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Pioverà
- Pioverà.-
- No che non pioverà.-
- Ho sentito tuonare, lontano.-
- È sereno.-
- Ma io ho sentito tuonare, dalla parte della valle.-
- È sereno, non pioverà. Pensate a zappare.-
- E pure...-
Un rombo, grave, lontanissimo, prolungato dagli echi fra i monti.
- Avete sentito? L'avevo detto io, che aveva tuonato!... Stanotte piove.-
- Vi ho detto di pensare a zappare, che è tardi. Non pioverà.-
L'altro si fermò, si appoggiò al manico della zappa, atteggiando il viso a offesa incredulità, battè un piede a terra:
- Mah... l'avrete pur sentito anche voi, il tuono! Ed è già il terzo!-
- Vi dico che non pioverà, lavorate! Non è un tuono.-
- Lavoro, lavoro. Non è un tuono... e cos'è allora, sentiamo?-
- Un... motore.-
Il motore ci mise più di un'ora a divenire costante, sempre più prossimo al paese, cessando di apparire e scomparire secondo l'andamento della strada scavata fra i monti.
Osiride masticò fra denti e toscano una cruda bestemmia zoomorfa, raccolse le carte sparse usando quelle che aveva in mano come una racla, batté rumorosamente il mazzo di taglio sul tavolo, e si alzò facendo forza sui pugni puntati sul legno. Si arrestò sulla porta, e batté gli occhi alla luce del sole. Nello slargo sassoso che chiamavano piazza c'erano alcuni ragazzini luridi che ruzzavano nella polvere, mentre altri, più grandi, le schiene ricurve, le braccia allargate davanti al corpo coi pugni chiusi verso terra si rincorrevano lungo il perimetro, e con un ininterrotto, fragoroso pernacchio imitavano il rumore del motore con tale foga da farsi venire gli angoli della bocca bianchi di saliva.
Nello stretto portico, all'ombra, Osiride ritrovò quelli che fino a poco prima si erano scambiati le carte con lui, e che, uno alla volta, erano stati attratti fuori da quell' irresistibile richiamo, che dopo essersi fatto attendere così a lungo, finalmente diventò un fragore definitivo, ritmato. Persino la Violante venne richiamata alla finestra dai vetri vibranti: si presentò col rosario in mano, gli occhi socchiusi e la bocca frenetica.
Comparve: alla svolta, invase scenograficamente la piazza: i ragazzini si bloccarono, le bocche bianche spalancate, Violante strabuzzò gli occhi facendosi il segno della croce, e nel capannello di uomini sotto al portico serpeggiò una bestemmia di stupore, sussurrata fra i denti... era lunga, pareva occupare tutta la piazza, rosso scuro luccicante, tonante e maestosa; l'uomo che la cavalcava, interamente vestito di pelle nera, pareva farne parte integrante, affondato tra il serbatoio, che sembrava inarcarsi in una sorta di rampante propaggine gibbosa, e il parafango posteriore, che ricordava le possenti terga di un cavallo da corsa... teneva in suo potere la sua cavalcatura con indubbia maestrìa, ma anche con evidente sforzo fisico: Violante non ebbe dubbi: quell'essere nero di cui non si scorgeva il volto, montato su quel mostro ruggente del colore dell'inferno non poteva essere che lui, Lucifero, certamente venuto a riscuotere le anime che gli spettavano: gettò un grido acutissimo, e sparì dalla finestra con un leggero tonfo.
La motocicletta fece il giro nella piazza, occupandola col suo cupo rimbombo; si muoveva sinuosamente, come una fiera che fiuta la preda, poi rallentò gradualmente e si arrestò di fronte al bar, esattamente al lato opposto della piazza, in pieno sole. Dopo un possente rombo, il motore esalò quel che parve un ultimo, cavernoso sospiro e si spense. Nel silenzio, il motociclista scese dalla sua cavalcatura, la issò sul cavalletto con un movimento che a tutti parve erculeo, ruotò su stesso e s'incamminò lentamente verso l'ombra del portico; si sfilò i guanti, si slacciò la giubba impolverata, si tolse il caschetto di pelle, liberando una chioma luccicante nera come il carbone, abbassò gli occhialoni fino al collo e saettò in giro uno sguardo dominatore, la bocca atteggiata a un sorriso di benevolo, trionfante compatimento. Guadò la piazza assolata dando la sensazione di diventare ad ogni passo più alto, finchè, approdato nell'ombra del portico, parve un vero gigante; rallentò, volse lo sguardo in giro scoprendo i denti luccicanti in un sorriso ferino, ed entrò deciso, solcando il gruppo di spettatori.
Le fettucce scacciamosche si scostarono rumorosamente, e il motociclista rimase sui due piedi, per abituare gli occhi: buio, fresco, silenzio... nessuno. Tavoli, sedie... bancone col piano di fòrmica verde... poche bottiglie sullo scaffale dietro il banco... fece tre passi, e una voce lo raggiunse, da una porta che non aveva visto.
- Aspetta, arrivo subito! -
Una voce femminile, confidenziale, distratta... e inaspettata: lui poggiò il gomito al banco, predispose il sorriso ad effetto: la voce non era sgradevole, né di donna anziana... attese, facendo ciondolare il caschetto dalla mano, la testa bassa, lo sguardo al pavimento... sentì le ciabatte di lei strusciare rumorosamente sul pavimento e arrestarsi di botto, attese ancora un secondo, e alzò lentamente solo lo sguardo, accompagnato dal suo famoso sorriso, che lo faceva assomigliare a quell'attore americano del cinematografo... funzionava sempre, funzionò anche questa volta: incrociò due occhi sgranati, dalla bocca semiaperta due forcine stavano per cadere a terra, le mani dietro la nuca, immobili, nel gesto quotidiano di raccogliere i capelli... un istante, e si riprese: distolse gli occhi, terminò in fretta di appuntarsi le forcine e raggiunse il banco, senza guardarlo.
- Buongiorno. Desidera? -
Ah. Era una di quelle che sanno ricomporsi, mantenere il controllo. Niente sorrisi, smancerie. Perché di aver fatto colpo era certo, l'aveva visto nei suoi occhi. E non gli dispiaceva: donna fatta, un po' curva ma alta, torso ampio e braccia forti, da montanara, capelli folti e occhi limpidi... e una bella bocca.
- Mi dà un Biancosarti... per favore -
Lei torse appena le labbra, senza guardarlo si girò per prendere la bottiglia, ma rimase immobile.
- È là, in alto, alla sua destra... - fece lui.
Lei agguantò il liquore, annuendo senza parlare, prese un bicchiere, lo riempì, lo posò sul banco, e di nuovo si immobilizzò, a testa bassa, lasciando la mano di fianco al bicchiere; nell'altra teneva ancora la bottiglia, aperta.
Lui prese il bicchiere lentamente, senza smontare il sorriso, lo avvicinò alle labbra, succhiò un sorso e lo posò di nuovo sul banco, un poco più vicino alla mano di lei, senza toglierle gli occhi di dosso. Si complimentò con se stesso, quasi incredulo: raramente aveva avuto un effetto così rapido... doveva essere merito della moto... o chissà che altro, ma sentiva sviluppi imprevisti a portata di mano... si sistemò meglio, allargò le spalle, appoggiò gomito e avambraccio al piano, il petto premuto contro l'orlo del banco, abbassò la testa e la rialzò subito, prendendo fiato per dire una di quelle frasi che imparava dai film americani... fece per prendere il bicchiere, progettando di sfiorarle la mano, come per sbaglio... e lei alzò gli occhi, aperti, grandi, serissimi; li fissò nei suoi, e aprì la bocca:
- È stato in guerra, lei? ... Dove ha fatto il soldato? -
- Eh? La guerra? N-no... non ero... non ho fatto neanche il soldato... perché...-
Si fermò, disorientato, non poteva mica dirle... si fermò anche il suo pensiero: lei non smetteva di guardarlo, e gli occhi le si facevano sempre più grandi, e... forse erano anche lucidi, anzi, sì: si stavano riempiendo di lacrime. Rimasero fermi, gli occhi negli occhi, il bicchiere a mezz'aria... poi lei chiuse i suoi, e facendolo spremette due lacrime che le rotolarono lungo le guance... distolse il viso, si chinò, raccolse con le due mani il grembiule e premendolo sulla faccia esplose in un singhiozzo che lo raggelò.
- Oddio... ma no signorina signora non faccia mica così, ma cos'è successo? No ma guardi che io... non volevo mica... volevo solo... no, ma... guardi, beva un sorso, è pulito sa? L'ho appena toccato... tenga, tenga...- e le porgeva il suo bicchiere.
Lei rimase curva alcuni secondi, il viso affondato nel grembiule, immobile. Tirò su col naso, respirò profondamente, si strofinò, e riemerse, con una espressione di pena straziante.
- Mi scusi... - sussurrò - mi scusi. Lei mi ricorda una persona. Una persona che mi ha portato via la guerra. Mi scusi ancora. Non si preoccupi. Se permette il liquore glielo offro io... mi scusi mi scusi... -
Di colpo, non desiderò altro che andarsene, il più in fretta possibile.
- Non... no si figuri, anzi scusi lei... no, ma la ringrazio ma non si disturbi, non c'è bisogno, figurarsi, una donna che offre... anzi guardi, ecco, tenga il resto... Devo andare... mi scusi ma devo proprio... Sarà per un'altra volta... cioè no scusi, volevo dire... be' insomma... arrivederci...-
Aveva pronunciato queste ultime frasi sconnesse arretrando verso la porta, si fece scorrere sul dorso le fettucce della tenda e quando si richiusero ondeggiando davanti a lui si immobilizzò, a bocca aperta. Si riscosse quasi subito, rendendosi conto di essere di nuovo sotto al portico, nel mezzo del gruppo di uomini che aveva attraversato entrando, che lo guardavano in silenzio. Incrociò i loro sguardi, annuì due tre volte come per salutare, e girò sui tacchi, dirigendo deciso verso la moto.
Osiride buttò a terra il mozzicone di toscano, scostò le fettucce ed entrò in fretta:
- Agnese, cosa c'è... dài, non fare così, perché fai così... Agnese, mica piangere... ma bisogna pur che la smetti, di pensare sempre a Osvaldo... ma lo sai, o no, quanti anni hai? eh? Dài, basta mo' adesso, smettila di piangere, asciugati quegli occhi... -
Le parole divennero inudibili, il vecchio parlava ora sottovoce, come si fa con i bambini, e il motociclista aveva ormai attraversato la piazza, era a fianco del suo mezzo. Si infilò il caschetto, allacciò la giubba, e iniziò ad aggirarsi intorno alla motocicletta, scrutando, toccando, allentando manettini, stringendo chiavette, azionando pompette, chiudendo saracinesche, graduando cursori... alla fine, quando parve soddisfatto di tutti i passaggi di questa sorta di rituale, accorgendosi di avere di nuovo su di sé gli occhi di tutti, gonfiò il petto, si affiancò alla motocicletta, afferrò con decisione il manubrio, incurvandosi in avanti mise il piede sinistro sulla leva di avviamento, lo molleggiò alcune volte, come a saggiarne la resistenza, lo spinse con più forza verso il basso, facendo emettere al motore una sorta di profondo sospiro, stirò le labbra in un sorriso estatico, si alzò da terra dandosi lo slancio col piede destro, per librarsi un istante a mezz'aria e gravare di colpo con tutto il suo peso sulla leva di avviamento. Il motore dette un brevissimo segno di vita, tentò un paio di scoppi poco convinti, e preferì spegnersi. Il sorriso divenne meno estatico, ma il motociclista non si perse d'animo, si limitò a ripetere l'ultima parte del rituale, accelerando leggermente e ostentando tranquilla sicurezza, ma il fato non fu dalla sua parte, il suono emesso dalla motocicletta fu di quieta chiusura. Quattro volte si ripetè la liturgia, rendendo sempre più scomposti i movimenti dell'officiante; i bambini più piccoli avevano già ripreso i loro giochi, quelli più grandi cercavano distrattamente motivi d'interesse nell'ambito delle loro cavità nasali, un paio di uomini erano rientrati nel bar, giudicando più stimolante la scena che probabilmente si stava svolgendo al suo interno. Il motociclista si tolse il caschetto, si snodò dal collo un fazzoletto scarlatto e ci si asciugò la fronte e il collo, poi si apprestò a ripetere il rituale: Ma questa volta, giunto al momento cruciale, dovette sottostare alla suprema umiliazione: sotto il suo slancio la pedivella prima cedette, poi s'impuntò sbilanciandolo e infine con uno scoppio e una fiammata lo catapultò in avanti.
Si ritrovò a terra, nella polvere, fra gli sghignazzi dei mocciosi e il nuovo impossibile strido della rediviva Violante. Si rialzò, fremendo di rabbia e di umiliazione, e iniziò a girare intorno alla motocicletta, insultandola, colpendola con calci e pugni, scuotendola, cercando di strappare il manubrio, mordere il sellino, sputando sul tachimetro, bestemmiando e inveendo con una voce stridula e infantile, finché le cadde di fianco, in ginocchio, la fronte appoggiata al serbatoio, da cui un'aquila d'oro, le ali trionfalmente spalancate, sembrava distogliere sdegnosa la testa dalle sue stupide incapacità.
Quattro uomini uscirono dal portico. Lo raggiunsero. Uno gli batté sulla spalla:
- Monta. -
Lo misero quasi di peso a cavalcioni della sella, fecero scendere la motocicletta dal cavalletto.
- Metti la seconda, da' contatto e tira la frizione. -
Iniziarono a spingerlo, facendogli prendere rapidamente velocità, verso la discesa da cui era entrato orgogliosamente in salita, gli fecero fare la curva, e dandogli un'ultima vigorosa spinta urlarono:
- Molla! -
Sparì dalla vista. I quattro lo seguirono con lo sguardo finché le deflagrazioni irregolari non si normalizzarono, poi rientrarono in piazza. Uno di loro si staccò dal gruppo, raccolse il fazzoletto rosso e tornò sotto il portico...
- Ce n'ho uno anch'io, compagno a questo. Lo adopero nella stalla, da tenere sotto la berretta quando mungo le vacche, da non immerdarmi la fronte. -
Sogghignava, e scoppiò la risata degli altri. Una nuvola in cielo coprì il sole. Aveva lavorato in silenzio, non vista, a lungo, fino a impadronirsi di più della metà del cielo e ora, oscurando il sole, si mostrò improvvisamente scura, e minacciosa. tanto da far udire, lontano, un pigro rombo di tuono.
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