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Angeli dall'Inferno
Prologo
Davanti a me le fiamme.
Lingue di fuoco ardenti, avanzavano golose di disperazione disegnando un perfetto cerchio mortale. Sembravano godere di quell'infinito buio in cui ero tragicamente sprofondata.
Già...
Dove mi trovavo?
Scattai in piedi, improvvisamente cosciente di essere sola. Avevo caldo, mi sembrava di bruciare e potevo già sentire il calore delle lingue di fuoco impadronirsi della mia pelle, scottarla, distruggermi gli abiti...
"C'è nessuno?" urlai disperata, ma la mia voce giunse strana persino alle mie orecchie. Ovattata, distante, troppo indistinta per essere reale.
Attesi una risposta per qualche minuto, ma l'unico rumore che sentii fu lo scoppiettare inesorabile delle fiamme, ora così vicine che potevo distinguere sulla parete fiocamente illuminata le loro ombre danzanti.
Arretrai al loro avanzare, abbracciando la stanza con lo sguardo per cercare con gli occhi una possibile via di fuga. Con il dorso della mano allontanai le gocce di sudore dal viso, ormai grondante. Stavo letteralmente impazzendo dal caldo.
"Aiuto..." mormorai. Ma a chi stavo chiedendo aiuto? Non c'era nessuno che potesse aiutarmi.
Continuai a camminare all'indietro, ma la ventata di calore che mi scottò la schiena mi informò di essere completamente circondata dalle fiamme.
Sarei morta, dunque?
Rabbrividii involontariamente, al pensiero di quanto dovesse essere terribile essere divorata viva dalle fiamme brucianti...
Terribili, il loro progredire scandiva gli ultimi minuti di vita che mi restavano. Erano sempre più vicine ed ora eccole, a pochi centimetri da me.
Chiusi gli occhi, pronta a lasciarmi uccidere, ma il tempo passò senza che accadesse nulla. Li riaprii, piano, e ciò che vidi mi lasciò interdetta.
C'era una figura al centro della stanza. Irradiava una strana luce argentea che la inglobava, impedendomi di vederla per davvero. Mi aveva salvata e, chiunque fosse, le dovevo più di un semplice ringraziamento. Non riuscii ad avvicinarmi a lei, qualcosa mi suggeriva che era pericolosa.
Mentre tutto spariva lentamente, giurai a me stessa di aver scorto tra quella patina argentea l'ombra di un seducente sorriso.
1
Haziel
Presumo che molti esseri umani non comprendano pienamente la parola sopravvivere.
La loro vita è scandita dalla più completa tranquillità, colma dei ritmi della routine, e li rende assolutamente incapaci di osservare il mondo che li circonda, troppo presi dalle loro sciocche occupazioni.
A volte penso che sì, in fondo potrei capirli, e quando, con passo felpato e il capo chino, mi trovo tra loro, pecora nera in un gregge dal manto candido, mi sento come un albero.
Sì, un albero maestoso e differente, seppur all'apparenza simile, dagli altri di un'intera foresta, eppure così fragile da essere spezzato dagli eventi che incombono su di lui e quando cade nessuno è in grado di sentire il tonfo che produce schiantandosi sul terreno, umido di rugiada, che ne addolcisce la misera caduta.
Ed ecco un'altra parola che gli esseri umani, alcuni, almeno, giudicano con disgusto, affermando l'uguaglianza dell'intero genere umano: diverso.
Io ero diverso.
Oh, lo ero, indiscutibilmente, anche tra i miei simili. Vivevo costantemente tra sguardi di rimprovero e ribrezzo, relegato in una posizione d'inferiorità.
Qual era, infine, il mio crimine? E chi erano coloro che io, erroneamente, consideravo i miei simili?
Quella che io ritengo la mia stirpe è tra le più pericolose che circolano indisturbate sulla superficie terreste. Loro vivono di disperazione, circolano nel buio, strisciano indisturbati tra gli esseri umani. Nessuno si accorge di loro, come potrebbero? Identici in ogni parte alle altre persone, se si eccettua la strabiliante bellezza, inumana e terribile, e la loro aura minacciosa che si propaga da loro come un'ombra di desolazione perenne. Sono capaci dei più atroci delitti senza provare il minimo senso di colpa. Non possiedono un'anima; e coloro che ne sono disgraziatamente dotati sono costretti a subire torture indescrivibili.
Sono chiamati gli angeli dell'inferno.
La loro effettiva bellezza può trarre in inganno. Molti umani, in punto di morte per mano loro, credono di trovarsi di fronte ad angeli stupendi, venuti a prenderli per trascinarli in un posto migliore, nel Paradiso in cui tutti sperano. Non sanno però, invece, di trovarsi dinnanzi alle creature più orrende che l'aldilà conosca. Sgusciati dalle insidie degli Inferi, sono giunti sulla Terra attirati dalla disperazione e della malvagità intrinseca in ogni luogo, il cui sapore si poteva gustare come un'attraente elisir nelle profondità dell'Acheronte.
E io...
Io, cosa avevo in comune con loro?
Ben poco, in realtà. Qualcosa che però mi condannava a restare appeso ad un filo, sospeso tra due realtà. Venivo considerato la feccia della stirpe, ero unico quanto disprezzato: nella stirpe degli angeli infernali non c'era mai stato un caso simile.
Io ero un mezzosangue.
Non potevo essere considerato umano, perché umano non ero, e non potevo essere pienamente un demone. Non ero nessuno dei due, ma tragicamente facevo parte della natura di entrambi. E questo mi condannava ad essere parecchi gradini più in basso degli altri della mia specie. A questo si aggiungeva il fatto che fossi molto giovane: avevo appena compiuto diciannove anni, mentre gli altri demoni avevano più di cento anni.
Loro, arrivati ad un certo punto della vita non invecchiavano.
Io sì.
Il disagio dentro di me era costante, anche il giorno in cui la mia vita cambiò radicalmente.
Quel giorno...
Non credo che potrò mai scordarlo.
Mi trovavo in camera mia, nello squallido stabile in cui ero costretto a vivere con il fratello di mio padre.
Stavo leggendo un saggio per l'indomani, un saggio su cui vertevano le lezioni, quando mio zio bussò alla porta della mia stanza talmente forte da rischiare di sfondarla.
"Esci fuori" tuonò, con poca cortesia.
Sospirai, e chiusi il mio libro, posandolo sul comodino con lentezza. Sapevo che la mia calma lo faceva innervosire ancora di più, perciò mi alzai con cautela e molta più svogliatezza di quanto avrei dovuto in realtà.
Osservai fuori dalla finestra, e il grigiore plumbeo e solido del cielo mi intristì ancora di più. La mia vita non era certo delle migliori, e non lo sarebbe stata neppure con il sole, ma questo tempo orrendo non faceva che farmi sprofondare ancora di più nel baratro nero in cui mi trovavo da quando ero nato.
Mio zio continuò a scuotere la porta con colpi violenti e decisi.
"Arrivo" sbuffai, e in meno di due minuti aprii la porta trovandomi il suo viso burbero davanti.
Sorressi il suo sguardo con strafottenza. "Cosa vuoi?"
Non correva buon sangue tra noi, era proprio il caso di dirlo; se mi aveva accolto era stato soltanto per ordine dell'Alfa della stirpe.
Accolto... ammesso che quella in cui vivevo potesse essere definita accoglienza...
"L'Alfa ha una missione importante da affidarti". Sul suo volto apparve uno spiacevole ghigno malevolo.
Sgranai gli occhi. L'Alfa affidava una missione a me? Non era nulla di buono.
"Perché proprio a me?" tutti sapevano che se non mi aveva fatto uccidere era perché confidava nella purezza del sangue di mio padre, un demone di alto rango. Detestavo pensare a mio padre, perciò cercai di concentrarmi sulle parole che mio zio stava per dire.
"Ti aspetta nella zona del richiamo. Non vorrai farlo aspettare ancora?" non mi sfuggì il tono canzonatorio in cui ogni parola era immersa.
Impallidii.
La zona del richiamo.
L'Alfa mi aveva chiamato al suo cospetto.
Cosa poteva volere il re degli angeli infernali da uno sporco mezzosangue come me?
Dafne.
Mi sembrava ancora di bruciare, quella mattina, quando aprii finalmente le palpebre.
Mi stupii persino, quando mi trovai sotto le coperte, con tanto di pigiama.
Non realizzai subito di essere in camera mia, dovetti abituarmi al candore pallido e insopportabile della luce fioca che penetrava dalle persiane abbassate.
Non sapevo che ore fossero né il giorno che il calendario segnava, eppure sapevo che era un giorno importante o quantomeno significativo per me.
Mi passai una mano sul viso e sui capelli, sbuffando sonoramente.
Ero ancora sconvolta. Che accidenti di sogni facevo la notte?
Rabbrividii, ora che ero sveglia mi pareva di ricordare il volto della figura nella bolla argentea.
Era un ragazzo davvero bellissimo, da quanto potevo ricordare.
Mi sedetti sul letto, piano, come se alzandomi velocemente i dettagli del mio sogno sarebbero svaniti.
Lo ricordavo vagamente. Con la memoria tracciai piano il disegno mentale di quel viso.
Era splendido. I suoi lineamenti regolari sarebbero potuti sembrare quelli di un bambino, dolci e perfetti. Il particolare che ricordavo con maggiore chiarezza era il suo sorriso: disegnato da labbra sottili quanto sensuali, era a metà tra un sorriso compassionevole ed uno malizioso.
Mi sforzai per ricordare gli occhi, ma non ci riuscii. Ricordavo solamente che non erano scuri.
Cosa significava?
Purtroppo per me, sapevo perfettamente che non era un sogno qualunque. Io non facevo mai sogni normali. Non ero una chiromante da quattro soldi, sia chiaro: semplicemente, i miei sogni erano particolari, e spesso si riflettevano nella realtà.
Quel ragazzo sarebbe entrato nella mia vita. E quest'ultima sarebbe cambiata inesorabilmente.
"Fantastico..." grugnii, infastidita. Proprio ciò di cui avevo bisogno per incasinare la mia vita già abbastanza problematica.
La sveglia trillò improvvisamente, destandomi dalle mie amare congetture.
L'afferrai, portandomela accanto al viso e gettai un'occhiata distratta all'ora e al giorno.
Erano le sette del ventiquattro novembre. Gettai un urlo.
Era il giorno del mio diciottesimo anno di età. Maggiorenne. Evviva.
Avrei quasi voluto mettermi a piangere, detestavo i compleanni, i regali (non che qualcuno si sarebbe disturbato a farmene, ma di questo ero contenta), gli auguri distratti e frettolosi. Ero allergica alle attenzioni in generale.
Scaraventai la sveglia sul comodino, provocando un fracasso assurdo, e scattai in piedi furiosa. Aprii l'anta dell'armadio afferrando le prime cose che mi capitarono a tiro e mi diressi nel bagno comunicante con la mia stanza. Con orrore mi osservai allo specchio, sperando di non trovare rughe o qualcosa del genere.
No, era tutto apposto.
Avevo lo stesso viso tondo di sempre, con le stesse lentiggini sullo sfondo di una pelle chiarissima, quasi trasparente. Le mie labbra, ora leggermente increspate per il fastidio, spiccavano per il loro naturale rossore tra tutto quel pallore, ed erano piccole e carnose.
Ai lati del mio piccolo naso proporzionato e più su degli zigomi erano incastonati i miei occhi color ambra. Erano forse l'unica cosa che le persone apprezzavano di me. Alcuni mi dicevano che erano molto belli, e io puntualmente arrossivo, farfugliando ringraziamenti confusi. Odiavo anche i complimenti.
Esalai l'ennesimo sospiro e afferrai una spazzola, cercando di districare gli innumerevoli nodi dei miei lunghissimi capelli color mogano.
Mi lavai e vestii molto velocemente, sapevo che mia sorellina si sarebbe svegliata di lì a poco.
Scesi di sotto trascinandomi dietro il mio zaino che posai sul divano e cominciai a preparare la colazione.
Mentre mescolavo il latte con i cereali immaginai come sarebbe dovuto essere avere una madre che si prendesse cura di me e mia sorellina Cristina.
Quasi ebbi un moto di rabbia nel pensare a ciò che quella donna aveva fatto a me e Cristina dopo la morte di mio padre.
Era molto tempo che non ripensavo più a lei, troppo occupata tra scuola, lavoro e mia sorella, e questa non poteva che essere una fortuna; di certo non la consideravo mia madre. Non avrei mai potuto, e i pochi soldi che mi mandava ogni mese non sarebbero mai bastati a porre rimedio al suo ignobile comportamento.
Il rumore dei passi sulle scale mi distrasse e posai le tazze sul tavolo, accompagnate dalla scatola di cereali.
"Buongiorno Dafne" mi salutò Cristina, trascinandosi, ancora assonnata, verso il tavolo, "Buon compleanno". Aggiunse, strofinandosi gli occhi.
Feci una smorfia. "Grazie" mormorai.
La osservai mentre gustava la colazione e per un attimo desiderai avere anche io dodici anni. Spostai il mio sguardo oltre la finestra e osservai un fulmine squarciare le tenebre in cui la mattina era avvolta. L'immagine delle fiamme baluginò per un attimo nella mia mente, e mi sembrò di scorgere di nuovo il viso del ragazzo con molta più chiarezza del sogno.
Il tuono proruppe con violenza, e quel forte rumore dissolse la mia attenzione da quelle immagini.
All'improvviso sentii molto freddo e capii che qualcosa di spiacevole stava per succedere.
O meglio, stava per succedere a me.
2
Haziel
La zona del richiamo.
Non avevo mai avuto l'onore di vederla con i miei occhi, ma sapevo da certe leggende metropolitane che chi vi era convocato molto spesso non faceva ritorno.
Strano che la convocazione dell'Alfa avesse riguardato proprio me, no? Pensai, con rinnovato sarcasmo.
Tuttavia, valutai, mentre camminavo nelle strade acquitrinose della città, l'Alfa mi avrebbe affidato una missione. E ciò non era da poco.
Anche se, però, non riuscii a capacitarmi del fatto che avesse scelto proprio me: dopotutto, i miei poteri erano nulla in confronto a quelli di certi altri demoni.
Infilai le mani nelle tasche del cappotto e svoltai l'angolo. I casermoni ai lati della strada stretta in cui mi trovavo erano alti e squallidi; la muffa li ricopriva quasi per intero, e c'era dappertutto una puzza di carogna tremenda.
Un posto davvero degno per i demoni. Feci una smorfia.
Continuai a camminare, ma mi resi conto che la strada era un vicolo cieco. Mi fermai, disorientato, osservando intensamente quel muro come se fosse potuto svanire solo guardandolo.
"Mi hanno preso in giro" sbottai, e sentii l'ira ribollirmi nelle vene, pronta ad esplodere.
Feci per girarmi sui tacchi ed andarmene, quando udii una voce femminile poco distante.
"Nessuno ti ha preso in giro, Haziel".
Era una voce squillante ed acuta, apparteneva sicuramente ad un demone molto potente, potei intuirlo dal prepotente profumo che accompagnava la sua voce, era caldo e sensuale, mi riempiva le narici in maniera così forte da farmi quasi starnutire. Avevo il timore di voltarmi per vederla in viso. Sarebbe stata di sicuro bellissima quanto mortale.
Una vera trappola, almeno per i maschi umani.
Sospirai. "Chi sei?"
Una risatina. "Sono Lena, e sono stata mandata dall'Alfa per condurti al suo cospetto. Oggi è un giorno molto importante per te, piccolo mezzosangue."
Pronunciò le ultime due parole con una risatina malevola ed incantatrice, e la rabbia montò in me, più violenta di prima.
Ma non risposi: sarebbe stato come gettare benzina sul fuoco.
Decisi comunque di voltarmi, lei di sicuro se lo aspettava.
Non mi sbagliavo, era davvero stupenda. Aveva un bellissimo viso di porcellana, impreziosito da due occhi blu mare e i corti boccoli biondi che le ricadevano sul viso le donavano un'aria sbarazzina e vivace. Il suo corpo era perfetto, modellato in un succinto abito da sera rosso. Dimostrava a malapena diciassette anni, ma io sapevo che doveva averne più di mille. Più sembrano giovani, più sono vecchi e potenti.
E questa donna era l'immagine della tentazione.
Anche se a me non tentava per niente.
Non le sfuggì il mio sguardo indagatore, e mi rivolse un sorriso compassionevole. Stupido demone...
"Dimmi dove dobbiamo andare." Sbottai, facendo sprofondare le mani nelle tasche del mio lungo cappotto nero.
Lena incrociò le braccia, scoccandomi un'occhiataccia infastidita. Fece schioccare la lingua, poi si voltò, facendomi segno di seguirla. Io sospirai.
Li odiavo tutti e odiavo me stesso.
Camminammo per una buona mezzora e dovetti ammettere che mi costò fatica starle dietro: anche in condizioni normali essere a pari passo con loro mi risultava pressoché impossibile.
Ci dirigemmo verso la zona industriale della città, dove l'inquinamento era più concentrato. Le industrie erano talmente alte da grattare il cielo, e il pesante fumo nero che impregnava l'aria mi dava un leggero senso di nausea. In questi casi, avere dei sensi più sviluppati degli esseri umani poteva rivelarsi molto scomodo.
Tenevo lo sguardo basso, osservando la strada sporca sotto i miei piedi, non mi accorgevo del tempo che passava.
"Siamo arrivati."
La voce chiara e squillante, ma ora ferma e, in qualche modo potente, di Lena mi giunse da molto lontano e, come spinto da una forza a me sconosciuta, alzai meccanicamente lo sguardo.
Rimasi di stucco.
Mi trovavo in una specie di teatro greco, con tanto di orchestra e cavea, rispettivamente lo spazio circolare in cui si svolgevano le rappresentazioni e le scalinate in cui risiedeva il pubblico.
Mi trovavo nell'orchestra e davanti a me c'era un trono color porpora.
Era vuoto.
Il silenzio era quasi assordante, e mi accorsi dopo poco tempo che tutti i demoni della mia stirpe stavano seduti nella cavea. Squadrai con circospezione ogni volto, ma nessuno di loro batteva ciglio. Erano in attesa di qualcosa.
Rimasi lì, di fronte al trono con Lena al mio fianco, per una manciata di minuti. Il cuore galoppava indisturbato nel mio petto ed avevo quasi paura che gli altri potessero udirlo con la stessa chiarezza con cui lo sentivo io.
Non respirai quasi più, quando dal nulla apparve una strana figura ingobbita ed avvolta da un lungo mantello. Non potevo vederla in viso perché era nascosto dal cappuccio, logoro e consunto. L'unico lembo di pelle visibile erano le mani: bianche come la neve e sicuramente altrettanto gelide, la loro pelle sembrava sottile come la carta ed avvolgeva le lunghissime dita ossute.
Nell'osservarle un brivido mi corse lungo la schiena.
Tutti i miei sensi erano all'erta e potevo sentire distintamente che l'unico rumore presente era il respiro lungo e pesante della creatura ingobbita davanti a me. Sembrava non essersi accorta della mia presenza ed io non osai attirare l'attenzione, sebbene tutti gli altri demoni si aspettassero una qualche mossa che mi mettesse in mostra.
L'essere avanzava lentamente verso il trono al centro dell'orchestra, e bastò una veloce zaffata di vento per portarmi alle narici un po' del suo odore.
Era così forte che feci fatica a contenere il conato di vomito che quella fragranza disgustosa mi aveva suscitato; non avevo sentito mai nulla di simile, ma non ebbi dubbi: era la puzza di carne putrida. Un vero schifo.
Avanzò ancora, a fatica, ma non vidi nessuno aiutarlo a sedersi. Quando prese posto, l'aria intorno a me si caricò di significativa elettricità.
Il silenzio era palpabile attorno a me, e quando l'essere prese parola, la sua voce tonante, roca e profonda, rimbombò per tutta la zona del richiamo.
"Haziel."
Chiamò il mio nome, e bastò udirlo pronunciare quelle lettere per avvertire un'assurda sensazione di impotenza.
Era indubbiamente l'Alfa degli Angeli dell'Inferno. Il potere che avvertivo in lui era così intenso da schiacciarmi, quasi.
Non potevo guardarlo negli occhi, il cappuccio del suo mantello logoro era completamente calato, impedendomi la visuale del suo volto: questo mi mise a disagio, mi sentivo scrutato dentro le profondità più recondite della mia anima, senza poter ricambiare lo sguardo.
L'Alfa non accennò a parlare ancora, evidentemente aspettava un mio cenno, come tutti gli altri demoni che osservavano la scena, del resto.
"Sì signore". Mormorai. La mia voce era appena udibile, ma ero certo che l'avesse sentita come se avessi urlato quelle due insignificanti parole.
"Sai perché ti ho fatto chiamare". Inclinò leggermente la testa all'indietro, poggiando i palmi delle mani sui braccioli del trono. Il mio sguardo venne catturato dalle dita delle sue mani che si dispiegavano lentamente sul pomo dorato, per poi richiudersi delicatamente intorno ad esso.
Annuii, incapace di distogliere lo sguardo da quelle dita sottili e bianchissime.
Esalò un sospiro così lungo da sembrarmi infinito.
"Sei stato scelto per svolgere un compito molto importante", proseguì, infine, continuando ad osservarmi con i suoi occhi invisibili.
Lena mi fulminò con lo sguardo, facendomi segno di inginocchiarmi di fronte all'Alfa. Ubbidii, a malincuore, e questo spinse il demone davanti a me a continuare il suo discorso.
"Dovrai uccidere."
Quelle parole mi arrivarono alle orecchie inibendomi i sensi. Alzai di scatto il capo, incredulo.
Mi affrettai a chiudere la bocca, aperta per lo stupore, e scattai in piedi.
"Uccidere...?"
L'eco della mia voce spaventata e disgustata riecheggiò, risuonando ancora più terribile. Ad accogliere la mia domanda retorica fu un soffio di vento che mi portò alle orecchie i mormorii scandalizzati degli spettatori.
L'Alfa, però, non si scompose di fronte al mio elevato tono di voce.
"Dovrai eliminare una ragazza. Un pericolo imminente per la nostra specie già in equilibrio precario" Si alzò lentamente dal trono e si avvicinò a Lena. Lo seguii con lo sguardo.
Temevo che sarei svenuto da un momento all'altro, il cuore batteva all'impazzata e non riuscivo a controllare il mio respiro.
Quando fu accanto a noi, annunciato dal suo pessimo odore, sollevò il braccio destro e mise la mano in supinazione.
Osservai attentamente ciò che quel demone mi stava mostrando, e vidi liberarsi dalla sua mano una leggera nube di fumo argentea, dalla fragranza speziata, dolce e gradevole, mi ricordava l'oriente. Sarei rimasto a bearmi di quel profumo per l'eternità.
Leggermente drogato, non riconobbi subito l'immagine che si sviluppò all'interno di quel fumo magico, finché non si delinearono con chiarezza i tratti di un volto molto grazioso.
Era indubbiamente un viso femminile.
Inebriato da quel profumo, mi persi nel contemplare i tratti regolari e morbidi di quelle guance piene e delicatamente sfumate di rosa; la vedevo solo di profilo. Perché non si voltava?
Aveva gli occhi serrati e le labbra rosse e carnose erano appena socchiuse, come ad emettere un piccolo gemito sofferente, sottolineato dall'espressione corrucciata che le sopracciglia avevano assunto. I suoi lunghissimi capelli erano di uno stupendo color mogano, quei riflessi così strani e luminosi mi avevano catturato.
L'immagine svanì di colpo, così come l'ubriachezza data da quel profumo fantastico, che ora non sentivo più.
Osservai l'Alfa, disorientato, e vidi che aveva la mano serrata rigorosamente in un pugno.
"Devo... devo uccidere lei?" la mia voce era poco più che un sussurro. Avrei dovuto eliminare quella ragazza umana, senza nessuna colpa apparente. E, soprattutto, senza nessun motivo che mi giustificasse per un gesto così orrendo, ammesso che esistesse una giustificazione possibile per commettere un omicidio.
L'Alfa emise un suono roco, che classificai come una risata.
"Lei è la ragazza che devi distruggere. Non importa come. È necessario che tu lo faccia."
Abbassai lo sguardo. Non osai chiedere il motivo di quella missione.
Non l'avrei saputo, in ogni caso.
Quelle parole non mi lasciavano scelta; non importava che non volessi, che io non fossi come loro: avrei dovuto capirlo che l'Alfa voleva mettermi alla prova.
Sentii allontanarsi la puzza di carne rancida e capii che si era adagiato nuovamente in quel trono, ma ero incapace di guardarlo.
Cazzo, ero furioso.
Io non avrei mai, mai ucciso quella ragazza.
Sapevo che non ne sarei mai stato capace, ed ero convinto che lo sapesse anche lui.
Oh.
Ora avevo capito...
Alzai lo sguardo, colmo di collera, osservando dritto dentro l'oscurità di quel volto senza nome e senza occhi.
Lui sapeva che non ne sarei mai stato capace. Il mio futuro fallimento sarebbe stata solo una valida scusa per eliminarmi...
Distolsi lo sguardo, la mia collera era talmente tanta che mi tremavano le mani e la mia vista si offuscò di rosso.
Gettai un'ultima rapida occhiata alla zona del richiamo poi mi voltai e cominciai a camminare nella direzione che Lena mi aveva mostrato per venire fin qui.
Sarei andato a cercare la ragazza coi capelli color mogano. Subito.
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