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Il cavaliere e il fuoco
Trentaduesimo capitolo
"Il giorno declinava.
Sullo sfondo tenue del tramonto Edward, immagine stagliata contro il sole morente, galoppava senza sosta. Incerto sul dal farsi, alla ricerca sfrenata del coraggio per portare a termine il suo ingrato compito. Non vi era più nessuno a confortarlo, sussurrando sagge parole alle sue orecchie, specie ora che anche Margaret lo aveva lasciato. Lei di certo non avrebbe approvato, ma sarebbe stata in grado di trovare la migliore soluzione per uscirne.
Edward dopotutto non aveva nulla da perdere, eccetto l'onore che, purtroppo, deteneva un posto troppo alto fra i suoi principi.
Gli risuonavano ancora in mente le parole di Karl, colui che un tempo aveva definito grande amico: "Non voglio passi falsi; c'è in gioco la tua vita!"
Cessò di riflettere e prese una decisione; ne approfittò, per evitare che la risolutezza appena nata in lui non si dileguasse col tempo sprecato.
Di scatto voltò il cavallo nella direzione opposta, dirigendosi verso l'antica rimessa di casa Dyser. L'edificio, ancora in buono stato, era disabitato da anni. Il vento scuoteva gli alberi le cui ombre si allungavano fino a mescolarsi con le pareti della vecchia casa.
Edward smontò di sella; annusò l'aria come a verificare la presenza del pericolo: era necessario che non vi fosse nessuno, eccetto naturalmente... Non gli andava di pensarci; avrebbe compiuto quel gesto con assoluto distacco, senza pensarci, evitando l'insorgere di ripensamenti o rimorsi, con la consapevolezza di chi è vittima di un ricatto e conosce l'unico modo per venirne fuori pulito.
Con estrema cautela si avvicinò al portone di legno, consumato dalla poggia. Ne afferrò la maniglia e spinse. Non vi fu cigolio; qualcuno aveva da poco oliato i cardini, situazione quanto mai inaspettata per un posto deserto come quello.
Silenzioso varcò l'uscio, consapevole di cosa lo attendeva, fremente e tuttavia composto, impassibile a dispetto delle emozioni che lo scuotevano. Guardandosi attorno socchiuse appena gli occhi per mettere a fuoco qualsiasi particolare nascosto fra le balle di fieno e i mucchi di legname accatastati.
L'altro lo sapeva! Sapeva benissimo che un giorno sarebbero venuti a cercarlo, e non avrebbe dato loro la soddisfazione di farsi trovare impreparato.
Edward strinse con forza l'arma che teneva in tasca, quasi a cercare in quel gesto l'ardire di un attimo prima, in procinto di dissolversi. In quello stesso istante uno scintillio balenò innanzi ai suoi occhi ed un cupo rimbombo empì di echi l'enorme spazio vuoto della rimessa."
Ed ora?
Era l'ultimo capitolo!
Non riesco a scorgerne la fine.
Sono anni che verso in queste condizioni ed è umiliante al punto da esasperarmi. Osservo i volumi riposti in ordine perfetto sugli scaffali, accuratamente rilegati, con una copertina e un titolo tutto loro, e attendo il giorno in cui anch'io potrò godere di un simile privilegio. Avrei in effetti tutte le carte in regola per permettermelo: una trama, dei personaggi, una serie di avvenimenti entusiasmanti, descrizioni a bizzeffe.
Eppure, com'è ingiusto... Mi manca quella cosa, quell'unica parolina che possa fare di me un romanzo. Così conciato non posso essere definito neppure "racconto".
Jim mi iniziò ben sette anni fa.
Passò in piedi notti intere per portare a compimento il primo capitolo; fu un'impresa quanto mai ardua, essendo costantemente insoddisfatto del suo lavoro
Riesco a ricordare ancora la prima frase: "Il sole splendeva alto sulla tenuta dei Baxter; ma in fondo al cuore di Margaret albergava il buio." Conservò questa forma per un giorno soltanto. Jim tornò sui suoi passi centinaia di volte, cancellando, riscrivendo, spostando parole, frasi, interi brani, fermandosi solo se la narrazione assumeva l'aspetto da lui agognato, tale da appagarlo. Fu una tortura; mai come allora, agli albori della mia creazione, mi sentii vuoto, privo di identificazione. Sostavo tra l'incertezza di esistere e la paura di venire stracciato, come successe ad altri prima di me. Eppure, in capo a due settimane, il primo capitolo fu pronto.
Avevo infine un volto.
Jim era lieto e soddisfatto la mattina in cui sedette alla macchina da scrivere e pronunciò tali parole: "Ed ora il secondo!"
Prese a digitare velocemente, con scioltezza, senza segni di turbamento, e per ben due ore andò avanti; eccitato e fiero, prendevo lentamente forma sotto i suoi occhi compiaciuti.
O così credevo.
Improvvisamente lui impazzì: si fermò per qualche istante; rilesse, e, come in preda a un raptus... schiacciò un tasto, cancellando senza controllo ogni parola.
Il foglio era nero; incomprensibile; da buttare via. L'intero secondo capitolo, quasi terminato, era stato fatto a pezzi da un solo tasto, da un solo folle dito.
Non compresi il senso, se mai lo ebbe, di quel gesto. Non credevo che il capitolo fosse scritto male al punto da non poter fare nulla per sistemarlo. Non posso togliermi dalla testa l'idea che si sia trattato di un moto di follia e nulla più!
In seguito mi ripose in un cassetto, e lì fui dimenticato; non si riaccostò più a me. Ventiquattro fogli di narrazione incompleta lasciati ad intristire al buio, costretti a rileggersi fino alla noia.
Eppure non avvertivo ancora il senso di smarrimento che ora mi sovrasta. Ero solo un capitolo; non possedevo una vera identità, un sapore che mi rendesse interessante. Ero più che altro descrittivo e non avrei sofferto troppo pur non essendo mai stato letto.
Ricordo come fosse ieri il momento esatto in cui, dopo un intervallo di due mesi durante il quale non si avvicinò una sola volta alla macchina da scrivere, mi tirò fuori, sedette al tavolino e prese a pestare le dita sui tasti. Come se avesse firmato un patto con se stesso: "Due mesi di pausa e poi, in quel preciso giorno, in quel preciso momento, riprenderò a scrivere!".
Sembrava aver già in mente ogni parola. Le sue dita scivolavano leggere ma sicure.
Poi si fermò. Temetti ancora una volta che avesse cattive intenzioni. Strinsi gli occhi per non vedere il suo micidiale polpastrello pronto a colpire.
Ma non accadde; quella volta si alzò semplicemente dalla sedia e andò via.
Attesi tutta la notte che tornasse, e solo il mattino dopo lo rividi. Sorseggiava qualcosa da una tazza gialla e sedette, riprendendo il moto nevrotico delle mani sui tasti. Il ticchettio si fece assiduo, con poche pause. Del tutto immerso nel suo ritmo, inconsapevole dello scorrere del tempo, entusiasta, non si accorgeva di quanto il mio corpo si facesse voluminoso; acquistando consistenza, mi accorsi anche di quanto mutassi nel carattere. Sempre più preciso sebbene vario, sempre più chiaro ed esigente. Apparivo forte e non avrei permesso che mi si cancellasse un'altra volta. Specie ora: desideravo farmi conoscere, essere letto. Desideravo far conoscere Margaret, la fanciulla dal cuore d'oro, prodiga di saggi consigli così come capace di tramutarsi in serpe se ferita nell'orgoglio; Edward, semplice, solare cavaliere pronto a tutto pur di fare del bene e spinto all'estremo suo malgrado; Karl, suo interessato quanto spietato amico; la signora Baxter, tenera e svagata vecchietta cui tanto mi sono affezionato, con quel suo modo di fare tutto biscotti e marmellate; Brichter, il dispotico proprietario di casa Dyser, spodestato, solo, reso insensibile dai fallimenti; infine sua moglie, M. me Cleury. La detesto: una vecchiaccia perfida e perversa; viene dalla Normandia, e disprezza chiunque non sia se stessa o suo figlio. Sembra avercela a morte con la povera Margaret; così come Margaret ce l'ha a morte con Karl, Karl col signor Brichter, Brichter con Edward, Edward con Jerome, il cocciuto figlio di M. me Cleury. Nessuno ce l'ha a morte con la signora Baxter: sarebbe inconcepibile.
Soprattutto desideravo giungere alla fine, possedere una conclusione tutta mia. E sempre più ambivo a far la fine dei molti altri ammassi di foglie che Jim aveva accatastato in altri tempi sul tavolino, e che erano tornati indietro dotati di una bella copertina con un titolo grosso così e pagine stampate. Sognavo di prendere posto accanto ai fratelli che in cima alla libreria mi attendevano, speranzosi.
Quel che mi mancava in secondo luogo era un titolo, necessario perché acquistassi uno spirito, un nome, un'esistenza autonoma, per essere riconosciuto. Un titolo e l'immancabile conclusione.
Adagio prendevo forma, quasi pronto ad accogliere fra le mie righe la sospirata parolina FINE, che non arrivava mai, né era tempo che arrivasse. Infine, dopo circa sei mesi di battitura incessante, giunse il giorno per me più atteso.
Jim sedette e batté sui tasti a formare questa frase: "Trentaduesimo capitolo".
"È l'ultimo!" affermò; all'udirlo, se lo avessi avuto, mi sarebbe balzato il cuore in gola. Mi sentii come se fosse così; avrei pianto dall'emozione.
Prese a scrivere. Andò avanti per poco, forse trenta minuti. Tornò indietro un paio di volte; rilesse, corresse, aggiunse, variò, si fermò.
Si fermò; e non riprese. Tutto fa credere che avesse terminato; io stesso lì per lì ne fui convinto; realizzai un attimo dopo: non vedevo la fatidica parolina! Avvertii un forte senso di straniamento.
Che significato dare a quel gesto? Chi ero? Cosa ci facevo lì, con il mio ultimo capitolo a metà e senza un FINE alla fine?
Per due giorni mi lasciò lì, in attesa di essere completato. Infine si avvicinò, mi rimise nel cassetto e da sette anni sono qui, in attesa della conclusione in cui non spero più.
Durante questi anni ho udito ogni giorno battere sulla macchina da scrivere, ma mai per me. Ho finito per convincermi di esser stato dimenticato; o forse, semplicemente, Jim non è riuscito ad elaborare un epilogo che lo appagasse.
Ed io ho atteso: devo sapere se Edward cederà ai ricatti di Karl; devo sapere se verrà fuori dagli intrighi in cui s'è cacciato e chiederà la mano di Margaret; devo sapere se Karl ripagherà un giorno le sue malefatte; se la signora Baxter si riprenderà da ciò cui ha dovuto assistere; se Brichter rimetterà la testa a posto al suo Jerome, e molte altre cose ancora.
Ma nulla mi lascia sperare che ciò avverrà: Jim sarebbe stato abilissimo ad elaborare un finale spettacolare, specie in sette anni; dubito che ci abbia messo l'impegno. Avrei potuto essere uno dei quei romanzi di successo; una di quelle storie entusiasmanti da leggere tutte d'un fiato e invece...
Quale più cocente umiliazione per un racconto che quella di esser lasciato a languire al buio, senza nessuno che lo legga dando un senso alla sua esistenza?
***
Ho deciso, in seguito a mesi e mesi di riflessioni, di ultimare questa storia per conto mio. Mi prenderò con la forza ciò di cui Jim mi ha privato; inventerò una conclusione, troverò un senso che giustifichi i sei mesi passati dietro un racconto che avrebbe dovuto restare incompiuto; che giustifichi sette anni di abbandono e di silenzio.
Creerò un finale degno di Jim, perfino migliore dei suoi, e di me!
"Edward si voltò.
Avvertiva un forte calore alle spalle e per un attimo temette che il suo nemico fosse fuggito, appiccando il fuoco alla rimessa, senza lasciargli via di scampo. Aprì presto gli occhi sulla realtà: un mucchio di fieno sprigionava alte fiammate; al suo fianco una figura giaceva supina, immobile.
Fu spaventoso; Edward non poté farne a meno: corse a perdifiato, la mente vuota, verso il fuoco; respirando a fatica si chinò ad esaminare il corpo, trasalì nel riconoscerlo. Un brivido lo percorse, i sensi infiammati, incredulo, disgustato: tradimento! Si trattava proprio di lui, Brichter.
Il giovane lo sollevò a fatica, prendendo in fretta la decisione di metterlo in salvo.
A quanto pareva era stato ingannato; ci era cascato come uno sciocco, fidandosi per l'ennesima volta! Avrebbe rimediato a tutto questo. "La consapevolezza è un ottimo inizio!" pensò: aveva scoperto il sotterfugio in tempo per non restarne vittima, e insieme per vendicarsene. La sorte gli aveva offerto una nuova possibilità, che non avrebbe sprecato. Avanzò, con l'intento di mettere in salvo la propria vita e quella di Brichter; ma attorno lo sgomento lo colse quasi subito: il fuoco andava propagandosi di balla in balla fino alle vicine cataste di legname e fu di colpo come se qualcuno avesse spalancato il vecchio portone della rimessa.
La luce del tramonto infuocato accecò i suoi occhi.
Non posso crederci! La luce!
Di colpo qualcuno apre il cassetto dal quale da anni non vengo fuori.
Mi tira fuori; la luce straripante mi sommerge, riflessa sul candore delle pagine percorse dalle parole, bui ruscelli in corsa.
Il fuoco era cresciuto a dismisura; sarebbe stato arduo per Edward venirne fuori, mentre, consumate le ultime pagliuzze di fieno, già le pareti prendevano ad annerirsi. Fiamme crepitavano ovunque precludendo ogni via d'uscita. Continuò ad avanzare, appeso all'ultimo filo di speranza, l'anziano uomo incosciente fra le braccia, affidato alla sua forza e al suo coraggio.
D'un tratto avvertì una spinta, come se da dietro si tentasse di giocargli un brutto scherzo, l'ennesimo.
Ora qualcuno mi stringe fra le mani e mi trasporta in un altro luogo. Mi sento un tantino anchilosato, sette anni di isolamento mi hanno inselvatichito. Comincio a interrogarmi su quale sia il senso di questa passeggiata, un barlume di ottimismo si riaccende in me: che sia giunto il sospirato giorno? Diverrò un romanzo o qualcosa di simile?
Avverto un spinta. Come d'incanto mi sembra di volare. Non sono stato poggiato su un tavolino, né scorgo macchine da scrivere al mio fianco... Ho ricevuto una sorta di slancio ed ora mi libro in volo, fino ad accostarmi alla fonte di luce che di colpo mi si para innanzi. Non mi piace; già prossimo realizzo fino a che punto lo strano forte calore prima appena percettibile vada aumentando a dismisura...
Non odo il ticchettio delle dita sui tasti, eppure un suono simile a quello si sparge, empiendo l'aria...
Edward non ebbe il tempo di pensare, le fiamme lo avvolsero in un attimo, il più breve della sua vita; era finito a terra e già prendeva ad ardere, incapace di reagire.. Il senso di vendetta, di rivincita, di ribellione aveva colmato il suo animo per pochi istanti soltanto. Per la prima volta l'orgoglio di sempre veniva meno; il cavaliere era pronto a soccombere innanzi al fuoco e all'odio di colui che lo aveva tradito.
Il fumo andava crescendo, abbattendosi sul suo petto, soffocandolo. Brichter aveva aperto gli occhi per l'ultima volta, pronto a richiuderli un attimo dopo, questa volta per sempre, avvolto dalle fiamme.
Edward prese atto di quanto fosse stato giocato per tutto quel tempo, durante gli ultimi anni di permanenza a casa Baxter; di quanto fosse stato vano il suo tentativo di mutare le cose. Si chiese perché; cosa gli avesse meritato una simile punizione.
Non scorse ragioni.
Chiuse gli occhi, assaporando il fascino del fuoco che lasciava evaporare le sue lacrime."
Ed io come lui ne prendo atto: sono stato giocato; ho passato sette anni chiuso in quel cassetto; ho tentato invano di creare un finale.
Eccomi qui: perfino un ammasso di fogli come me può riconoscere fin dalla prima scintilla il crepitar del fuoco, così simile al battere delle dita sulla tastiera; così differente per natura. Riconoscerlo e soffrire. Soffro fin nella più piccola fibra di ogni mia pagina, interrogandomi sul perché, chiedendomi cosa mai abbia potuto commettere di talmente sbagliato da non meritare un posto fra gli altri sullo scaffale, da meritare tale indegna fine.
Non scorgo ragione...
Già le fiamme sfrigolano, pregustandomi.
Già prendo a dissolvermi, e con me Margaret, Karl, la povera nonna Baxter e tutti gli altri..
Assaporo il fascino del fuoco che lascia evaporare le mie scure lacrime.
(tratta da "Storie di Oggetti Inanimati"
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