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Il gelo nel cuore
DEB non aveva chiuso occhio per tutta la notte, non per via del vento o del cane che a tratti udiva abbaiare nel cortile. Non c’ era da aspettarselo, dal momento che amava il tepore delle coperte e sprofondava nel sonno con facilità, per tutto il giorno era stata in preda ad una strana inquietudine, senza saperne il perché, come accade di solito ai sensitivi, quando intuiscono le emozioni ma non il senso di ciò che sta per accadere. Il padre non era ancora rientrato, la madre, rinchiusa nella camera a fianco, senza sosta la percorreva da un capo all’ altro. “ Dovrei andare da lei per chiederle che cosa sta succedendo” ?" si chiedeva Deb- “ ma lei è così gelida, meglio di no”- si diede una risposta- “ Forse con un po’ di coraggio, magari con la scusa di un caschet, così potrei chiedere di papà”- continuava a pensare, in un turbinio di incertezze, che l’ assalivano ogniqualvolta si affacciava la necessità di un chiarimento in famiglia. Non ebbe poi il coraggio di affrontare la madre, un’ enorme impresa?"“ Che se la sbrighino fra loro” concluse, tirando un respiro di sollievo e sigillando così la sua giornata.
Il mattino seguente Torneville era illuminata dal sole, un sole che non bastava però a dissolvere l’ umidità nei prati e nei viali. Deb si levò alla solita ora, aprì le tende opache, diede un’ occhiata fuori, indossò i suoi soliti pantaloni grigio-antracite, larghi e cascanti, il golfino traforato e scuro. Le ciocche blu disegnavano un’ ombra dolce sul viso, gli occhi erano cerchiati da un alone di matita, era bella, anche se non glielo avevano mai detto. Prese la borsa per uscire, prima di chiudere la porta diede un’ ultima occhiata alle pareti della camera, verde acqua, si compiacque dei grattacieli blu che lei stessa aveva dipinto, la sua passione per l’ arte emergeva entro quelle pareti.
“ Sei già pronta Deb? ”- risuonò la voce di Ann dal tinello “ Sì, dov’è papà? ” “ Non è ancora rientrato”- “ È di nuova dalla zia? ”- “ Forse” ?" “ Sicuro, a che ora torna? ” “Non so”- “ Ha telefonato, ha lasciato un messaggio, un biglietto? ” “NO”-
Deb uscì, e immediatamente i suoi pensieri cambiarono rotta.
Il padre, Sean, era tornato alle prime luci dell’ alba, non lo faceva da tempo, erano trascorsi due anni dalla sua ultima sbronza che gli costò un mese lontano da casa. Era stato respinto e buttato fuori da Ann, fu costretto a chiedere asilo a Emmy, la sorella maggiore, vedova da alcuni anni. Emmy lo accolse in casa, anche se ciò le comportava un aggravio di spese, data la passione di Sean per l’ alcool e il gioco, ma Dio li aveva uniti per sempre e non solo attraverso un legame di sangue. Litigavano spesso, a volte si picchiavano e poi facevano pace, quasi come due teneri amanti. Durante una delle tante sere passate al pub, si ritrovò ubriaco in un viottolo, aveva voglia di pisciare, chissà come mai in queste situazioni si trascinava nei quartieri popolari dove abitava la sua cara amica Polly. Quella sera l’ attrasse a sé con tutta la forza brutale che possedeva nelle braccia e che l’ alcool non aveva ancora assopito, l’ umidità di quella casa si appiccicò nei loro volti, lui non l’ aveva mai desiderata come quella notte, e Polly cedeva con maliarda lucidità ai suoi spasimi e sapeva come spennarlo.
Emmy non era più paziente come una volta, dopo lunghe notti trascorse ad attenderlo, era giunta alla soluzione di porre fine alla relazione con il fratello; tuttavia, come ogni scelta definitiva, questa soluzione le sarebbe costata una penosa solitudine, pesante fardello da sopportare. Sean rientrò e si addormentò evitando ogni discussione con la sorella.
La mattina seguente facevano colazione seduti al solito tavolo rotondo coperto da un centrotavola sudicio e sgualcito.
“ Ho depositato l’ assegno alla Roger’s trade- Oggi avrò altre notizie, forse Ted subentrerà al mio posto” ?"
“ Che intenzione hai? Ted non rileverà mai la tua baracca”-
“Lascerò un assegno a Mr Weeston, ho avuto i fondi dalla Union Trade, mi serviranno per sanare i debiti, Ted è d’ accordo” ?"
“ Sean, che intenzioni hai? ” ?"
“Emmy, questa volta faccio sul serio”- affermò Sean
“ E la famiglia? Non ha nessuna voce in capitolo, Sean…”-
“ Feddy è andato a Londra, ?"
“ E Deb? ”
?" “Povera creatura”- rispose con un filo di voce-“Rimarrà ad accudire la madre. Fred è partito, povero figliolo, i soldi comunque non gli mancheranno, ho provveduto a spedirgli un assegno che basterà a coprire le spese di un anno. Chissà se troverà fortuna nella musica, eh sì, Fred ha un vero talento musicale come suo nonno.
Io me ne andrò negli Stati Uniti, vedrai non verrò meno al mio compito, se rimanessi qui sarei un’ autentica larva! ”
Sean dava inizio al suo progetto con l’intenzione di portarlo a termine, tutto a Tallamore non andava come previsto, la società di autotrasporti che aveva fondato con Ted Mc Court era in bancarotta. Erano queste le autentiche ragioni per mollare? Complice certamente la città ammuffita e bigotta, senza alcun dubbio un matrimonio in crisi, il fallimento dell’ impresa, ma un’altra ragione lo spingeva ad avventurarsi oltre l’ Oceano: seguire le orme del padre, emularlo in una lotta estenuante con se stesso.
Sean, come del resto la famiglia Roger’ s, aveva il fiuto per gli affari, non bastava l’ età a trattenerlo, né tantomeno ciò che stava per lasciare a Tallamore.
“ Domani mattina ho il volo per Boston, partirò alle 8 e 10, con me verrà Mike”.
Emma scosse il capo, si alzò da tavola, si mise alle prese con le pulizie, soffocò la sua ribellione e non parlò per l’intera giornata.
Le azzurre scogliere di Bray erano particolarmente amate da Deb, il mare di un verde torbido si infrangeva sugli scogli lasciando una patina lucida e vischiosa. Seduta su una panchina del molo, riandava con la mente al battibecco con la madre, la sera precedente. Il ciuffo blu ricadeva sulla fronte, il vento era piuttosto forte e faceva eco alle sue preoccupazioni. Il ricordo di quel dialogo con Ann riecheggiava nella sua mente come una sinfonia lunga e noiosa. Era una sera umida e buia, Deb era rincasata prima del solito, scorse la madre dalla porta dell’ ingresso, la trovò accovacciata sotto il tavolo del soggiorno, era la mania delle pulizie a renderla così meticolosa e ridicola; nonostante la pelle rossastra e rugosa, tuttavia conservava ancora l’ aspetto di una fanciulla.
Fu colta da un improvviso istinto, voleva urlare, rinfacciarle il suo stato di schiavitù, decise immediatamente di controllarsi per dare via a un dialogo sereno e ragionevole.
“ Mum, ho deciso, partirò per Londra, voglio fare compagnia a Fred, ”
Ann si rialzò, contrasse le labbra, posò il cencio e lentamente si avvicinò a lei, strofinò leggermente le umide mani sui suoi fianchi, pallida e vigorosa, come sempre, la guardò contrariata senza perdersi d’ animo, era sicura che avrebbe trovato le parole giuste per rimuoverla dai suoi propositi.
“ Intendi dire che vuoi raggiungere tuo fratello per rinchiuderti in qualche bettola? “ No, Mum, intendo dire che voglio andarmene, non sto scherzando! ”
“ deb, tesoro, tu non hai idea di quello a cui andrai incontro. Non sognare come tuo padre e tuo fratello”
“Certo, tu non hai nessuna responsabilità in questo! ” esclamò con aria d rimprovero.
“Sempre fiera, arcigna, perfetta! Io non ho più motivi per stare con te, mi spiace”. Salì le scale dell’ anticamera, si precipitò nella sua stanza e si rinchiuse. Si affrettò a preparare il borsone, afferrò pochi e semplici abiti dal guardaroba, li arrotolò e li avvolse alla buona, addentò una barretta di cioccolato, come di solito faceva quando doveva prendere delle decisioni. Sentì il cane abbaiare nel cortile, si affacciò “ Fra un po’ verrò a salutarti Rockey, pazienta un attimo”. Corse in bagno per pulirsi i denti, diede una rapida sistemata ai suoi ciuffi, si guardò allo specchio, non si era mai piaciuta, ma trovò che il suo viso era più luminoso. Uscì dal portone del garage, salutò Rockey con una smorfia e lo accarezzò teneramente, sollevò il borsone sulle spalle minute, si diresse alla stazione in direzione di Bray, dove l’ attendeva Karen.
Pensò di essere giunta ad un bivio, il bivio che prima fred e poi il padre avevano incrociato nelle loro vite. Diciotto anni erano adatti per compiere un simile passo, quanto coraggio animava Fred, ora sarebbe toccato a lei. Fred aveva ereditato dal padre la dipendenza dall’ alcool e dalle donne, il suo talento musicale era il lascito più grande che la famiglia Roger’s gli aveva concesso. Viveva di stenti, dal comune di Londra riceveva mensilmente un assegno esiguo, alloggiava nei quartieri popolari di Brixton, popolati per lo più da giamaicani.
Deb trascorreva volentieri le sue vacanze a Bray, ospite di Karen: shopping, nuove conoscenze, fumo e alcool. Karen esercitava molto fascino sui ragazzi, anche e soprattutto adulti. Capelli lunghi e rossi, curve sinuose leggermente abbondanti, gambe mozzafiato che non esitava a scoprire con gonne vertiginose, grande dose di sensuale femminilità. Deb provava nei suoi confronti un mal celato senso di inferiorità, l’ ammirava perché Karen, contrariamente a lei, con gli uomini ci sapeva fare, lei, invece, provava una disarmante insicurezza con i ragazzi, al limite della goffaggine.
Karen sbucò dal vicolo della strada che portava al molo, si avvicinò a Deb seduta su una verde panchina, le porse una barretta di cioccolata che Deb afferrò voracemente.
“ Ieri sera ho visto Greg, sai? ”
“ Sì, lo so, com’ è andata? ” -rispose deb con avida curiosità
“ Mi ha baciato con la lingua, e poi mi ha promesso un giro in barca con lui, non puoi immaginare che ebbrezza! “
“Uahau…”
“Stavo quasi rifiutando il suo invito, ma non ho resistito! ”
“ Magnifico! Quando andrai in barca con lui? “
“ Domani”
“Domani? ”- ribattè Deb
“ Sì domani, perché? ”
“ Domani partirò per Londra, te ne avevo parlato”
“ Ti prego Deb, rimanda la partenza, Greg ha un amico fantastico, sarebbe un’ottima occasione per conoscerlo”
“ Che cosa? Stai scherzando? Non ho bisogno di un accompagnatore! È giusto che io me ne vada e che tu ti goda il tuo Greg”
“ Potrei rinviare l’ appuntamento con lui”
“ Karen, sei molto gentile, io ti devo molto, ma sto attraversando un momento difficile, è meglio che io parta”
“Già, è a causa di tuo padre…Se vuoi, puoi rimanere qui”
“ No, è meglio che io vada. Telefonerò a Fred, chiederò a lui di venirmi a prendere in stazione”
“ Tu credi che Fred venga a prenderti? Ma dai, non sognare”
“ Bè, magari potrei con i mezzi raggiungere casa sua”
“ È già più probabile”.
Al tramonto s’ incamminarono verso casa, il vento era divenuto più gelido.
Il fratello la attendeva a Victoria Station accanto ad un venditore siriano di cus-cus, il vento sferzante muoveva i ciuffi biondastri, si contrasse dal freddo, alzò il bavero della giacca e si avvicinò a lei per aiutarla con i bagagli. Seguì un rapido abbraccio, deb si commosse, poi di corsa verso la fermata del pullmann, via da quella folle baraonda.
La casa era a cento passi dal parco, entrarono, lei lasciò la borsa sulla moquette unta e sprofondò sul divano, si accorse che in camera da letto regnava un disordine inquietante, chiuse gli occhi per non farci caso. Fred accese lo stereo, “There’s the moon asking to stay enough for the clouds to fly me away”
I giorni a Londra per un paio di mesi trascorsero sereni. Nonostante si imponesse la necessità di trovare lavoro, Deb scopriva man mano la piacevole sensazione di sentirsi utile, si prendeva cura del fratello, o quantomeno si illudeva, aveva rassettato la casa, sistemato i ripiani della cucina, preparato nuove ricette, non si rimpinzava più di cioccolato. La mamma telefonava a giorni alterni, seguendo la trama di un classico copione. I ragazzi che conosceva al pub erano simpatici, probabilmente le risultavano tali perché si sentiva più sicura, sì ora era più sicura da quando stava con Fred.
Fred le presentò un certo Patrick, un musicista di ventotto anni che nel tempo libero scriveva su alcune riviste di musica pop, piuttosto alto ed esile, occhiali leggeri sulla punta del naso, brillante e ironico. Deb riuscì a portarselo a letto e dopo quella volta non lo rivide più, non si portò addosso nessun senso di abbandono, niente del genere, anzi tutt’ altro. Cambiò look: minigonne, tacchi vertiginosi, trucco più intenso. Fred non gradì la sua metamorfosi, si sentiva imbarazzato e, a poco a poco, diradò le sue uscite con lei.
Spesso nelle ore serali passeggiavano nel parco, prima di rinchiudersi in un pub con gli amici. Camminavano lenti, commentavano qualche brano musicale, poche parole, anzi, spesso se ne stavano in silenzio, quasi non avessero nient’ altro da dirsi.
Durante una sera di primavera, quando il parco si popolava di bambini e ragazzi del quartiere, deb si ricordò di una cugina di primo grado che abitava a Londra da diversi anni. Solo in quell’ occasione le venne in mente il ricordo di un parente, per lo più non lontana.
“ Hai qualche notizia di Meg? ” chiese a Fred
“ L’ ultima volta che l‘ ho rivista è stata una settimana fa. Voleva vedermi a tutti i costi per invitarmi di persona all’ inaugurazione di una galleria di quadri a Kensington. Mi aveva addirittura fatto capire che mi sarebbe stato utile presentarmi, declinai l’ invito fingendo di dover tornare a Tallamore. Sai, la gente che frequenta non l’ ho mai sopportata e trovo la sua esuberanza eccessiva, di pessimo gusto, oserei dire”
“Già hai ragione. Non me ne avevi parlato”. rispose Deb facendosi passare una mano fra i capelli. Camminava barcollando lievemente, non si sentiva ancora a suo agio sui tacchi.
“ Sto dando un’ occhiata alle offerte di lavoro”
“ Era ora! ” rispose Fred dopo aver riflettuto in una frazione di secondo
“ Da che pulpito! Ho pensato a Meg in questi giorni, potrebbe darmi una mano o un consiglio su come muovermi in campo artistico”
“ Ah, questa mania di dipingere! ”
“ Non ti riconosco più! ”. Le parole di Fred tradivano un tono pungente. Era infastidito dalla sua presenza? Oppure si trattava di una banale gelosia? Oppure era solo, semplicemente annoiato? Con questi pensieri diede un taglio alla conversazione.
Meg la accolse in casa, dopo averla affettuosamente abbracciata sui gradini dell’ uscio. Deb si accomodò su un divano tappezzato di stoffa blu rifinita con ricami dorati, un po’ kitch per i suoi gusti, per il resto trovò la casa accogliente e si mise subito a suo agio.
“ Come sei cresciuta deb, tesoro! ” Meg aveva quasi trent’ anni, di una straordinaria semplicità, ben curata nonostante le occhiaie rendessero meno luminoso il suo sguardo.
“Qual buon vento ti porta, piccola Deb? ” Era solita chiamarla così e Deb non ne era molto contenta, la parola “piccola” la riportava a casa dai suoi, da Ann e da Sean, da Rockey.
“ Ho saputo da fred che hai aperto delle gallerie in città”
“ una! Sì, devo dire che mi sono data da fare. Ho inviato dei curricula a delle compagnie che si occupano di art trading, poi ho partecipato ad alcuni workshops, mi sono stati utili i contatti con Mrs Tana French che ha lavorato con me e ha sponsorizzato il mio progetto al college. Sono state le maschere di porcellana che ho modellato in occasione del bicentenario del college ad entusiasmare Mrs French”. Meg, seduta sul divano, giocherellava con le ciocche bionde inanellandole come se disegnasse vortici e spirali nello spazio. Deb, ad un tratto, si chiese se ciò che aveva sentito non fosse che una parte della realtà, ben sapeva che da tempo frequentava una cupola di uomini potenti, certo non poteva mettere in discussione le doti della cugina, ma rabbrividì dinanzi a tanta ostentazione, per un attimo ammutolì, poi con voce roca si riprese e disse:” Complimenti, ho sempre detto che hai del talento”
“ Anche tu Deb, non dimenticherò mai la tela che hai dipinto ad olio l’ ultimo anno di scuola, una madre che allatta un bambino, i lineamenti della donna erano dolci e pieni di sentimento. Che fine ha fatto quella tela Deb? ”
“ Bè…. Forse l’ ho conservata in solaio a Torneville” rispose con dell’ imbarazzo perché in verità non riusciva proprio a ricordarsene.
Meg si alzò e andò in cucina per preparare un tè, deb rimase in soggiorno ad osservare accuratamente gli oggetti che lo riempivano: maschere di terracotta appese alle pareti, una credenza ornata di piatti e tazze di ceramica blu, un arazzo composto da anelli e linee curve blu su uno sfondo bianco che sovrastava il divano, uno stile etnico che ben si adattava ad un equilibrato gusto borghese. Meg tornò dalla cucina, posò il vassoio sul piccolo tavolo ai piedi del divano, versò il tè e si accomodò a fianco a lei.
“ meg, a casa di fred mi sento a disagio. Certo gli voglio un gran bene, ma giorno dopo giorno si abbandona sempre più all’ inerzia, quello che riceve dal sussidio si dissolve nel giro di pochi giorni. Di recente ho avuto dei colloqui di lavoro, ho provato anche a lavorare come lavapiatti in un ristorante messicano, ma la paga era un po’ ristretta”.
Meg ascoltava attentamente, avrebbe voluto darle una mano, ma si rendeva conto che aveva ben poco da offrile. Si stupiva che Deb si aprisse a lei, e ciò le procurava un senso di inadeguatezza, Deb era diversa da Fred: lui così bello, accattivante, straordinariamente persuasivo, risultava spontaneo a qualsiasi donna e a chiunque stargli vicino, la sorella, invece, così inquietante e fragile.
“ Deb, dovresti tornare dai tuoi, comprendo la tua situazione in famiglia, ma volgere le spalle e mettersi in fuga non serve a nulla, a meno che…”
“ A meno che? ”
“ Tu non ti iscriva ad un college”
“ Già, ci penserò” bevve di un fiato la tazza di tè, si alzò concitata, finse di avere un impegno e si congedò da lei, si avviò verso l’ uscita e si voltò di nuovo per guardare il volto pallido della cugina, la mascella ben tagliata che incorniciava le labbra leggermente sottili e arrossate, gli occhi grandi che tradivano una malinconia che a tratti emergeva dall’ombra bluastra delle occhiaie. Le venne voglia di farle un ritratto.
Erano esattamente le sette in punto quando deb salì sul pullmann che l’ avrebbe portata a Hihgate dove, al civico 547, l’ attendeva il sig. thierry, facoltoso commerciante di arazzi persiani alla ricerca di un agente mandatario. Deb aveva letto l’ annuncio sul Times: l’ idea di trafficare fra commercianti e venditori l’ avrebbe sottratta dall’immobilità nella quale si era irrigidita, e le avrebbe dato un sollievo temporaneo. Gli arazzi, inoltre, svelavano un’ arcana e labirintica geometria delle cose.
Le aprì il portone un uomo sulla sessantina di anni, indossava un gilet bordeaux e una camicia bianca a righe che metteva in mostra maniche con polsini consumati e grigiastri; si presentò come socio d’ affari i Thierry, il naso leggermente aquilino, labbra strette e violacee, occhi grigi e lucidi, aveva l’ aspetto di una vecchia volpe ma galante.
“ Prego, signorina, si accomodi! Il sig. T. sarà qui a momenti. “
Deb si accomodò su un vecchio sofà, le pareti dell’ anticamera erano spoglie, solo una moltitudine di piccoli chiodi, era l’ ostentazione del vuoto, il deserto dei segni. Si chiese come mai un venditore di arazzi potesse giungere a tale sobrietà, forse qualcosa di misterioso si celava in quell’ ingresso, anticipato, d’ altronde, dalla misteriosa presenza dell’ uomo che le aveva aperto la porta.
Il sig. T. scese dalla scala bianca a pioli con frettolosità, le porse la mano e si scusò per l’ attesa. I suoi modi cordiali catturarono la sua attenzione accentuandone la curiosità, in fondo si trattava di un uomo affascinante, era un uomo attraente? Deb non riusciva a darsi una risposta. Aveva superato la quarantina, un fisico piuttosto atletico, ma che probabilmente lottava contro i primi segni di pinguedine; capelli scuri, folti, occhi neri, un impressionante abisso liquido, che spiccavano sulla pelle olivastra. Era evidente la sua origine siriana. La guardò con una certa ammirazione, lo sguardo penetrante la mise in difficoltà, poi con fare gentile esordì: “ Sig. na Roger’s, lei ha letto l’ annuncio e, naturalmente, ha un’ idea della nostra società. Siamo alla ricerca di personale altamente qualificato, disinvolto ed esperto nella comunicazione. Lungi da noi perditempo ed insicuri. Efficienza, pragmatismo, azione: sono parole d’ ordine nel nostro codice di affari! Il suo curriculum? ” Deb ascoltava con remissiva attenzione, anche se non aveva perso del tutto il controllo su ciò che la circondava: lo strano signore anziano usciva ed entrava da una stanza all’ altra, dalle scale sbucò un altro uomo vestito con giacca e cravatta e si diresse verso la porta d’ ingresso salutando Therry e dileguandosi in fretta. Si udivano delle voci femminili dal soffitto di quell’ anticamera, serpeggiava un’ atmosfera inquietante che deb non riusciva a spiegarsi. Cercò di non badarvi, si concentrò sulle parole da dire a T. che si era pronunciato con assertività. “ Amo disegnare e dipingere, sono sensibile a tutto ciò che l’ uomo produce con garbo ed arte. Gli arazzi persiani come quelli fiamminghi evocano figure e forme che l’ uomo riscopre in natura e porta con sé come un bagaglio sigillato che all’ occorrenza si dischiude creando meravigliose forme. Di certo la consapevolezza del valore di siffatte produzioni favorirà la mia propensione alla vendita, ne sono sicura”
“ Bene, sig. na Roger’ s, veniamo al dunque. Quanto guadagno si aspetta da questa attività, mi spiego, quali sarebbero le sue ambizioni? ” Deb non trovò una risposta immediata, in fondo non esigeva di arricchirsi a dismisura, solo riscattarsi da una famiglia precaria e andare avanti con soddisfacente autonomia. Tuttavia era conscia che il confessare la sua reale intenzione avrebbe potuto compromettere la sua candidatura, tirò un profondo respiro e rispose balbettando: “ Bè, sa… in fondo potrei accontentarmi agli inizi della carriera, quel che basta per vivere in una casa in affitto …” non aveva terminato la frase, quand’ ecco che lo strano signore anziano chiuse la porta d’ ingresso a chiave, si accostò a T. ammiccando con la testa. L’ afferrarono alle braccia, lei emise un urlo scuotendo tutto il corpo per divincolarsi dalla stretta brutale delle mani dei due uomini, scalpitava, con tutta la forza che aveva, ad un tratto come per magia, tutto divenne buio.
Aveva perso del tutto coscienza dopo essere stata percossa e presa a calci. T. le aveva iniettato un’ iniezione potente di benzodiazepina
La portarono in una camera da letto, una di quelle da cui provenivano le strane voci di donna, la adagiarono su un letto matrimoniale coprendola con un lenzuolo lilla rammendato nella parte del risvolto, lenzuola vecchie e sdrucite, come ce n’ erano tante in quella casa di appuntamenti. La lasciarono chiusa a chiave, priva di sensi, la guancia destra tumefatta e contusa, ecchimosi su entrambe le braccia, era stata la facile preda di avvoltoi rapaci, attori e camaleonti, un rischio probabile nel teatro avventuroso che è la vita alla quale deb non era ancora preparata.
Si risvegliò due giorni dopo, ancora in stato di incoscienza, la vista annebbiata, si accorse a malapena di essere in una stanza semibuia e sconosciuta, arredata da una sola consolle, squallida e tarlata, u piccolo vano dava accesso ad un’ altrettanto piccola toilrtte. Una finestra a rifiniture quadrate in legno bianco lasciava entrare una luce giallastra composta da fittissimi pulviscoli grigiastri, tutto intorno spoglio, la carta da parati si scollava qua e là. Richiuse gli occhi per ritornare nell’ abisso, lontano dal mondo che ormai l’ avrebbe tenuta in ostaggio per chissà quanto tempo.
Al civico 547 di Highgate il campanello suonava più volte nel corso della giornata, erano avventori e clienti delle malcapitate, alcuni di indiscutibile eleganza, in tailleurs di jeursey e brillantina, altri, più trasandati, fumavano tabacco e sigari, appesantendo il tanfo di quel locale ammuffito. Via vai di gente di affari, ma anche di artisti e attori assetati di piacere, di narcisistico appagamento. In molti chiedevano di Rose, la prediletta: carnagione pallida incisa da qualche tatuaggio, fianchi robusti e ben modellati, seno turgido e piccolo, chioma rossa e fluente che ben incorniciava il suo volto e soprattutto i suoi occhi verdi, un misto mirabile di Artemide ed Hera.
Un cliente chiese del sg. T., si fece accomodare sul sofà e aspettò il suo turno, era impaziente, guardò a più riprese l’ orologio che portava al polso, portava basette folte lunghe fino ai lati della bocca, la calvizie prematura rendeva lucido il cuoio capelluto come un mappamondo vuoto su cui qualche bambino si sarebbe divertito a disegnare.
Il sig T si presentò con la solita cordialità frettolosa e accattivante, i due ormai si conoscevano da tempo: “ Sig. Spark, mi scusi se l’ ho fatta attendere, prego si accomodi da questa parte. ” ?" entrarono nell’ ufficio, tre sedie, una scrivania e qualche poster di arte contemporanea. “ questa volta vorrei proporle una deliziosa fanciulla, mora, di alta qualità. È qui da noi da pochissimo tempo, tenera come un pulcino, un po’ smarrita, ma è una ragazza che fa per lei. vedrà sig. Barry, si troverà magnificamente. “ La ringrazio per avermi preso in considerazione, sig. T., comunque lei sa benissimo che ho una particolare predilezione per Rose e non voglio per nessuna ragione cambiare, mi sembra di aver chiarito la faccenda fin dall’ inizio! ”
“ Non se ne pentirà, sig. Barry, vedrà. Rose sarà sempre a sua disposizione ogniqualvolta lei lo desidera, ma, dal momento che è un fidato cliente, terrei tanto a riservarle una nostra delizia” “ Mi sta incuriosendo, sì, potrei provare, e dunque come s chiama la nostra novizia? ” “ deb, magnifica! Un cerbiatto dagli occhi neri, corpo acerbo e ben fatto. Un’ adolescente doc! Allora, affare fatto? ” Il sig. barry annuì, si fece accompagnare in camera dal socio.
Deb piangeva, aveva cercato invano di mettersi in contatto con il fratello, ma il suo cellulare non dava segnali. Era spossata ed affamata, non mangiava da giorni, a malapena sorseggiava qualche goccio d’ acqua. Se la prendeva con se stessa: lei aveva capito sin da quando aveva messo piede lì dentro, che avrebbe fato una cattiva fine, il suo intuito non la ingannava, ma c’era qualcosa dentro di lei che la bloccava nelle situazioni ambigue, quasi ne fosse spaventosamente attratta: in fin dei conti perchè aveva chiesto aiuto alla cugina? Perché a Fred, proprio lui che ne aveva più bisogno? La girandola ossessiva dei pensieri si risolveva in un incessante riflusso esofageo, in un andirivieni dal letto a due piazze alla toilette tale che la morte appariva da lì a due passi.
Si fece toccare dal sig. Spark, ormai non provava più nulla, era un esile e vacuo involucro pronto al martirio. Prima di ogni amplesso si iniettava una siringa di anfetamina come le avevano suggerito le sue colleghe, consapevole e ben decisa a lasciarsi morire. Ora, trovatasi di fronte a quell’ uomo calvo e vestito in nero, fu sopraffatta da un pensiero raccapricciante: non si sarebbe più fatta, doveva provare tutto l’orrore di quella squallida fine senza ricorrerre a narcotici e ad anestetici; sentì tanto freddo, un fremito pervase le ossa, una sensazione di angoscia e di gioia, è il confine che si affaccia alla morte per non soffrire mai più.
Il sig. Spark uscì forse soddisfatto, pensano al prossimo appuntamento con Rose, la prediletta.
Trascorsero giorni, deb non si fece più ricevere, il digiuno volontario, il suo stato di magrezza, il volto esangue, la sua disarmante passività allontanavano i clienti, persino il sig. T. si preoccupò, decise di liberarla come si fa con i cuccioli rimasti per troppo tempo in un canile a languire.
Il corpo esanime di Deb fu trovato in quella squallida stanza la mattina del 18 luglio 1999, giaceva rannicchiato come un feto sul letto.
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