Camminano uno a fianco all’altra, cercando la sincronia dei passi, difficile per quei centimetri che li separano.
È una delle ultime giornate che l’autunno concede alle passeggiate di cuori che combattono mano nella mano la loro solitudine. Indugiano qualche minuto su una panchina, il tempo di farsi trafiggere dalla rigidità di un clima di fine ottobre. Poi ripartono, parlando poco, ridendo molto.
Forse hanno rinunciato a condividersi l’anima, ma si regalano sorrisi unici che mascherano bene la rassegnazione.
Si fermano a una fontana, per riprendere fiato, e il prezzo pagato sono mani gelate e increspate dal vento freddo e secco. Forse è ora di rincasare.
Camminano più spediti sulla via del ritorno ora che il sole non si riflette più sugli occhiali scuri che portano, più che altro per nascondere le occhiaie lui, le prime rughe lei.
Per quanto svelto e distratto sia il passo, lei si ferma tutt’ a un tratto colpita da un’immagine che rompe con tutto il resto grigio o incolore. Un fiore. Non di quelli che calpesti e nemmeno ci fai caso.
Di quelli colorati per davvero, che li vedi anche da lontano, che ti fermi con la macchina per andare a coglierlo o solo a guardarlo.
Lui la guarda allontanarsi, un po’ la segue, un po’ indugia, sognando il tepore della sua auto.
Lei non vuole dare spiegazioni, vuole donargli un fiore. Uno di quelli che lasci ad appassire sulla mensola e poi lo rivedi e ripensi a quella qualsiasi giornata di ottobre che grazie a un fiore sarà speciale per sempre.
Speciale e ancora non sa quanto.
Quel fiore, come le cose più belle, se ne sta in disparte. Non in mezzo a un prato calpestato, ma unico frutto della terra in mezzo a rocce pericolanti che si ergono sulla valle. Che la guardano dall’alto.
Vuole quel fiore, e ha deciso che lo prenderà, perché lo vuole donare a lui, e ha già in testa il suo sorriso quando gli andrà incontro col fiore dietro la schiena e i suoi occhi si illumineranno di riflesso di fronte a quel fiore iridato. E vuole quel sorriso adesso, vuole quel regalo per lei.
Si gira a guardarlo, si è seduto su un muretto un po’ infastidito forse, dalla fuga di lei.
A lui poi l’altezza non piace affatto, ha le vertigini e non gli va di seguirla, lei che si spinge così in là, verso quel paesaggio, chissà perché poi, lei e le sue manie, le sue passeggiate interminabili, proprio oggi che lui non deve lavorare, e una partita in tv l’avrebbe vista volentieri. Lei non torna, è sparita dentro quel paesaggio fitto di rocce e alberi a strapiombo, e lui adesso è davvero irritato.
Accende una sigaretta e crede che litigheranno. Non sa bene ancora perché, ma vuole sfogarsi, perché non ha visto la partita, ha le mani congelate e domani partirà per un altro viaggio di lavoro e magari avrà pure l’influenza per colpa di lei e le sue maledette passeggiate.
I minuti passano e l’irritazione è già rabbia, sicuramente si sarà fermata a osservare un riccio o inseguire una lepre che scappa. Si alza e segue la sua ultima immagine sotto il sole calante.
Il giorno del funerale di lei non c’erano crisantemi.
Non c’erano corone di condoglianza.
Un unico solo fiore. Non bianco. Non austero.
Colorato, vivo.
Giaceva sulla bara di lei.
E lui guardandolo si costrinse a donarle quel sorriso che lei aveva voluto donargli.