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Tutti chiedono di Deborah
La gente continua a chiedermi di mia figlia. È quello che succede quando non si fa altro che entrare ed uscire da un ospedale.
Oggi è il turno della signora Pinn.
Indossa un bel vestitino blu fiordaliso. Le cade bene, se non fosse per quelle lunghe pieghe che finiscono sempre per incastrarsi sotto i copertoni della sua sedia a rotelle.
Ha ottant'anni suonati, e la conosco da un terzo della sua vita. Abita in fondo alla strada.
Ricordo ancora quando passeggiava per il giardino, innaffiando le orchidee. Una vera delizia per gli occhi. Non lo fa più da tempo, e le orchidee sono appassite.
Chiede sempre di Deborah.
Tutti chiedono di Deborah.
“È caduta dalle scale”, rispondo.
“Ce la siamo cavati con dodici punti di sutura”.
Tutti chiedono, nessuno ascolta veramente.
È una bambina sfortunata, Deborah.
Le succede sempre qualcosa.
L'ultima volta è stato in Novembre. Pioveva a dirotto, e Jim, mio marito, era via per un congresso. Deborah se ne stava tranquilla in camera. Giocava con le sue bambole.
La sua preferita si chiama Rita. Ha due lunghe trecce rosse e un vestitino da contadinella. Ogni tanto le sento chiacchierare dal soggiorno.
Non riesco mai a capire quello che si dicono, ma penso proprio che parlino della mamma. Questo perché Rita è orfana, e Deborah ha deciso di adottarla.
Sembrava una giornata come tutte le altre. Una tipica giornata invernale.
Poi un gran tonfo, proveniva dalla sua cameretta.
La trovai svenuta, testa a testa con Rita.
La avvolsi immediatamente in un fagotto. Era congelata. Fuori faceva freddo, molto freddo.
Le strade erano deserte, e la mia Buick raggiunse l'ospedale in poco tempo.
Il dottor Carter, dopo una visita accurata, mi disse che aveva avuto un calo di zuccheri. Gli esami di laboratorio esclusero immediatamente la presenza di diabete giovanile.
È il migliore ospedale del quartiere, il St. Johns, la porto sempre lì quando le succede qualcosa.
“Mi raccomando la tenga sotto controllo”.
Ritornammo a casa in giornata.
Succede spesso. Ormai ci ho fatto l'abitudine. Un po' tutti ce l'hanno fatta. Adesso si chiede di Deborah anche quando non succede niente.
Così è stato la notte della vigilia di natale. Deborah era tornata da poco, stava bene, a suo modo.
Si cenava in famiglia. Tutti i parenti riuniti.
Non si parlava d'altro.
Mio fratello le ha portato un orsacchiotto di peluche. Deborah ci sprofondava dentro. Era immenso. Tutti si preoccupano per lei.
Ho dovuto mollare il lavoro. Deborah non riesce ad andare a scuola. Sono io ad impartirle le lezioni, esattamente come faceva mia madre.
È una bambina molto ubbidiente. Non mi è mai capitato di sgridarla.
Lo dico a tutti, mi rende orgogliosa.
Ognuno mi aiuta a suo modo.
Sono le persone che ho intorno, che mi danno la forza di continuare.
“È coraggiosa, Miss. Cole, tenga duro”.
Ogni tanto è più difficile del solito.
Come quella volta che infilò la mano nel frullatore. Non faceva che piangere, e il sangue era ovunque. Ci vollero quasi sei mesi per ricostruirgli la manina.
In quel periodo passavo le mie giornate in ospedale.
Nei corridoi del padiglione di chirurgia plastica, tutti chiedevano di Deborah. Anche gli sconosciuti. È una bambina fortunata, ha tanta gente intorno. Spero che un giorno capirà quanto questo sia importante, e quanto mi sia costato.
Tutti chiedono di Deborah.
Ma fanno le domande sbagliate.
Questo perché , in realtà, nessuno vuole sapere di lei, anche se tutti continuano a chiedere.
C'è una cartella clinica nell'ospedale della città dove sono nata. Dice che sono affetta dalla Sindrome di Münchhausen. Ma questo nessuno lo sa. Nessuno ne ha mai sentito parlare.
Tutti chiedono di Deborah.
Ma dovrebbero chiedere di me.
Allora saprebbero che l'ho spinta io giù dalle scale, che le ho dato io l'insulina per farla svenire, e che ero sola, quando ho trovato il coraggio per frantumarle la manina nel frullatore.
Tutti chiedono di Deborah. Ma nessuno conosce la sua storia, la nostra storia. Diventiamo colpevoli quando smettiamo di domandarci il perché delle cose. L'indifferenza ci condanna tutti.
C'è un muro invisibile tra noi e gli altri. In pochi cercano di abbatterlo: tutti invece chiedono di Deborah.
Esattamente come un tempo, chiedevano di me.
Anche io avevo una bambola. Si chiamava Giorgia. Era con lei che parlavo, quando la mamma non faceva altro che ripetermi di stare zitta.
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0 recensioni:
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Anonimo il 24/04/2011 10:33
"Sindrome di Münchhausen per procura"
Credo sia questa la patologia fittizia del personaggio che hai creato.
Il mondo è tanto grande, da sembrare vuoto di persone. Eppure sono intorno a noi, e noi ci sentiamo soli. Dove volevi andare con questo racconto non lo so, ma di sicuro è intriso di bisogno d'attenzione tanto caro al genere umano. Stilisticamente è corretto, la stesura scorrevole specialmente nella prima parte. Avresti potutto lasciare più mistero sulla sindrome, senza specificare quell oche la mamma ha fatto per richiamare sulla sua disperazione tutte le attenzioni. Magari rendendo scontato quello che è successo, con una sorta d'apatia sentimentale nei confronti degli eventi
Anonimo il 19/02/2011 18:41
Da paura

Suz
Anonimo il 18/12/2009 12:16
Molto crudele, lascia il segno. Scritta bene.
Anonimo il 04/12/2009 00:56
Paralizzante nella sua alienazione
- Se bene il racconto sia scorrevole, l'orrore mi lascia perplessa... fa paura anche a me.
Anonimo il 28/09/2009 01:50
Finale sorprendente!
Nell'insieme il racconto ti porta a riflettere... ciò che appare non è empre ciò che in realtà è.
Bel racconto!
Anonimo il 25/09/2009 13:21
molto bello ed intenso
- Ho la pelle d'oca e sono sensa parole. Che qualcuno aiuti tutti nel sopportare la vita a volte crudele..
Anonimo il 25/09/2009 10:31
Non riesco a non pensare a qualcosa di vero in questo racconto. E mi fa "paura".
Scritto bene.

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