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La stagione della neve
Nevica. I fiocchi cadono dal cielo, soffici e silenziosi, e si adagiano sul terreno polveroso. La gente in strada si ferma un attimo ad osservare quel miracolo candido. Un bambino tira il braccio della sua mamma e grida felice, tuffandosi in mezzo alla neve. Sembra anche a me di essere tornata bambina.
Quando ero piccola, arrivato l’inverno, mio padre ritirava le reti dal mare e si prendeva una piccola vacanza, l’unica di tutto l’anno. La mia era sempre stata una famiglia povera: mio padre pescava crostacei che rivendeva ad una catena di ristoranti, mia madre lavorava per un imprenditore che produceva kimono. Il nostro unico lusso erano i dieci giorni di vacanza che miei genitori si prendevano all’inizio di dicembre, per portarci in visita da mia zia, a Sapporo sull’isola di Hokkaido. Hokkaido in giapponese significa “via per il mare settentrionale” ed è così che il resto della nazione la considera, una via di passaggio. È un’isola fredda e poco sviluppata, che d’inverno scompare sotto una spessa coltre di neve candida. Quella neve era la gioia più grande mia e di mia sorella.
Ci svegliavamo la mattina fresche come fiori di ciliegio e la zia ci lasciava bere un po’ di sakè, la bevanda tradizionale giapponese, utilissima quando si ha freddo perchè il sakè è ottenuto dalla fermentazione del riso e quindi è alcolico. Ci coprivamo come potevamo ed uscivamo fuori a rotolarci nella neve. Le nostre mattine passavano così: giocando con gli altri bambini del quartiere. A volte innalzavamo muri altissimi come barricate, ci dividevamo in due eserciti e giocavamo a colpire gli avversari difendendoci dietro i nostri muri. Sono passati tanti anni. Troppi.
- “Harumi, Harumi... Hai visto? Nevica... ”
Sento la voce squillante di mia zia, ancora prima di vedere il suo profilo fiero aprire la porta della mia camera. Sorride, proprio come una bambina, proprio come allora. Solo che adesso, quando sorride, ai lati dei suoi occhi ed intorno alle sue labbra si forma un reticolato di rughe sottili.
- “ Si “obasan” (zia). Nevica. ”
La mia espressione, evidentemente mancante di entusiasmo, smorza il sorriso di mia zia. Decide di tornare nell’altra stanza. Mi dispiace un po’ per la mia reazione. Vorrei richiamarla e dirle che sono felice che ci sia la neve e che sono ancora più felice di passare di nuovo un inverno con lei. Mi dispiace se a volte sembro triste o nostalgica. Mi dispiace se pensa che io non mi trovi a mio agio qui. Sto bene con lei, che ormai è tutta la mia famiglia, sto bene in questa casa. A volte forse ho un po’ di nostalgia della mia vita, ma non mi lamento. Mi manca solo mia sorella.
Quando io avevo dieci anni e mia sorella, Natsumi, si apprestava a compierne nove, nostro padre era caduto dalla barca mentre pescava. Le onde l’avevano portato via e noi non avevamo saputo nulla di lui per molti giorni. Avevamo passato il tempo a disperarci ed a pregare, offrendo agli antenati il nostro cibo migliore ed i nostri ultimi risparmi. Era servito solo a far sì che il suo corpo venisse ritrovato. Lo stipendio di nostra madre da sola non bastava più a permetterci di mangiare tutt’e tre e lavorava tanto da non poter più stare in casa ad occuparsi di noi. Un giorno capimmo che c’era un'unica soluzione e fu proprio sua cognata, mia zia, a suggerircela.
Io e Natsumi raccattammo tutte le nostre cose e ci preparammo a partire. Non avevamo molto in realtà: un kimono ciascuna, una fotografia della nostra famiglia com’era quando c’era ancora papà ed una vecchia bambola di pezza cucita da nostra madre. Sapevamo che non avremmo avuto tempo di giocare, ma ci serviva per non dimenticare. In quel periodo vivevamo in una casa di legno d’acero con tetto di carta di riso nella periferia di Kyoto, in un quartiere povero e degradato, ma non lontano dalla bottega dove lavorava mamma e al porto dove pescava papà. Il nostro vicino di casa, il signor Hoshiyo, commerciava riso per una ditta del quartiere e qualche volta si recava in città per fare delle consegne. Una mattina approfittammo del suo passaggio, salutammo nostra madre e ci facemmo accompagnare a Pontocho.
Pontocho era un hanamachi, il secondo più grande di tutto il Giappone. L’hanamachi, che letteralmente significa quartiere dei fiori, era la zona della città dove si concentravano le okiye, le case delle geisha. Nelle okiye c’era sempre tanto lavoro da sbrigare e le proprietarie accettavano volentieri molte delle bambine che bussavano alla loro porta. Le più belle di loro potevano sperare di essere scelte per intraprendere a loro volta la carriera di geisha, le altre venivano comunque impiegate come domestiche. Non era un lavoro adatto a due bambine, forse, e inoltre c’erano pochissime occasioni per poter tornare a casa, ma davanti alla povertà non c’è tempo per problemi futili. Il signor Hoshiyo ci accompagnò personalmente in ogni okiya, chiedendo di poter parlare con la proprietaria della casa. Ricevemmo molte porte in faccia quel giorno. Nessuno ci voleva. A nessuno importava di noi.
I nostri capelli erano sfibrati e scarmigliati. Puzzavano ancora di crostacei e di mercato. I nostri kimono odoravano di miseria. Eravamo sporche di terra e di polvere ed avevamo dita tozze e ricoperte di calli. Camminavamo senza grazia, con la schiena curva ed i passi non sufficientemente corti. Avremmo fatto perdere prestigio a qualunque okiya che ci avesse ospitate. L’okiya era una casa di geisha, una casa di classe. Le sue abitanti profumavano di genziana e gelsomino, vestivano con kimono di seta che nemmeno coi guadagni di un anno di lavoro nostra madre avrebbe potuto comprare. Tingevano i volti di bianco, le sopracciglia di nero e le labbra di rosso sangue. Ballavano, cantavano, camminavano persino con una grazia che sembrava non appartenere a questo mondo. Geisha in giapponese significa artista, ma le geisha, più che artiste, sembravano opere d’arte in movimento.
Era chiaro che nessuna proprietaria di un okiya ci volesse al suo servizio, non saremmo mai potute diventare qualcosa di diverso da quello che eravamo: due poveracce dimenticate da tutti, persino dagli antenati. Eravamo state stupide a poter anche solo pensare di riuscire a far parte di quel mondo. A sognare di rompere quel guscio di povertà che ci si appiccicava addosso e ci impediva di vivere. Quello che eravamo era scritto nel nostro passato, era un marchio sulla pelle, indelebile.
Io e Natsumi, scoraggiate dai no perentori, per un attimo pensammo di arrenderci e di tornare indietro, ma il signor Hoshiyo disse che sarebbe stato un errore. Aveva ragione. Avevamo lasciato nostra madre perché era l’unica soluzione possibile. Non potevamo arrenderci. Dovevamo lottare e farlo anche per lei. Bussammo ad un’altra okiya, che sembrava ancora più bella e grande delle altre. Venne ad aprire una donna anziana, che si reggeva su un vecchio bastone di legno di ciliegio. Come nelle case precedenti il signor Hoshiyo chiese di parlare con la proprietaria e, come nelle case precedenti, fu condotto nel suo ufficio. Noi restammo fuori, ci avrebbe chiamato lui quando la padrona avesse chiesto di noi: così avevamo fatto sino a quel momento. Ma in quell’okiya tutto andò diversamente. La proprietaria non chiese nemmeno di vederci, aveva bisogno di due domestiche. Non domandò quanti anni avessimo, da dove venissimo o che educazione avessimo ricevuto. Non le interessava. Ci prese a lavorare con lei, specificando però che non era in cerca di shickomi: il primo stato di apprendista geisha. Le servivano solo due domestiche. Pattuirono con il signor Hoshiyo che avremmo avuto vitto e alloggio, tre ore libere ogni giorno di festa ed una giornata di ferie al mese durante la quale, se lo desideravamo, saremmo anche potute andare a trovare nostra madre. Ma noi ci saremmo accontentate di avere anche solo qualcosa da mangiare ogni giorno ed un posto in cui dormire.
Fu una delle giornate più belle della vita mia e di quella di Natsumi. Ringraziammo col cuore il nostro caro vicino e gli raccomandammo di abbracciare per noi nostra madre, di starle vicino quanto più possibile e di tornare a trovarci ogni tanto. Invece fu l’ultima volta che vedemmo quell’uomo.
- “Harumi vuoi un po’ di tè? ”
La carta pesante del mio fusuma (porta scorrevole) vibra, trapassata dalla voce squillante di mia zia.
- “Si obasan, arrivo. ”
Lancio un ultimo sguardo veloce alla neve che cade fuori dalla finestra e mi avvio verso la chashitsu, la stanza del tè. Quando entro, passando per la bassa porticina, obasan sta già togliendo il kama (bollitore) dal ro, una fornace di forma quadrata scavata in uno dei tatami che formano il pavimento. L’acqua versata nella teiera a contatto col matcha, il tè verde polverizzato, assume quel colore vivo e quel profumo intenso di cui noi giapponesi non possiamo fare a meno. Obasan mescola il liquido con uno chasen, un apposito frullino di bambù, e lo versa nelle tazze. Poi osserva la neve che si deposita in cortile, mentre ascolta la radio con poca attenzione.
- “Qualcosa di nuovo? ”
Sorride divertita dalla mia domanda ingenua e volta il viso per osservarmi.
- “Temo che per dieci anni più o meno non ci sarà nulla di nuovo. Gli americani occupano ancora le nostre terre. Ma ci stanno gentilmente aiutando a risollevare l’economia, perché se tornassimo la potenza che eravamo potrebbero contare sul nostro appoggio in Corea. ”
Smette di parlare e beve un sorso di tè. Non c’è molto da dire. Il 14 agosto del 1945, dopo aver perso 200. 000 uomini, la maggior parte dei quali civili, l’imperatore Hiroito decise di firmare la resa e consegnarsi ai nemici. Si preoccupò che gli Alleati non modificassero il regime imperiale e salvaguardassero il suo trono, del resto non gli interessò per nulla. Così gli Americani sbarcarono in Giappone. Dopo aver bombardato la nostra capitale e raso al suolo le nostre città, dopo aver contaminato la nostra aria con le loro bombe nucleari, dopo aver ucciso i nostri concittadini, arrivarono col sorriso di chi ha vinto stampato in faccia e l’aria da liberatori. Entrarono senza togliersi le scarpe nelle nostre case e nei nostri templi, senza rispetto per la nostra cultura e per la nostra religione. Insistettero per portare quello che loro chiamavano progresso. Volevano sostituire i nostri kimono con i loro jeans e le loro magliette, perché loro trovavano più comodo e più bello quel tipo di abbigliamento. Volevano sostituire i nostri tetti di paglia di riso e le nostre pareti smontabili di legno morbido e carta con pareti di cemento e di mattoni, perché loro le trovavano più pratiche e più sicure. Volevano sostituire il nostro sushi con la carne dei loro fast food, perché loro la trovavano più veloce da consumare. Volevano portare a noi le mode di oltreoceano. Volevano anteporle alla nostra cultura millenaria fatta di odori, di colori, di sapori diversi dai loro e che loro non avrebbero mai capito. Hanno una potenza economica maggiore della nostra e hanno vinto questa guerra, per questo credono di potersi ritenere migliori di noi e di doverci uniformare al loro standard. Si comportano come tutti gli altri popoli, infondo. Si comportano come poco meno di un secolo fa i portoghesi e gli inglesi si comportarono con i pellerossa che abitavano le terre dove oggi loro vivono, come noi stessi ci siamo comportati in Corea meno di cinquant’anni fa.
- “Questo kimono inizia ad andarti stretto Harumi, bisognerà comprarne un altro. Però è molto bello, se lo vendessimo potremmo ricavarne diverse migliaia di yen. ”
Obasan poggia la tazza da tè e passa un dito sul profilo di un fiore di ciliegio ricamato nell’estremità del kimono. Le sposto la mano con un gesto brusco.
- “Era di Natsumi e non ho nessuna intenzione di venderlo. ”
Replico in maniera poco cortese. Lo sguardo di obasan si spegne. Capisce la mia reazione. Natsumi manca molto anche a lei.
- “Era sempre così bella nei suoi kimono colorati, con quel sorriso allegro e quegli occhi così vivi…”
Le parole le si bloccano in gola. Poggio la tazzina del tè ed esco in giardino. Le mie calze bianche si bagnano a contatto con la neve. Forse ho sbagliato a reagire così bruscamente, obasan è sempre gentile con me ed io la tratto male. Ma non riesco a fingere. Ho il cuore vuoto e un peso nello stomaco. Nella mia testa non c’è razionalità, non c’è bontà, non c’è voglia di vivere, non c’è spazio più per nient’altro che non sia la mancanza di mia sorella. Faccio qualche passo e mi siedo ai piedi del ciliegio. Almeno ha smesso di nevicare, ma il terreno è ricoperto da un alto strato di neve soffice e ghiacciata, che bagna il mio kimono quando mi siedo.
Quando Natsumi è nata, io non avevo compiuto un anno e mezzo e da allora siamo sempre state inseparabili, fino alla sua morte. Abbiamo vissuto insieme. Abbiamo condiviso ogni sospiro, ogni lacrima, ogni goccia di sudore, ogni sorriso. Sia quando vivevamo in riva al mare coi nostri genitori, che quando ci siamo trasferite nell’okiya.
La vita nell’okiya non era stata facile all’inizio. Il lavoro era estenuante. Ci si svegliava col sorgere del sole e si iniziava la giornata preparando il tè per la padrona dell’okiya, la madre. Poi bisognava aprire gli armadi e spiegare i kimono che le geisha e le maiko, l’ultimo stadio delle apprendiste geisha, avrebbero usato durante il giorno. C’erano la casa da pulire, gli alberi del giardino da potare, le erbacce da estirpare e le piante dell’interno a cui dare acqua. Dopo che tutte le abitanti dell’okiya erano sveglie bisognava ritirare i futòn (materassi) e i trespolini duri sui quali dormivano le geisha, ritirarli e riporli negli armadi. A volte la madre ci chiedeva di aiutarla a legare l’obi (la cintura del kimono), di avvicinare il carboncino alla fiamma così che potesse passarlo sulle sopracciglia delle maiko o di portare il liquido rosso con cui le geisha si pitturavano le labbra. Ogni tanto bisognava andare al mercato a fare la spesa con la cuoca, riordinare la soffitta o arrampicarci sul tetto con dei secchi pieni d’acqua per poterlo lavare. La sera aspettavamo che tutte le geisha fossero tornate dai loro appuntamenti per poter chiudere l’okiya e andare a letto, a volte restavamo alzate anche fino alle due o alle tre di notte, pizzicandoci a vicenda per non addormentarci.
Ma la vita nell’okiya aveva anche tanti aspetti positivi. Qualche volta quando la madre ci lasciava da sole in casa, dandoci l’ordine preciso di riordinare le camere, aprivamo di nascosto l’armadio dei cosmetici. Pasticciavamo con la crema bianca che le donne usano per coprirsi il viso e giocavamo a dipingerci il collo, lasciando una v rovesciata di pelle nuda come le vere geisha. Ci pitturavamo gli occhi, le sopracciglia e le labbra e provavamo a camminare in equilibrio sugli okobo. Scommettevamo tra di noi per decidere quale giorno di marzo sarebbe avvenuto lo spettacolo dei sakura, i fiori di ciliegio che sbocciano, ma quando quel giorno arrivava c’ eravamo già dimenticate chi avesse scommesso cosa. Nei giorni di festa la madre ci dava tre ore libere e noi facevamo una corsa per arrivare in cima alla collina ed osservare Pontocho dall’alto. L’hanamachi era uno spettacolo bellissimo: un infinito alternarsi di giardini ordinati e fontane, di okiye dalle piante elaborate ed alberi di ciliegio, di elementi naturali ed artificiali in perfetta armonia tra di loro. Quando eravamo stanche scendevamo a valle rotolandoci sull’erba e rientravamo in casa coi vestiti sporchi, portando con noi la polvere e la terra e mandando okasan su tutte le furie. Dopo la morte della nostra vera madre, meno di un anno dopo, escogitammo un modo per attutire la nostalgia di lei. Quando sentivamo la sua mancanza ci intrufolavamo di nascosto nella bottega dell’artigiano che produceva i kimono dell’hanamachi ed osservavamo le donne ricamare a mano, veloci come ragni che tessono la loro ragnatela, immaginandola inginocchiata davanti a quei tavolini mentre intrecciava con dita esperte i fili colorati. Il giorno di Capodanno accompagnavamo le geisha della nostra okiya alla casa da tè e le aiutavamo a portare i doni per le loro insegnanti. Restavamo a guardare quelle donne, affascinate dai loro movimenti aggraziati come passi di danza e dalla loro voce che suonava come una melodia. Qualche volta andavamo all’ochaya, la casa da tè, anche durante il resto dell’anno: spiavamo le maiko che si esercitavano nella danza tradizionale attraverso le pareti di carta di riso, che sono semitrasparenti, oppure ascoltavamo le geisha che dilettavano i loro ospiti suonando lo shamisen, lo strumento tipico giapponese, oppure lo shakuhachi, un flauto di bambù.
Ogni anno aspettavamo con ansia il mese di aprile, per assistere allo spettacolo del Mikaio Odori: la danza dei ciliegi in fiore. I preparativi per l’esibizione iniziavano nel mese di gennaio. La madre si occupava di cercare dei kimono che fossero adatti ed eventualmente li faceva impreziosire con delle stampe e dei ricami o adattare al fisico delle geisha dell’okiya. Una ballerina insegnava loro la coreografia e l’insegnante di danza le aiutava a perfezionarla e ad interpretarla. Le parrucchiere venivano contese in tutta Kyoto e dovevano inventarsi pettinature per ogni geisha della città. Il primo aprile le geisha di tutte le hanamachi si riunivano nella piazza principale ed iniziavano il loro spettacolo di danza. La festa durava trenta giorni durante i quali le domestiche potevano staccare un po’ la spina dal loro duro lavoro. Io e Natsumi ci facevamo dare uno yen dalla madre per comprarci due coni di ghiaccio dolce alla ciliegia e andavamo a spiare i visitatori dalle finestre della casa da tè. Un giorno la madre ci aveva scoperto ad imitare un signore con la pancia gonfia come un’anguria matura e dei simpatici baffetti alla Bonaparte, era andata su tutte le furie. Urlava di non permetterci, che eravamo due piccole insolenti. Urlava che quell’uomo era il protettore di una nostra sorella maggiore, una geisha dell’okiya, e andava trattato con rispetto. Urlava così tanto che il colore paonazzo del suo volto era visibile anche sotto lo spesso strato di cipria. Urlava. Ma noi ridevamo come due matte. Quante ce ne ha date quel giorno la madre, con quel bastone nodoso che lasciava lividi scuri sul corpo. Ma noi continuavamo a ridere, senza riuscire a fermarci. Era colpa di Natsumi, aveva iniziato lei a ridere e la sua risata era contagiosa. Metteva di buon umore chiunque mia sorella. Le bastava uno di quegli sguardi luminosi con quegli occhi nerissimi o uno di quei sorrisi allegri che le attraversava il viso e colorava di rosa le guancie. Sembrava una farfalla, sempre vivace e sempre aggraziata. Era così diversa da me, dal mio colorito malaticcio e dai miei occhi spenti. Sembrava una farfalla. Si è spenta presto come una farfalla.
La zia si affaccia alla porta della cucina. Non mi chiede nulla, forse pensa sia meglio non rivolgermi la parola. Poggia un paio di zoccoli sulla neve davanti a lei e torna dentro. Ha pensato che mi servissero le scarpe. È stato un pensiero gentile.
Decido comunque di rientrare: fa troppo freddo e stare fuori a congelarmi non porterà a nulla. Non ho voglia di incrociare obasan. Faccio il giro ed entro direttamente dalla porta della mia camera. La zia ha rimesso a posto il materasso e sistemato il tappeto. È davvero una donna eccezionale.
Sul tavolino in fondo alla stanza c’è una candela accesa, l’ho lasciata io quando sono andata a prendere il tè. Mi avvicino e la spengo soffiandoci sopra. Stavo scrivendo non so che cosa, forse uno sfogo, forse una pagina di diario, forse scrivevo e basta, ad ogni modo decido di non buttare via quello scritto. Lo piego ed apro il cassetto per riporveli dentro. La mia mano si ferma, insieme ai miei pensieri, su due fogli di carta rosata poggiati sul fondo del cassetto: le ultime due lettere di mia sorella. Le gambe cedono e mi inginocchio per terra. Sento un dolore così forte che è come se una morsa gelida mi stringesse la gola e mi impedisse di respirare. Allungo la mano ancora tremante e le estraggo dal cassetto. Natsumi aveva anche una bella calligrafia. Forse era troppo perfetta, è morta per questo.
15 luglio 1945. Harumi, mia amata oneesan (sorella maggiore), purtroppo non ho molto tempo per scriverti. Qui c’è tanto lavoro da fare e poco denaro per farlo. Dall’ultima lettera che ti ho spedito la situazione all’okiya è ulteriormente peggiorata. Il tetto è completamente crollato e bisogna ricostruirlo. Anche le porte delle stanze infondo al corridoio sono da cambiare, il mese prossimo andrò dal nostro falegname, che nel frattempo si è trasferito ad Hiroshima per ritirarle, poi tornerò a Sapporo. La zia mi manca molto sai? Ma non potevamo lasciare okasan da sola. L’unica cosa che mi dispiace è doverti stare lontana, ma la guerra impone dei sacrifici Harumi. Ci pensi che sono i primi cinque mesi che passiamo separate da quando sono nata io? Mi sembra così strano...
Ora devo andare, Harumi san. Ti abbraccio forte, tua Natsumi.
Sento quella morsa serrarsi ancora di più intorno alla gola. Doveva andare ad Hiroshima per acquistare i pannelli delle porte. Sarebbe morta quel maledetto giorno. Sarebbe morta per comprare degli stupidi pezzi di legno per quella stupidissima okiya. Sarebbe morta per colpa di quella casa dove siamo cresciute. O forse sarebbe morta a causa mia, a causa del fatto che non sono andata io ad acquistare quei maledetti pannelli.
Dopo lo scoppio della guerra la situazione era peggiorata. Le geisha avevano progressivamente abbandonato il loro lavoro e si erano rifugiate presso i parenti ancora in vita. Chi aveva avuto l’opportunità di andarsene era scappato e le città erano rimaste pressoché deserte. Dopo il bombardamento di Tokyo molte madri avevano chiuso le okiye, temendo che Kyoto potesse essere il bersaglio successivo. Nostra zia ci aveva scritto continuamente dall’inizio della guerra, con una preoccupazione crescente per lei e per noi. Il tono delle lettere era diventato insistente nel chiederci di abbandonare la casa ed andare da lei, perché si sentiva sola, aveva paura per lei e temeva per noi. Io e Natsumi eravamo divise tra il senso del dovere e la gratitudine nei confronti di okasan e dell’okiya, opposte alla nostalgia di nostra zia e alla paura. Obasan ci chiedeva di mollare tutto e raggiungerla, mentre okasan ci supplicava di non abbandonarla anche noi come tutte le altre abitanti della casa. L’unica decisione che ci era sembrata possibile era stata quella di dividerci. Tutt’e due avremmo voluto che fosse l’altra a partire per Sapporo, perché sapevamo che Kyoto era più rischiosa; l’unico modo per risolvere il conflitto fu tirare a sorte. La sorte decise che fossi io a raggiungere la zia e Natsumi a restare nell’hanamachi. Aspettai marzo e la fioritura dei sakura per non dover viaggiare in mezzo alla neve, mi congedai da Natsumi e raggiunsi la zia qui, in questa casa, a Sapporo sull’isola di Hokkaido. Nella notte tra il 23 e il 24 aprile l’Italia, una delle tre principali nazioni che componevano la Triplice Intesa, firmò la resa e i tedeschi iniziarono la ritirata dal territorio italiano. Il 30 aprile Adolf Hitler ed Eva Braun, unitisi in matrimonio il giorno prima, si tolsero la vita nel bunker della cancelleria di Berlino. Appena nove giorni dopo, l’8 maggio del 1945, Il Terzo Reich firmò la resa incondizionata e terminò formalmente la guerra in Europa. Tutto faceva presagire che presto anche il Giappone si sarebbe arreso e noi iniziammo a respirare aria di pace e di libertà. I primi di giugno Natsumi mi scrisse che alcuni avevano iniziato a rientrare in città dalle campagne e che l’okiya aveva due nuove domestiche. Ormai okasan non era più sola e lei avrebbe presto potuto raggiungermi.
1 agosto 1945. Mia adorata oneesan, ti scrivo in fretta queste ultime righe prima di partire per Hiroshima con okasan. Mi tratterrò lì qualche giorno per sbrigare alcune faccende, poi okasan rientrerà all’okiya ed io mi metterò in viaggio per Sapporo. Non vedo l’ora di rivederti, sei mesi lontane sono davvero troppi. Ti abbraccio forte Harumi, bellezza dell’estate. La tua devota imotosan (sorella minore), Natsumi.
Il primo agosto del 1945 mia sorella, dopo avermi imbucato quella lettera, partì per Hiroshima. Il 6 agosto del 1945 si trovava ancora lì quando gli americani sganciarono l’ordigno nucleare passato alla storia come “Little Boy”. Little Boy uccise mia sorella. Little Boy corrose il suo sorriso. Little Boy spense la luce che aveva illuminato la mia vita fino a quel momento.
Dopo quel giorno nulla fu più uguale per me. Quel giorno maledetto per me segnava un confine netto ed invisibile tra due mondi: quello con Natsumi e quello senza di lei. Da quel giorno cambiò tutto intorno a me. Cambiò qualcosa dentro di me. Il dolore, il rancore, la rabbia per quella perdita ingiustificata lasciarono dentro di me un segno indelebile. La vita non era mai stata generosa con me: non mi aveva dato niente e quel poco che avevo me l’aveva portato via, dopo avermi dato il tempo di affezionarmici. Mi aveva portato via mio padre, inghiottito dalle acque. Mi aveva portato via mia madre, spegnendola giorno dopo giorno, consumata da un male incurabile. Non contenta di tutto questo dolore, non contenta di questo vuoto, mi aveva portato via mia sorella. La cosa più bella che avessi mai avuto. Ma la cosa peggiore era il modo in cui me l’aveva strappata. Non avrei potuto fare niente per salvare mio padre dalla furia del mare o mia madre dal fuoco della malattia, ma Natsumi avrei potuto salvarla. Avrei potuto insistere perché venisse lei a Sapporo e restare io nell’okiya. Avrei potuto chiederle di raggiungermi un giorno prima, sarebbe bastato un solo giorno. Mia sorella era morta per una coincidenza, una stupidissima coincidenza. Non erano stati la natura od il destino ad ucciderla. Era morta a causa della guerra. Era morta a causa della stupidità umana.
Natsumi in giapponese significa bellezza della primavera e mia sorella era esattamente questo. Era una bellezza della primavera, proprio come i fiori Sakura. I fiori di ciliegio sono uno spettacolo incredibile, ma cadono in fretta, come tutte le cose belle. La luce che arde con doppia intensità brucia in metà del tempo e forse era questo il destino di Natsumi.
Se chiudo gli occhi riesco ancora ad immaginarmela mia sorella. La vedo davanti a me, seduta sul mio letto con quel suo sorriso allegro. Vedo i suoi capelli corvini, sempre raccolti in capigliature complicate, e le sue guancie rosate. Sento ancora il suono della sua risata contagiosa e la sua voce melodiosa che parlava solo per dire cose sagge.
- “Non dobbiamo essere tristi quando qualcuno che amiamo muore. ”
Mi aveva detto un giorno, quando eravamo ancora due bambine ed io avevo appena saputo della morte di nostro padre. Natsumi era la più piccola di noi due, ma era senza ombra di dubbio la più coraggiosa e la più matura. Aveva asciugato le mie lacrime e mi aveva trascinato alla finestra, indicandomi un albero di ciliegio.
- “Vedi, noi siamo come tanti fiori sakura: siamo destinati a cadere. Ma non dobbiamo essere tristi quando muore un fiore, perché è il ciclo della vita. I fiori cadono tutti prima o poi e vanno ad alimentare la terra. Se non cadessero, gli altri fiori non potrebbero sbocciare la primavera successiva. ”
Mi ero sporta dalla finestra per guardare il ciliegio. Ma non avevo visto fiori sui rami.
- “Non c’è niente su quei rami Natsumi. Sono spogli, spogli e malinconici. ”
Natsumi era scoppiata ridere ed avevo riso anch’io, anche se ero triste. La risata di Natsumi era contagiosa, ma non capivo cosa ci trovasse da ridere.
- “Ma questo è ovvio Harumi san, non è stagione di fiori. Adesso è inverno. L’inverno non è la stagione dei fiori. È la stagione della neve e delle battaglie a casa di obasan, a Sapporo sull’isola di Hokkaido. Ma l’inverno è solo una stagione. Finché quell’albero sarà piantato nel terreno fiorirà di nuovo ogni primavera. Fidati di me. ”
Allora non avevo capito cosa centrasse il ciclo delle stagioni con la vita di nostro padre, ma avevo sorriso lo stesso un po’ per non deluderla e farle credere che fosse riuscita a risollevarmi l’umore, un po’ perché vederla ridere mi rendeva felice. Adesso inizio a capire. Natsumi aveva ragione, come l’aveva sempre avuta su tutto del resto. Nessun uomo può vivere per sempre, nessun fiore può restare per sempre attaccato al suo ramo. Ma l’albero continua a vivere, continua a fiorire, anche quando tutti i fiori si sono staccati. Sono instancabili gli alberi. Ogni inverno il freddo distrugge e uccide i loro fiori, ma ogni primavera loro li fanno sbocciare di nuovo.
Improvvisamente mi torna in mente un'altra frase che Natsumi aveva detto sulla morte, quando avevamo saputo di nostra madre. Mia sorella non aveva versato una lacrima per la sua scomparsa, non era stata triste, non si era disperata. Io le avevo chiesto perché e lei mi aveva dato una risposta che mi aveva fatto riflettere.
- “Lei non è morta, Harumi san. Ascolta. ”
Aveva preso la mia mano e l’aveva poggiata sul suo cuore.
- “Lo senti? Batte. Batte ancora. Nostra madre è lì dentro. È qui. ?" aveva continuato spostando la mia mano sul mio cuore?" È dentro il cuore di ogni persona che l’ha conosciuta e che l’ha amata. Lei non smetterà mai di esistere, finché io non smetterò di amarla. Per questo non sono triste. Forse a volte ne avrò nostalgia, ma saprò che lei c’è. Lei ci sarà sempre. Lei è dentro di me. ”
Anche quel giorno avevo sorriso senza capire. Lei invece aveva capito. Lei aveva sempre avuto ragione.
Senza pensarci mi porto automaticamente la mano sul cuore e lo sento battere. Se chiudo gli occhi posso ancora sentire il suo respiro, insieme a quello di nostro padre e di nostra madre. Se chiudo gli occhi la posso vedere ancora al mio fianco. Perché lei in realtà non mi ha mai abbandonato, è sempre stata accanto a me. Anche da quando fisicamente non c’è più, la sua anima ed il suo amore mi sono rimasti accanto.
Corro alla finestra ed osservo l’albero di ciliegio. È coperto da uno strato di neve così alto che fa fatica a respirare, ma adesso riesco a vederlo con gli occhi di Natsumi. So che si scrollerà di dosso quella neve e che fiorirà di nuovo. Perché gli alberi sono nati per fiorire, ogni primavera, da quando nascono a quando muoiono. Proprio come gli uomini sono nati per essere felici.
Per la prima volta nella mia vita sento nel profondo del cuore quella fiducia nel futuro che aveva mia sorella. La sento, come sento la sua forza che mi infonde coraggio.
Io so che per me tornerà la primavera. Tornerà il tempo delle risate e dei coni di ghiaccio dolce. Tornerà la stagione dei sorrisi. Torneranno i colori. Forse a volte avrò un po’ di nostalgia di quello che è stato, ma l’amore di Natsumi non mi abbandonerà mai. Come non mi abbandonerà mai il suo ricordo. Nemmeno il dolore per la perdita mi abbandonerà mai. Ma un giorno mi abituerò alla sua assenza e tornerò ad essere felice.
Anche se adesso sembra tutto buio. Anche se questa è la mia stagione della neve.
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