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Pioggia d'estate
“ Fabio! Fabio! Svegliati. Sono le sette e sei in ritardo come al solito! Possibile che tu non riesca mai ad alzarti per tempo? E finisce sempre che bisogna fare la corsa per arrivare al lavoro? Sembra proprio che tu e il letto siate una cosa sola! Allora? Guarda che lo bevo tutto io il caffè, se non ti alzi immediatamente”.
“ Lasciami dormire ancora un po’” pensavo e non avevo forza né per aprire gli occhi, né per rispondere. Volevo sognare ancora, ripensare ai colori della notte appena trascorsa.
Avevo fatto un sogno bellissimo. Era uguale al giorno in cui per la prima volta avevo indossato una maschera subacquea e varcato la soglia di quella diversa e unica dimensione immateriale che è la superficie del mare.
Il mio corpo senza peso, la trasparenza del liquido e i colori pastello del fondale, ricco di pesci e altri animali sconosciuti.
Mentre galleggiavo avevo sollevato lo sguardo e visto mio padre venirmi incontro camminando lungo una strada bianca. Mi aveva detto: “ guarda come sei trascurato! Prometti che domattina farai la barba e taglierai i capelli! “
Io gli avevo sorriso e lui mi aveva teso la mano sollevandomi, e mano nella mano avevamo camminato insieme, parlando della pioggia che quell’estate era mancata, rendendo arida tutta la campagna.
Poi, aveva detto: “ Quando passerai da casa, bacia la mamma da parte mia, mi raccomando! ”
“ Fabio, Fabio, sei ancora lì? ”
Mi sentivo chiamare di nuovo e mentre mi giravo verso la voce, tornavo a guardare mio padre che non c’era già più.
“ Per la miseria, ho gli occhi appiccicosi stamattina, e mi sento stanchissimo! Quasi quasi prendo un giorno di malattia e per oggi me ne rimango a letto! ”
“ Fabio, tesoro! “
“ Ok, Ok mi sto alzando” penso, ma sento che il tono di voce è cambiato; è tenero, quasi un lamento.
Un ultimo pensiero prima di sollevarmi: il ricordo di un aforisma di uno scrittore semisconosciuto, certo A. F. Blumfeld : “ Non siamo che blandi effetti collaterali dello spazio-tempo: la "secchezza delle fauci" dell'Universo. “
“ O Dio le mie fauci! Quanta secchezza! ”
Apro gli occhi a fatica, mi guardo intorno. Sono disteso. Supino, e pendo tubi dappertutto.
Impreco violentemente: grido, ma non sento neppure un filo di voce. Ho anche un tubo in gola che non passa dalla bocca, no. Mi è stata perforata la trachea e così non posso neppure parlare. Resto immobile come uno stoccafisso norvegese.
Solo roteando gli occhi riesco a vedere, sfocata, la punta del mio naso, il mio addome, le braccia adagiate lungo i fianchi e l’estremità dei miei piedi.
Devo avere qualche piaga sparsa qui e là perché sento forte l’odore del disinfettante e della pelle che marcisce, ma non avverto alcun dolore.
Voglio tornare indietro: tredici anni trascorsi con le urla di Marta che tutte le mattine mi grida: “ Fabio, alzati! “ e dopo avermi chiamato innumerevoli volte mi porta il caffè a letto, che fa moderatamente schifo, ma mi piace, perché spesso finiamo per fare all’amore.
Le mie mani affondano tra i suoi glutei, lambiscono la sua pelle liscia, accarezzando le sue forme morbide e rassicuranti. È bella la mia Marta!
Ma le mani ora giacciono inermi, lunghe, immobili alla fine delle mie braccia; e il mio sesso non so più se ci sia ancora, sepolto tra i testicoli rinsecchiti, sotto il bianco lenzuolo.
Tredici anni sempre in ritardo!
Impiegato di un’agenzia assicurativa in cui ogni mattina il capo mi saluta con la stessa identica battuta insulsa seguendo sempre lo stesso copione: caffè in mano, bicchierino di plastica, sorriso ebete: “ Buongiorno Rossi! Anche stanotte è andato in bianco, eh?! “ e va via sghignazzando, solo come un menhir.
Maledizione! Vorrei sapere se qualcuno ha ancora da ridire sul mio secolare ritardo!
Eppure rivoglio quel coglione del mio capo, rivoglio le mie mani, il mio desiderio per Marta e il mio sesso che urla ogni mattina il suo nome: “ Marta, portagli il caffè, dai! “
Giaccio immobile e non sento nessuna parte del mio corpo.
Da quanto tempo sono qui?
Corpo e mente, corpo e mente: mente e null’altro; il corpo é scivolato nell’abisso, sprofondato nel nulla, che se fosse nulla sarebbe già qualcosa.
Piango, piango a dirotto, ma non mi si appannano gli occhi, non si inumidisce il cuscino.
Le lacrime mi scendono dentro, copiose, inondando l’interno di quello stocco che sono diventato.
D’improvviso vedo mio padre, che mi viene incontro. Papà era alto, lo ricordo bene, ma dai sedici anni io ero diventato più alto di lui. Eppure lo vedo mentre si piega sulle ginocchia e mi pulisce il viso e mi asciuga il naso con un fazzoletto. Le lacrime ora mi scendono dagli occhi, grosse, come perle.
“ Papà, ” gli dico “ portami via”
Lui mi solleva sulle sue spalle come faceva quando ero bambino e mi risponde:
“ Fabio, piccolo, non piangere che papà ti porta alle giostre! ”
“ E la mamma? “ gli dico io
“ Non preoccuparti per la mamma. Quel bacio può aspettare! “
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