racconti » Racconti gialli » Quindici anni dopo - PARTE PRIMA
Quindici anni dopo - PARTE PRIMA
Mentre si dirigeva in bagno, vide una striscia rossa provenire da sotto la porta. La ragazza tremava e respirava a fatica. Non sapeva cosa fare, e decise di aprire. La finestra era spalancata.
Poi il suo sguardo si fissò sull'immagine del corpo di Marta riverso a terra, col cranio fratturato. Il pavimento era stracolmo di sangue. Avanzò ulteriormente, ma le mancò il fiato per gridare. Sgranò gli occhi e d'istinto le si fiondò vicino, si mise sulle ginocchia e l'attirò a sé, macchiandosi di sangue capelli e indumenti.
Poi udì una voce provenire dal fondo del corridoio.
"Leslie, Marta tesoro, dove siete?"
"A... aiuto. Ti prego..." sillabò.
Non riusciva a parlare. Era come se la gola le si fosse seccata d'un tratto e la voce fosse scomparsa.
La madre di Marta le stava chiamando. Quando arrivò sul ciglio della porta, cominciò ad urlare, e il grido le venne fuori dalla bocca come un suono stridulo e fastidioso.
Mi svegliai di soprassalto nel letto. Sudavo freddo e avevo difficoltà a respirare. Mi guardai in giro e mi assicurai del posto in cui mi trovavo. Feci mente locale pensando: "Sono Leslie Portato, ho trentacinque anni, sono nell'anno 2016, abito in Liguria, lavoro all'ufficio postale del paese."
Quando mi bastò per rendermi conto di essere al presente, socchiusi gli occhi e deglutii. Avevo ancora quegli incubi, non se n'erano andati, neanche dopo quindici anni. Probabilmente non se ne sarebbero mai andati.
Mi alzai e guardai il display del cellulare: erano le tre del mattino.
Andai in cucina e recuperai un bicchiere d'acqua. Poi mi chinai sul lavabo e mi tamponai la fronte e le gote. Dal bagno recuperai un panno e mi asciugai la vita e il collo sudati.
Infine mi rimisi nel letto cercando di riprendere sonno ed essere pronta per affrontare un viaggio che il giorno seguente mi avrebbe ricondotta, una seconda volta, nel mio incubo personale.
Chiusi gli occhi nel tentativo di pensare ad altro, ma l'unica cosa che riuscii a focalizzare, fu di nuovo l'immagine di Marta in un lago di sangue.
L'indomani chiusi casa, salutai i miei genitori che mi avrebbero raggiunta qualche giorno dopo, e caricai il bagaglio in auto. Poi partii e mi diressi verso il Col di Tenda.
Durante il tragitto ripensai a tutto ciò che era accaduto negli ultimi quindici anni. Non ero scappata, ma avevo dovuto prendere una decisione: o ricominciavo una nuova vita, o morivo anch'io.
Erano trascorsi quindici anni da quando avevo ritrovato la mia migliore amica in un lago di sangue, nel bagno di casa sua, e me n'ero andata da quel paese. Adesso ero costretta a tornarci per una seconda morte, quella di mia zia, alla quale eravamo, io e la mia famiglia, particolarmente legati, e alla quale, insieme al marito, avevamo affidato la casa, una volta lasciato il paese.
Durante il viaggio in macchina ritornai col pensiero a tutto ciò che ero stata prima d'imbattermi nella morte di Marta. L'assassino non era mai stato trovato.
La vita precedente il suo omicidio mi mancava terribilmente.
Provavo una stranissima sensazione nel ripercorrere quelle strade. Le ricordavo ancora bene, nonostante avessi fatto di tutto per dimenticare parte di quel posto. Mi aveva dato tanto, ma mi aveva anche tolto molto.
Quando arrivai davanti a quella che era stata per vent'anni di fila casa mia, sorrisi tra le lacrime.
Poggiai le valigie sull'asfalto, respirai profondamente quell'aria di caminetti e mi godetti il rumore dei taglia erba di qualche vicino.
C'era la nebbia, ma la fioca luce del timido sole risplendeva tra i pini e faceva brillare la rugiada dei resti della pioggia della notte precedente.
Casa mia era rimasta tale e quale. Poi il cancelletto scattò e vidi mio zio sulla porta.
Scese le scale e mi raggiunse.
"Ciao Leslie."
Sorrisi e piegai il capo.
"Ciao zio."
Ci abbracciamo, e mi sentii di nuovo a casa, catapultata nei lontani anni '90.
"Andiamo, vieni dentro."
Dopo una chiacchierata su come stava lui, sulla morte della zia, e sulla mia vita attuale, gli riferii che sarei andata a fare un giro del paese, ma che sarei ritornata in tempo per pranzo.
Così, dopo aver sistemato le valigie nella nostra vecchia cameretta, uscii per recarmi nel posto dove avevo, per la prima volta, conosciuto Marta.
Me ne stavo con le mani in tasca a scrutare il cortile oltre il cancello, i bambini giocare nell'ora della ricreazione. Era una delle poche cose a non essere cambiata.
Poi come un flashback, mi rividi giocare lì assieme a Marta.
"Noi saremo sempre amiche, e domani faremo un giuramento", disse la sua sottile voce.
Io le stavo di fronte. Sorrisi e l'abbracciai.
Una voce mi distolse dai miei pensieri, facendo svanire quel ricordo in un attimo.
Mi voltai e vidi venirmi in contro Susanna, una vecchia compagna delle elementari.
La salutai. Mi si affiancò e domandò: "Non ce la fai a dimenticare, vero?"
Io riportai lo sguardo sulla scuola, e dissi: "Non è facile. Dopo quindici anni, me la sogno ancora."
Lei annuì, e si mise a guardare l'edificio assieme a me.
"Sappiamo tutti quanto hai sofferto, Leslie."
Esitai un'istante. Poi dissi: "Me ne andai via per dimenticare tutto quello che di brutto avevo passato qui, ma la lontananza mi ha fatto scordare solo in parte."
"È così. Probabilmente non lo dimenticherai mai del tutto."
Distolsi lo sguardo dalla scuola, fissai la piazza e commentai: "Già..."
"Mi è dispiaciuto per tua zia... tuo zio mi ha detto che saresti venuta. Perché non ci hai avvertito?"
"Per cosa? Per fare una rimpatriata? No grazie."
"Hai ragione."
Vi fu una breve pausa. Poi mi chiese: "Sei andata a trovarlo?"
Mi voltai verso di lei.
"Di chi parli?"
"Di Gabriele."
Le feci capire che non avevo voglia di parlarne.
"Non volevo impicciarmi..." disse mettendo le mani avanti. "Solo che dopo che te ne sei andata, beh, ecco... tutti sapevamo che..."
Non finì la frase che la interruppi.
"Qua tutti sapevate tutto, vero? A quanto pare ero l'unica a non conoscere a fondo ciò che mi riguardava."
Susanna sembrò imbarazzata quando disse: "Scusami... non era mia intenzione..."
"Ok, finiamola qua", liquidai il discorso.
Lei annuì in segno di aver capito. Io ripresi a fissare la scuola. Stava andandosene quando si voltò e mi disse: "Lui lavora ancora al campo..."
Poi sparì nella nebbia.
Per il resto della mattinata avevo vagato un po' a piedi. Erano cambiate un sacco di cose, e vedendole provai un'incredibile nostalgia. Poi decisi di fare qualcosa che negli ultimi quindici anni mi era passata per la testa almeno un miliardo di volte, ma della quale non avevo mai avuto il coraggio.
Parcheggiai l'auto poco distante e raggiunsi il campo a piedi.
Guardai l'orologio da polso: era mezzogiorno e un quarto. Se gli orari non erano mutati, tra quindici minuti aveva la pausa per il pranzo.
Decisi di aspettarlo vicino a casa, sulle scale.
Alla mezza esatta sentii il rumore del motore del camioncino, e sorrisi nel ricordare la prima volta che l'avevo visto.
Poi udii sbattere le portiere e qualcuno rise.
Nel momento in cui scese, mi alzai in piedi.
Lui alzò la testa bassa, e il suo sguardo incrociò il mio.
"Ciao", riuscì solo a dire con un mezzo sorriso.
Lui ci credeva ancora meno di me.
"Ciao..."
"Lo so che è la tua ora di pausa, ma giuro che ti ruberò solo cinque minuti, ti dispiace?"
Un uomo gli diede una pacca sulla spalla e lo rassicurò: "Io comincio ad avviarmi."
Poi mi salutò e scomparve oltre la porta.
Gabriele era appena rientrato dalla mattinata di lavoro, e indossava un pantalone della tuta, una felpa nera, un paio di scarponi, e un casco che teneva fra le mani.
Eravamo l'uno di fronte all'altra, e ancora dopo tanti anni teneva il capo chino quando la situazione lo imbarazzava.
"Mi dispiace essere piombata all'improvviso..." dissi per spaccare il ghiaccio che c'era tra noi.
"Dispiace a me di essermi fatto trovare così... se avessi saputo che saresti venuta, io..."
Lui non era cambiato. Negli anni aveva mantenuto quella timidezza che in un uomo avevo sempre ritenuto preziosa; i capelli neri, la statura, tutto era rimasto al suo posto in lui. Certo i lineamenti erano più marcati, ma dentro sé, sembrava rimasto tale e quale.
"Non mi abbracci?" domandai ricacciando indietro le lacrime.
Lui deglutì, e dopo un istante mi venne in contro.
Ci abbracciammo, e in quell'abbraccio riconobbi la solitudine che ci aveva pervaso in tutti quegli anni in cui ero stata via.
Quando ci staccammo, proposi di andare a fare due passi, e lui fu d'accordo.
Mentre camminavamo, disse: "Ho saputo di tua zia, mi dispiace."
Io annuii.
Lui mi fissò senza smettere di camminare.
"Sei da sola?"
Io lo guardai interrogativo.
"La tua famiglia, intendo...", chiarì.
"Mi raggiungeranno per il rosario e il funerale, io sono salita prima."
"Come mai, se posso chiedertelo?"
Sospirai la fredda aria di quel mattino d'autunno, e risposi.
"Perché volevo fare un giro e starmene un po' per conto mio."
"È solo per questo che sei qui, vero?"
Sapevo che avrebbe voluto sentirsi dire che ero tornata anche per lui, e sapevo che avrei voluto rispondere di sì alla sua domanda, ma dopo la morte di Marta non ero stata capace di affezionarmi a nessuno, ero terribilmente incapace nel dimostrare quel sentimento chiamato amore. Così risposi semplicemente: "Sì, dopo il funerale riparto per la Liguria."
Lui annuì a testa bassa ed io mi sentii morire dentro.
"Lavori?" mi chiese.
"Sì, alle poste del paese. Tu invece hai continuato al campo..."
"Sì, qualche anno fa mio nonno è mancato, ed io ho continuato il suo lavoro con l'uomo che hai visto prima, è un mio socio."
"Sono felice che tu stia bene."
Poi diede un'occhiata all'orologio e disse: "Ora è meglio che vada, se no finisce che rientro tardi..."
"Allora ci vediamo in giro."
Lui annuì. "Sì, ci vediamo in giro..."
Rimanemmo un ultimo istante a guardarci. Poi lui cambiò direzione e si diresse verso casa sua. Socchiusi gli occhi e sospirai: quella paura non mi avrebbe abbandonata tanto facilmente.
Guardai l'orario e pensai a zio intento a preparare il pranzo. Poi m'incamminai verso l'auto per raggiungere casa.
Avevo chiesto a zio notizie dei genitori di Marta, e mi aveva riferito che un anno dopo la morte della figlia, si erano trasferiti in Emilia - Romagna dai genitori di lei.
Erano le tre dello stesso pomeriggio quando rimasi dentro l'auto a fissare la sua vecchia casa. Quante volte mia mamma mi ci aveva portato, a quanti giochi avevamo giocato, e quanti compiti avevamo eseguito insieme.
Perché era morta? Chi era il suo assassino?
Stavo pensandoci sopra quando qualcuno mi bussò al vetro.
Lo fissai interrogativa: un uomo sulla sessantina con un cappello in testa mi stava sorridendo. Senza abbassare il finestrino, domandai: "Ci conosciamo?"
"Sono io, Leslie. Sono il professor Tarbi."
Aggrottai la fronte. Poi scesi dall'auto.
"Professore?"
Lui sorrise e disse: "Sono io."
Ci stringemmo la mano, e scossi il capo.
"È passato molto tempo, non l'avevo riconosciuta."
"Non si deve preoccupare, e mi scusi se l'ho spaventata, ma sapevo che era tornata in paese e volevo salutarla. Suo zio mi ha detto che con molta probabilità l'avrei trovata qua."
Io annuii, e feci cenno col capo verso casa di Marta.
"Sì, sono venuta a fare due passi... e poi l'auto mi ha portata qui."
Ora toccò a lui annuire.
"Capisco... le era molto affezionata, lo sappiamo. Quando è partita, tutti abbiamo compreso la sua scelta."
Cercai di prendere fiato quando dissi: "Se non le dispiace vorrei evitare di parlare di questa storia."
"Ah, ma certo, certo. So che è tornata per sua zia, condoglianze."
"Grazie."
Tarbi agitò le mani.
"Mi scusi se l'ho importunata, non volevo. Ben tornata, e ancora condoglianze", disse allontanandosi.
Una volta lasciato il Piemonte mi ero costruita una corazza per proteggermi da tutti e tutto, e spesso mi faceva reagire male anche quando le intenzioni dell'altro erano innocue.
"Professore?" lo richiamai.
Lui si voltò e attese.
"La ringrazio davvero."
Lui annuì. Aveva capito. Poi si allontanò e io risalii in auto. Accesi e tornai a casa.
Dopo cena, mio zio decise di ritirarsi nella sua stanza, e io nella mia. Mi faceva un effetto stranissimo stare lì dentro. Sorrisi nel vedere vecchie foto, e oggetti costruiti dalla mente creativa di mia sorella minore.
Squillò il cellulare, lo recuperai e fissai il display. Mio fratello.
"Ehi sorellina, dove sei?"
"Io sono già a casa."
Lui esitò.
"Casa, casa?"
Mi venne da sorridere.
"Casa, casa. Casa nostra. Ora sono in camera..."
"Chissà quanti ricordi..."
Sospirai. "E ' così... è incredibile quanto tempo ci metti a scordare, ma quanto poco ti basti per ricordare di nuovo tutto."
"Già..."
Terminai la chiamata dopo avermi riferito che sarebbe partito, insieme a nostra sorella, tra due giorni.
Andai a lavarmi e mi misi sotto le coperte. Per l'occasione zio aveva lavato le lenzuola e ora profumavano di sapone di Marsiglia.
Non riuscii a prendere sonno con immediatezza, ma nell'istante in cui stavo per chiudere gli occhi, udii dei lamenti provenire dalla stanza di fianco alla mia.
Rimasi in ascolto finché non li risentii. Erano bassi e soffocati, ma la casa era grande, e quando era avvolta nel silenzio, il minimo rumore faceva eco.
Era zio che piangeva: non lo dava particolarmente a vedere, ma la notte gli serviva per piangere ciò che nascondeva alla luce del giorno.
Arricciai il mento nel vano tentativo di non piangere. Non credo volesse essere visto mentre piangeva, così mi misi su un lato e cercai di addormentarmi per non dover sentire quei lamenti lancinanti.
Sognai Marta che mi sorrideva. Non appena fissò dietro di me, divenne seria. Mi voltai per cercare di capire, ma non feci in tempo che qualcuno mi afferrò per il collo e mi spinse contro qualcosa. In quel momento sentii solo la voce di Marta che gridava: "Il diario, il diario segreto è alla cascina!"
Mi svegliai di soprassalto, respirai con affanno, e fui costretta di nuovo ad elencare chi ero, cosa facevo e dov'ero per assicurarmi di essere alla realtà.
Mi toccai il collo e tossii. Qualcosa di oscuro si celava nel passato della mia migliore amica, ora lo sapevo.
123456
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0