendersi conto di qualcosa, forse solo pochi istanti di consapevolezza, e uno spruzzo di sangue che inondava le mie braccia… Mi sentivo bene. Calmo e leggero.
Guardai Mik. Era un po’ fuori, ma anche lui stava bene. Gli occhi gli brillavano. A me, lui, piaceva così.
Iniziammo, in fila indiana uno dietro l’altro a girovagare nello spazio aperto, osservando con attenzione per farsi fin da subito un quadro chiaro della situazione, cioè per rendersi conto della presenza di possibili prede. Apparve subito chiaro che di ragazze ce ne erano molte, anche di carine e vestite arrapanti. Lo segnalai con un sguardo a Mik che mi rispose con un sorrisetto furbo. Ma era l’ora dei drinks: gin e tonic per Mik e Negroni forte per me.
Ci mettemmo a sedere mentre sorseggiavamo e osservavamo. Mik aveva adocchiato un trio con due niente male che sembravano essere da sole. Si guardavano intorno con sguardi rapidi e furbi come alla ricerca di qualcosa, il complemento a ciò che stavamo cercando noi. Decidemmo per un altro drink prima dell’arrembaggio.
Mentre col secondo Negroni in mano mi dirigevo verso il gruppetto una bellissima ragazza mora mi tagliò la strada e ci scontrammo. Lei si voltò per chiedermi scusa: era Dippy. Mi riconobbe. Era con un’amica e con loro si fermò anche un ragazzo alto e biondo che mi guardo sospettoso. Ricambiai l’occhiata veloce. Un’altra occhiata fu per l’amica di Dippy. Biondina, piccola, con capelli lisci e minigonna superba. Mik era ad un passo dietro di me.
Dippy mi sorrise. Si capiva subito che quella leggera freddezza e distacco li aveva lasciati dietro al bancone del bar. Le chiesi, tanto per rompere il ghiaccio, se era un’abituale del locale. Mi rispose che era la seconda volta che vi metteva piede. Le presentai Mik. Guardai la biondina. Ci sorrise e si presentò: Erika. Il ragazzo si stava allontanando. “Siete con qualcuno? ”, le chiesi. “Un amico di Erika ci ha accompagnato ma se la prende sempre se poi ci fermiamo a salutare degli amici; due palle”. “se ne è già andato” sottolineò Erika con aria disgustata. “Beh, chi se ne frega! ” tagliò corto Dippy, ed entrambe risero divertite. Io e Mik di passammo un’occhiata svelta ma significativa: gradivano la nostra compagnia.
Le offrimmo una bevuta. Per me fu una birra e, ovviamente, Mik continuò col suo Gin e Tonic. Anche Dippy si fece una birra mentre Erika decise di gustarsi un rum e coca. Con un non verbale inequivocabile, feci intendere a Mik che Dippy sarebbe stata la mia preda. L’intesa era talmente affiatata che Mik senza proferire parola si mise ad incalzare la biondina fissandola dritto in viso e avvicinandosi sempre più, come era suo solito fare quando era al terzo Gin Tonic.
L’indiana si mostrava socievole ma faceva chiaramente comprendere che desiderava mantenere le distanze, come del resto è naturale, perché dare subito eccessiva confidenza può essere un atteggiamento che il predatore maschio può fraintendere. Per meglio dire, non voleva far la facile e in tutta sincerità al sottoscritto le donne troppo facili non sono mai andate a genio.
“Da quanto tempo è che vivi in Italia? ” le chiesi. Mi perdonerete la banalità della domanda ma il discorso lo dovevo in qualche modo far decollare.
“Circa dieci anni” rispose lei sorridente “mi sono trasferita con i miei” quando ero ancora una ragazzina”
“Perché adesso cosa sei? Una donnetta” feci io spintonandola un poco all’indietro.
“Beh adesso sono quasi da marito…”. Il suo italiano era perfetto, come il suo culo!
Intanto in un orecchio mi rimbalzavano le cazzate di Mik. Erika rideva divertita. Doveva piacergli il mio amico. Sembrava anche avere freni inibitori molto scarsi, a differenza della splendida indiana, e chissà cosa sarebbe successo dopo qualche altre bevuta! Prevedevo se la sarebbe pomiciata di lì a poco anche se Mik è uno a cui non piace prendere l’iniziativa; cerca sempre di portare le cose in modo che siano le ragazze a farlo. Io, invece, adoro prendere l’iniziativa.
“Come ti trovi al bar? Sai quanti uomini si fermano a prendere qualcosa attirati dalle vostre minigonne vertiginose… cioè, non per dire, ma anch’io sono stato fra quelli. ” E dopo una pausa riempita da un suo sorrisetto, continuai, “Ehm… devo dire che le volte che sono tornato era per cercare di attaccar bottone con te, cioè provare darti il mio numero per poi invitarti a uscire. Avevi fatto colpo su di me! ” Lei continuava a ridacchiare mentre si gustava i miei complimenti, continuando a sorseggiare la birra con delicatezza femminea.
“Del resto le tre o quattro volte che sono venuto ho sempre trovato altri clienti che vi fissavano mentre prendevano il caffè e ciò mi bloccava. Se non ti avessi incontrato qui non avrei mai avuto modo di fare due discorsi con te in tranquillità. Dev’essere stato il destino a farci incontrare… tu credi nel destino? Io si, Talvolta accadono delle cose sembrano inequivocabili…” Adesso stavo sparando la cazzata del fato a cui, ovviamente il vostro eroe non credeva affatto, ma alle dolci femminucce spesso piace pensare che certi incontri non avvengano solo per i capricci del caso. L’idea le fa fantasticare un po’ quando si trovano la sera chiuse nella loro cameretta e pensano a qualcosa di dolce e tenero, prima di masturbarsi senza ritegno.
“Può darsi”, rispose lei alzando gli occhi verso l’alto come a cercare qualche fatto rimasto nella sua memoria che supportasse la questione.
Mentre parlavo i miei pensieri si concentravano sempre più su quel culo e quelle tette da mordere, per non parlare di quella liscia pelle abbronzata, chissà che odore doveva avere mi chiedevo guardandola vogliosamente. La mia mente volava a tutte le cose porche si potevano fare con una bambolina del genere.
Lei se ne accorgeva e talvolta distoglieva lo sguardo sul mucchio umano che si andava addensando attorno, mentre sorseggiava quel poco di birra rimasta nel bicchiere.
“Hai il ragazzo”, le chiesi cercando di apparire il più disinteressato possibile.
“No, attualmente no, mi sono lasciata con uno stronzo tre mesi fa, e non lo rimpiango affatto; mi sono veramente liberata da un peso. ”
“E tu, invece”, chiese con tono leggero e curioso.
“Anch’io single! ” affermai con entusiasmo.
“Vivi sola o con qualche compagna? ”, era il momento di incalzare sul personale e prendere più indizi possibile.
“Vivo con Erika a Modena” fa lei,
“Ah, con Erika, ma che bella coppia” dico io con fare adulatore “deve essere una casa splendida da visitare…”
Lei sorrise orgogliosa del complimento.
Decido di rompere gli induci e attacco, “Beh senti, perché non ci scambiamo i numeri di telefono?, cioè non per dire ma non so.. se volessimo rivederci, magari di potrei invitare una volta a prendere un aperitivo, cioè non sono uno che poi disturba più del dovuto e si approfitta del fatto di avere il numero, capisci ciò che intendo? Insomma, sarebbe imperdonabile se mi lasciassi sfuggire l’occasione di rivederti”.
Un sorrisetto furbo comparve sul suo viso, come di chi la sa lunga, e disse “mi puoi sempre trovare al bar…”.
“No, il bar mi inibisce, troppe persone, poi ci vengo raramente. Dai cosa ti costa darmi il numero? Giuro che non ne farò un uso poco sensato, modestamente ho un certo stile! ”
Mi guardò dritto negli occhi con espressione indagatrice, poi distolse lo sguardo per un attimo dal mio e mosse gli occhi attorno a se nel tentativo di fare una breve riflessione; ma avevo già la certezza di averla convinta. Tiro fuori il mio cellulare e lei inizia a dettarmi il numero mentre io sto ancora scrivendo “Dippy”. Una vola finita l’operazione avrei potuto fargli uno squillo per verificare se:
a- la zoccola indiana avesse fatto la furba
b- lasciare automaticamente nel cellulare della zoccola indiana il mio numero
Una luce sinistra si illumina nella mia mente appannata dall’alcool ed il fumo, e decido di non farlo. Non gli lascio il mio numero. Del resto lei neanche me lo chiede. In cuor mio speravo che anche il coglione di Mik prendesse le stesse precauzioni, anche se, conoscendolo, se non si fa avanti Erika col numero, col cazzo che sarà lui a chiederglielo…
Ancora un lampo attraversa il flusso sconnesso dei miei pensieri e vado alla ricerca di ulteriori precauzioni. Le chiedo dove abita. Lei risponde che abita in via delle Medaglie d’Oro, vicino alla stazione piccola. Cerco dettagli maggiori. “Ah si? ” faccio io con l’aria di chi ha trovato particolarmente interessante la dislocazione dell’abitazione. “Avevo una ragazza abruzzese che studiava a Modena (cazzata); alloggiava precisamente nella tua stessa via, all’altezza di quel negozio, non ricordo…”.
Lei mi interrompe e prosegue nella descrizione facendo il mio gioco “No, noi stiamo proprio all’inizio, dove c’è la rotonda, dalla parte della stazione. È io il secondo portone sulla sinistra”.
Questo mi può bastare! Se sono fortunato ci sarà un cognome indiano su uno dei campanelli.
Intanto Mik era sparito con Erika. Lo cerco con lo sguardo intorno a me, non è possibile che abbia già preso una tale e precoce iniziativa, a meno che lei non fosse proprio una bella troia. Ma il mio sguardo allenato sa dove cercarlo, il delinquente: al bar. In effetti, allungando il collo, intravidi una testolina spettinata con una figura bionda e sorridente accanto che si stavano apprestando all’ennesima bevuta. Tra un po’ vomiterà il coglione, pensai tra me e me, anche perché aveva ancora della maria che, conoscendolo, non avrebbe fatto avanzare. Ma se il bastardo se la fosse fatta da solo con Erika mi sarei incazzato: dovevo provare a far fumare anche Dippy, perché una volta sballata per bene avrebbe perso sicuramente gli ultimi freni inibitori che la mantenevano ancora ad una certa distanza da me. Il pericolo era grande e occorreva tenere braccato Mik che sicuramente si stava ubriacando.
Presi Dippy per un braccio e la tirai verso il bar per raggiungere i due amici.
Li trovai veramente in sintonia che si sorridevano a vicenda tenendo i volti molto vicini: avrebbero pomiciato di lì a poco solo se la biondina avesse preso l’iniziativa. Pensavo che io e Dippy eravamo molto più indietro e ciò mi innervosiva. Presi un’altra birra. Dippy mi seguì. Gli altri si erano già avvantaggiati con del Gin Tonic. Cerco di attirare l’attenzione di Erika, che mi pare aver già perso una buona quantità di freni inibitori, per convincerla ad uscire fuori a fumarsi della maria che il mio amico aveva in quantità più che sufficiente per tutti e quattro. Mik mi guarda con la faccia sconvolta, mi guarda negli occhi assumendo un’espressione pietosa; è fuori e una canna potrebbe essergli fatale. Lo guardo anch’io fisso negli con uno sguardo deciso ed incisivo: il mio pensiero arriva alla sua mente e comprende che dobbiamo farle sballare. È un rischio che dobbiamo correre anche noi.
Nel frattempo Erika mi aveva osservato senza parlare per farmi capire con un non detto che in cuor suo aveva già accettato l’offerta trasgressiva.
Mi volto verso Dippy e le dico ad voce: “andiamo dunque.. ” e rivolgo nuovamente lo sguardo verso Erika alla ricerca di sostegno per convincere la più timorosa amica.
Erika guarda Dippy e si avvicina con la bocca al suo viso dicendole qualcosa che non riesco a cogliere neanche attraverso il labiale. Vedo poi Dippy fare un cenno di assenso col capo.
“Ok”, dice con tono deciso Erika “finiamo di bere e andiamo” e rivolge lo sguardo verso Mik che accenna un assenso muovendo la testa.
Mentre stiamo velocemente finendo i nostri drinks eccoti che ti vedo arrivare il ragazzo biondo che era con loro all’inizio. Si avvicina a Dippy e le dice con tono risoluto: “Io me ne sto per andare, se volete essere riaccompagnate a casa sbrigatevi a bere che non voglio far troppo tardi stasera”.
“Va bene”, risponde la bionda “finiamo i drink e ti raggiungiamo. Ci aspetti all’uscita? ”.
Il ragazzo le fa un cenno col capo mentre si allontana tra la folla. Le ragazze non riescono a cercano invano di nascondere il dispiacere di lasciarci. Ci proponiamo di accompagnarle ma rifiutano perché quel ragazzo è sempre così gentile con loro e non possono fargli questo.
“Comunque io ho il numero di Dippy, ci potremo rivedere, se vi andrà di farlo, cioè vi contatterò sicuramente. Stasera siete state molto carine e simpatiche e faro di tutto per avere un’altra occasione per rivedersi. Non dubitate”. Sorridono, ci danno un bacio, ci ringraziano per la compagnia e si allontanano verso l’uscita mostrando i loro culi che si perdono tra masse informi di carne umana e lasciando i vostri eroi arrapati più che mai.
Sempre più ubriachi ci guardammo un istante senza dire una parole. Anzi, ricordando meglio, Mik si lasciò andare ad un’espressione piuttosto forte: “Che gran fighe, quanto vorrei scoparle quelle troie”.
I ricordi si fanno un po’ confusi ma certamente non passò molto tempo che uscimmo anche noi. Dovevano essere circa le due del mattino. Confidai a Mik che avevo il numero di Dippy e sapevo dove abitavano. Egli ne fu felice. “Dai, allora cosa aspettiamo… andiamo a fare una scorribanda a casa loro! Magari prima chiama Dippy e senti se vogliono uscire ancora e le andiamo a prendere”.
“No”, risposi io secco, “non le voglio chiamare, ne col mio cellulare ne da un telefono pubblico. Non dobbiamo lasciar traccia di noi… sai com’è, mio caro, non si sa mai come va a finire…”. Lui mi fissò con espressione accigliata. Poi Fece un cenno di assenso con la testa e sorrise malizioso. I suoi riflessi si erano allentati di molto, gli occorreva del tempo prima che riuscisse completare un ragionamento. Imparai con grande soddisfazione che lui ed Erika non si erano scambiati i telefoni. Ne ero quasi certo. Però non si sa mai.
Infilammo nella mia macchina. Quel tesoruccio del mio compagno, di sua spontanea iniziativa, aveva iniziato a rollare una canna. Fumammo con la musica ossessiva dei Bauhaus che ci martellava le cervella.
Mik propose di andare a prendere una birra veloce prima di passare a far visita alle due sgualdrine. Non mi andava di mischiare ancora alcolici dentro il mio stomaco; non volevo rischiare di vomitare. Non sarebbe stato bello. Proposi un Roipnol a testa. Erano dei rimasugli che avevo portati dietro con me, risalenti alla mia ultima crisi depressiva. Ovviamente accettò di buon grado anche se odiava per principio le droghe chimiche. Gli spiegai per l’ennesima volta che era solo un farmaco che sballava un po’ se ingerito con alcool o altre droghe. Ingollò la pillola senza far storie.
Fatti di maria, sballati dall’alcool e dal Roipnol, ci avviamo verso l’abitazione delle due piccioncine.
Arrivammo al portone, dopo aver avuto cura di parcheggiare l’auto a qualche centinaio di metri di distanza. Appena scesi dall’auto aprii rapidamente il bagagliaio e mi misi a tracolla il piccolo zaino da arrampicata al cui interno avevo corde, cordini, moschettoni e anche un meraviglioso coltello serramanico dalla lama nera ed affilatissima, che subito tirai fuori e lo misi nella tasca sinistra dei pantaloni. Mik aveva capito, non approvava ma mi avrebbe seguito nella mia follia… come quella volta col mare in burrasca… con le onde in quel folle gioco di approdare agli scogli. Mi seguì come un bimbo segue il suo istinto. Col tempo la mia follia gli era parsa un’abitudine da seguire, non mi avrebbe mai tradito, ne ero sicuro. Ed io lo amavo per questa sua fedeltà.
Arrivati sotto il portone i due eroi iniziarono a scorrere i nomi scritti sui campanelli. C’era un unico cognome straniero ed aveva un sapore indiano… suonammo.
La risposta si faceva attendere, in effetti a quell’ora, due ragazze sole, un po’ di apprensione ce la potevano pure avere. Comunque dovevano essere rientrate da poco, quindi erano ancora in piedi. Suonammo di nuovo. Il secondo tentativo sortì l’effetto desiderato. Una dolcissima voce femminile, un po’ tremolante, rispose chiedendo “Chi è? ”. Era la voce di Erika.
Il mio compagno avvicinò le labbra alla griglia del citofono e con voce calda e sensuale disse “siamo i lupi cattivi e siamo venuti per sbranarvi”, di seguito la sua risata inconfondibile. Appena riconosciuto Erika scoppiò a ridere e ad urlare “ah sono loro, hi hi hi, Dippy, hi hi hi, sono Ale e Mik”. Fu la mia volta. “Ciao ragazze, spero che vi abbiamo fatto una gradita sorpresa. Ci sembrava un po’ presto per andare a letto, e quindi se volete scendere vi portiamo a far casino da qualche parte, oppure… ci fate salire e ci offrite qualcosa… ai lupi cattivi, uuhhhuuh…”.
Adesso sentivo gli urletti eccitati di entrambe, che si mischiavano a risatine isteriche e a frasi dette tra i denti che non riuscivamo a comprendere. Era evidente però che la nostra improvvisa calata notturna le aveva eccitate. Guardai Mik con sguardo fiero. Lui mi disse bravo con un non detto inequivocabile.
Ad un certo punto la voce di Erika prese il sopravvento “Dai ragazzi, salite che ci beviamo una birra. Siamo al secondo piano. ” I lupi cattivi aprirono il portone ed iniziarono a salire le scale con foga, sovraeccitati dal caloroso invito. Arrivati alla porta di casa avevano il fiatone, favorito anche in dello stato psicofisico precario in cui versavano.
Presi Dippy per la vita e la invitai a condurmi dove dormiva. Le raccontai che ero curioso di visitare gli oggetti che riempivano le stanze delle persone, o i libri, o i dischi, perché facevano giocare la mia fantasia a rappresentarmi l’anima della persona che avevo di fronte. Le mie parole uscirono così fluide e convincenti che la bella indianina mi aiutò a sospingerla verso la sua cameretta. Entrammo, lei accese la luce, vidi foto, soprammobili dappertutto e il suo viso con un sorriso fiero che le si stava stampando sulle labbra. Ma io ero troppo fatto per starmene li ad osservare oggetti e cose, la fissai negli occhi, mi avvicinai e provai portarla a me e a baciarla. Lei si tirò indietro, dapprima dolcemente, poi, al secondo mio tentativo, mi discostò con più forza assumendo un’aria indispettita. Provai improvvisamente un odio incontrollabile nei confronti di quella puttanella. Non si immaginava che si era segnata la sua condanna a morte. Tirai fuori il coltello e mi scagliai contro di lei con una furia inaudita e la le si pianto nell’addome. Poi spinsi verso l’alto con tutta la forza. La sentii gemere, poi mi ritrovai sporco sangue, e ancora il sangue che zampillava caldo dal suo stomaco. Le avevo aperto la pancia, ero stato così cruento che mi stupii di me stesso.
Adesso toccava all’altra. Non si poteva più tornare indietro.
Entrai nella camera di Erika. Una calma piatta si era impadronita di me, come spiegarvi meglio, tutto quello che sarebbe successo o che mi sarebbe potuto succedere mi era indifferente. In quel preciso istante. Freddo come un pezzo di ghiaccio. Sanguinario, spietato e oramai determinato ad uccidere anche la seconda gallinella.
Erano entrambi la, davanti ad un mobile con uno specchio, mi parve che lei mostrasse a lui delle foto. Si voltarono come sentirono la mia presenza. Il mio aspetto lasciava adito a pochi dubbi, gli abiti sporchi di sangue e il coltello in mano, che anch’esso sporco. Mik capii al volo cosa era accaduto e tutto quello che doveva ancora accadere.
Erika sgranò gli occhi incredula, chissà quale uragano di pensieri era diventata la sua mente. Stava aprendo la bocca, cercava, forse, la forza per urlare, ma il grido gli soffocò in gola. Ci stava per riprovare, andava fermata, io buttai il coltello sul letto e mi scagliai verso di lei, ma incredibilmente Mik gli si era già avventato addosso e gli stava tappando la bocca con una mano con tutta la forza che aveva. La presi per il collo, per un attimo, poi ci ripensai, intimai Mik di tenerla così ancora per qualche secondo. Corsi allo zaino e tirai fuori del nastro ed i cordini. Intanto i gemiti di quella troietta si facevano sempre più acuti. Corsi di nuovo da loro dove Mik era allo stremo per reggerla, visto che oramai si dimenava come una bestia ferita. Strappai un grosso pezzo di nastro e glielo appiccicai con forza su quella tenera boccuccia, dopodichè la girammo e la sbattemmo sul letto dove fu legata mani e piedi.
Ed eccola là, chissà a cosa stava pensando, aveva lo sguardo atterrito di paura, gli occhi erano spalancati, cercava di urlare di dimenarsi, mi guardava e sembrava chiedermi pietà, sembrava cercare nei miei occhi uno piccolo accenno di umanità che gli permettesse di non perdere la speranza. Perché, miei cari, ella aveva ormai intuito tutto l’accaduto quasi alla perfezione. Dippy era stata probabilmente assassinata dall’individuo che le stava di fronte. Adesso poteva vedere chiaramente il coltello sporco e le macchie di sangue sui miei vestiti. Allora stava intuendo che la sorte sarebbe di lì a poco toccata anche a lei. Chissà cosa pensava realmente. Sarei stato curioso di osservare le immagini caotiche che dovevano passarle davanti agli occhi. Magari si stava chiedendo se l’avremmo stuprata prima. No, a me non piace stuprare. Deve essere odioso fare sesso con una donna che non lo vuole. A me piace vedere e sentire una donna che gode… Io non stupro; perché non ci provo piacere. Ad uccidere talvolta si; non c’è un motivo preciso per il quale lo faccio, è una scarica di adrenalina, un’emozione non forte, violenta, una vampata di calore che ti parte dallo stomaco e ti arriva alla testa. A volte mi piace farlo. Solo che è molto rischioso, è facile fregarsi, occorre fare la massima attenzione. Da incensurati è tutto molto più facile.
Ma tornando alla nostra biondina, la vedevo sempre più terrorizzata, sembrava pregare, cercare qualcuno, forse la mamma. Era completamente nel panico, avvolta nei pensieri più foschi, non si dava pace. So che è molto difficile affrontare il momento della morte quando non si è preparati a farlo, quando ti arriva lì, all’improvviso, che proprio non te l’aspetti. E l’evento più naturale del mondo, che sarebbe dovuto accadere prima o poi, era ormai prossimo, ma questo sembrava inconcepibile. La fredda mano della morte ti stava accarezzando e tu cercavi disperatamente di sfuggirli; che assurdità. Solo perché Erika non ci aveva mai riflettuto con attenzione, aveva pensato spesso alla vita trascurando un po’ troppo la morte. Io, invece, mi ci ero abituato al pensiero, piano piano, in un periodo della mia vita, gli ero arrivato sempre più vicino, fino quasi ad afferrarla, ma poi mi era sfuggita… e adesso non mi faceva più paura. Avrei voluto che anche per lei fosse così.
Intanto Mik fumava una sigaretta e non parlava. Non osavo guardarlo.
Mi avvicinai alla ragazza. I suoi occhi esplosero di terrore. Mi misi a cavalcioni sul suo corpo e le piantai il coltello in pieno petto con tutta la forza che avevo. Incontrai qualche resistenza, le ossa immagino. I suoi occhi rimasero accesi per un tempo che mi sembrò eterno. Chissà quanto ci vuole a morire? Mi chiedevo cosa avesse sentito, dolore, la vita che gli scivolava via. Cercai nei suoi occhi una risposta che non trovai.
Uscimmo rapidamente di casa prestando la massima attenzione a far poco rumore ad aprire la porta e ad immettersi giù per la rama di scala. Era un momento delicato, essere visti adesso da qualcuno del condominio avrebbe potuto comportare rischi enormi per i vostri eroi. Ma era notte fonda ed erano sicuramente tutti a dormire.
Arrivati in strada ci dirigemmo verso l’auto camminando rasenti al muro dei palazzi, poi, man mano che ci allontanavamo dal luogo del delitto ci spostavamo verso il centro del marciapiede con fare noncurante. L’idea di parcheggiare lontano la vettura era stata ottima.
Entrammo in macchina e io mi volsi perso Mik. Mi fece un sorrisino soddisfatto e disse con un tono di voce flebile: “Cazzo che storia”. E tirò un grosso sospiro come per riprendere fiato. Sorrisi felice che quella scarica di adrenalina lo avesse fatto divertire. Gli volevo bene. Lo presi per la testa, lo portai a me e lo baciai intensamente.
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