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Quindici anni dopo - PARTE SECONDA E ULTIMA -
La mattina seguente mi alzai verso le sette. Mi infilai un maglione e un pantalone della tuta. Zio doveva essere già sveglio. Andai in cucina e mi bloccai sulla porta. Mi appoggiai allo stipite e sorrisi mentre lo guardavo preparare con cura la colazione.
Lui si voltò e mi sorrise a sua volta.
"Se la memoria non m'inganna, latte e caffè, zucchero, torta semplice e biscotti."
Io annuii, mi portai una mano chiusa a pugno sulla bocca, e risi.
Andai a dargli un bacetto sulla guancia e presi posto.
"Non c'era bisogno che facessi da solo, ti avrei dato una mano..."
"Mi fa pacere, e poi non sono riuscito a dormire. Mi sono alzato presto..."
Io annuii, e cominciai ad inzuppare nel latte, prima una fetta di torta e poi i biscotti.
Lui mangiava in silenzio, ma non riuscii a trattenermi dal chiedergli: "Zio?"
"Sì?"
Poteva essere un semplice sogno quello che avevo fatto la notte, ma forse poteva essere qualcosa di più. Valeva la pena scoprirlo.
"La vecchia cascina, quella dove io e Marta andavamo a giocare, è sempre lì?"
"Sì, sempre lì, abbandonata e più malandata di prima. Perché?"
"Perché voglio andare a controllare una cosa."
"Non metterti nei guai, me lo prometti?"
Io annuii. "Sì, te lo prometto."
Un'ora dopo stavo già dirigendomi verso la radura. Parcheggiai sulla stradina e scesi a piedi.
Dopo una buona mezz'ora di cammino, fissai dal basso la strada in alto.
Dal fondo della gola vedevo bene le strade tortuose che portavano al paese vicino, e qualche auto percorrerle.
M'incamminai ancora di qualche metro finché, tra gli alberi, scorsi il tetto malandato della cascina segreta.
M'inoltrai nel bosco ed infine entrai.
Dentro c'era puzza di umido, e il pavimento era frastagliato. Ricordavo bene dove nascondevamo il diario segreto. Avevo voluto lasciarlo lì in ricordo della nostra amicizia. Credevo di essere stata io l'ultima ad utilizzarlo e ad annotarci sopra l'ultimo "segreto": forse mi ero sbagliata.
Salii al primo piano, e mi diressi a sinistra: entrai in una stanza gigante e mi chinai sul pavimento, proprio nell'angolo.
Levai di mezzo un vecchio mobile e vi cercai all'interno del buco del muro.
Infilai l'intero braccio e tastai qualcosa: il diario.
Lo tirai fuori e rimasi a terra mentre lo sfogliavo. Le pagine e la copertina erano sgualcite dall'umidità, ma ciò che vi era scritto era leggibile, se non tutto, almeno in parte. Andai all'ultimo foglio scritto: non era la mia scrittura, ma di Marta. Allora era vero, dentro se portava un segreto che non aveva detto, o che non era riuscita a dire neanche a me.
Lessi:
14 febbraio 1996 → qualche giorno fa mi ha detto che non vuole più vedermi perché è troppo pericoloso. Io non sono d'accordo, mi sono innamorata e non può trattarmi come una qualsiasi delle sue donne. Siamo stati insieme almeno cinque volte. Non l'ho detto a nessuno, solo al nostro diario segreto, neanche a Leslie l'ho detto, ma voglio che lei lo sappia, e che lo sappia anche la mamma perché parli con il consiglio scolastico, perché non merita di stare dove sta. Non è una ripicca, ma per poco non restavo incinta e il professor Tarbi deve smetterla di invaghirsi delle ragazzine sue alunne, e poi mollarle come se nulla fosse successo.
Quelle parole fecero eco nella mia testa. Sentii le vampate di calore invadermi il corpo, e i brividi lungo la cute.
"Allora era quello..."
Mi voltai di scatto e strinsi il diario al petto, come se potesse proteggermi.
Dinanzi a me c'era il professor Tarbi, con uno strano ghigno sul viso.
"Mi sono sempre chiesto dove potesse essere quel fottuto diario che tenete voi ragazzine... Ho dovuto aspettare quindici anni perché ti rifacessi viva, e quello è l'unica prova che può collegarmi alla morte della tua amichetta."
Sentii la rabbia bollirmi in corpo. Lo fissai schifata.
"Così l'ha uccisa lei... quel giorno è entrato in casa sua, e l'ha uccisa."
Lui allargò le braccia.
"Ebbene sì."
"L'ha uccisa perché voleva denunciarla, perché è un pervertito di merda che s'invaghisce delle sue alunne e poi se le porta a letto... "
Tarbi sorrise.
"Oh... è così che ha scritto Marta?"
"No, è così che dico io."
Lui avanzò a piccoli passi.
"Dammi quel diario, immediatamente."
Ero talmente piena d'ira che non sentivo paura, o quasi.
"Se no cosa fai, uccidi anche me?"
Lui divenne rigido.
"Sono un tuo professore, non azzardarti a darmi del tu, puttanella!"
Io sorrisi di scherno, mi sporsi in avanti, e chiesi scandendo per bene l'insulto finale: "Altrimenti? Coglione?"
Mi si fiondò addosso, ma io lo scansai e corsi giù per le scale.
"DAMMI QUEL DIARIO, È UN ORDINE!"
"Io non prendo ordini, fottiti merda!" gridai mentre correvo.
Sentivo il suo respiro affannato e i tacchi battere sul pavimento di legno mentre mi rincorreva.
Aveva sbarrato la porta.
"Merda!" commentai smuovendola.
Mi osservai intorno e andai a nascondermi in una stanza del piano di sotto. Non c'era molta luce all'interno, ma abbastanza da capire che mi trovavo nella stanza degli attrezzi.
Recuperai così una pala e rimasi in attesa.
Stava scendendo le scale mentre diceva: "Con la porta sbarrata è difficile uscire, non sei stata in grado di aprirla, non è così troietta?", fece una breve pausa. "Vedi... le donne sono buone solo per una cosa, e la tua amichetta Marta non faceva eccezione..."
Io rimasi in ascolto.
"Tanto ti trovo... e quando ti prendo ti ammazzo e ti faccio in tanti pezzettini..."
Mi scivolò una lacrima, ma lo odiavo così fortemente che in quel momento il mio unico obbiettivo era uscire viva di là.
"Devo supporre che tu voglia una fetta della torta, Leslie? Cos'è, sei gelosa perché avevo scelto Marta e non te? La verità è che tu eri anche più bella di lei, ma non ci saresti mai stata... la tua amichetta invece..."
Poi rise.
Io deglutii. Aspettai che lui oltrepassasse la stanza per uscire allo scoperto e prenderlo alle spalle.
"Mi sottovaluti..." esordii centrandolo con la pala in pieno capo e schiena.
Tarbi cadde a terra come un sacco di patate.
"Questo è per Marta!"
Tentò di rialzarsi, e io lo colpii nuovamente sul viso, facendogli uscire il sangue come un barattolo di vernice rossa che cade rompendosi.
"... e questo è perché le donne sono buone solo per una cosa!"
Mi fissò un'ultima volta, poi svenne. Mi diressi verso l'uscita e con la pala spaccai il lucchetto che la teneva chiusa. Recuperai il cellulare della tasca e chiamai mio zio, dicendogli di avvertire la polizia. Infine mi venne da piangere, e lo feci.
Poco dopo, la polizia, mo zio e quasi tutto il paese, accerchiava la cascina.
Ora che la voce si era sparsa, i pettegoli dovevano avere un posto in prima fila.
Dopo aver consegnato loro il diario come prova, e avermi interrogato sul posto, la polizia disse che mi sarei dovuta ripresentare in commissariato per un'ulteriore deposizione, ma che per il momento potevo tornare a casa. L'ambulanza era parcheggiata lì davanti mentre i paramedici vi stavano trasportando Tarbi per condurlo in ospedale.
Lo fissai schifata: la maschera dell'ossigeno, il lettino, i paramedici, qualcuno che gli avrebbe salvato la vita. A Marta non gliene aveva data la possibilità. L'unica cosa era che avrebbe avuto un processo, e sarebbe stato incriminato. Avrebbe pagato ciò che aveva fatto.
Mio zio mi cinse le spalle e disse: "Andiamo via."
Dopo il rosario e il funerale di zia, avevamo deciso di riprendere in mano le nostre vite, tornando da dove avevamo interrotto.
Mio fratello e mia sorella tornarono in Sicilia, e i nostri genitori sarebbero ripartiti con me per la Liguria. Avevo concordato con la polizia che fossi io per prima a chiamare i genitori di Marta per riferirgli di Tarbi, e mi era stato concesso.
Li avevo chiamati e gli avevo spiegato tutta la storia. Non li avevamo restituito la figlia, ma giustizia, una volta tanto, era stata fatta. Inoltre promisi che sarei andata a trovarli.
Adesso la notte, quando la sognavo, non era più spaventata, o in un lago di sangue. Era un po' come se entrambe potessimo finalmente "riposare" in pace.
Per quanto riguardava Gabriele era dal giorno del funerale che non lo vedevo. Era rimasto lontano, e si era avvicinato solo per porgerci le sue più sentite condoglianze.
C'era ancora una cosa però, qualcosa che forse proprio Marta mi aveva insegnato.
Raggiunsi casa di Gabriele, e chiesi di lui al suo socio.
"È andato via."
"Come via?"
"Ha lasciato il lavoro."
"E per quale motivo?" domandai spiazzata.
L'uomo alzò un sopracciglio, e recuperò un foglio dalla scrivania.
"Mi ha detto di darti questo, se mai fossi tornata a cercarlo, ma non credo ci contasse molto..."
Non ascoltai le sue ultime parole, ero troppo intenta a leggere ciò che mi aveva scritto.
<<È troppo difficile perderti di nuovo. Gabriele.>>
Alzai lo sguardo e fissai il collega. "Se n'è andato!"
"Temo di sì."
"Eh no, non adesso che mi sono decisa!"
L'uomo non rispose.
"Dov'è andato?" gli domandai.
"Alle undici ha il treno diretto per Roma, stazione di Porta Nuova. Io non ti ho detto niente."
Guardai l'orologio: erano le dieci meno un quarto. Lo ringraziai e cominciai a correre in direzione dell'auto. Montai sopra, girai la chiavetta e partii. Quella mattina a remare contro si era messa anche la pioggia.
Impiegai una buona mezz'ora a raggiungere la stazione. Parcheggiai l'auto consapevole che sarei tornata, o senza più trovare l'auto o trovandola con una multa.
Corsi nuovamente e mi diressi al tabellone degli orari.
Il suo treno partiva dal binario 5, alle ore undici. Fissai l'orologio: erano le undici meno un quarto.
Quel quindici era sempre di mezzo. La pioggia scivolava sui miei abiti e m'inzuppai i capelli, ma in quel momento era la cosa che meno m'importava.
Corsi nuovamente per raggiungere il binario numero 5, mentre cercavo di scansare le persone e i rispettivi bagagli.
Finalmente arrivai al binario interessato, ma Gabriele non c'era. Diedi un'occhiata all'orologio della stazione: mancavano dieci minuti alle undici. Possibile fosse già partito? I treni sono sempre in ritardo, e proprio quello di Gabriele doveva essere puntuale?
Rigirai più volte su me stessa attirando gli sguardi della gente. Me ne stavo in piedi, fradicia, continuando a cercarlo con lo sguardo, quando finalmente lo vidi. Se ne stava in piedi, con le valigie ai lati, dall'altra parte del binario. Forse mi stava aspettando, forse no.
Restammo immobili, entrambi sotto la pioggia e senza ombrello, col via vai che ci passava davanti. Ci fissammo per qualche secondo. Poi ci sorridemmo, e fu quando mi sorrise che capii che la paura che mi aveva accompagnato per tanti anni, ora non c'era più.
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