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Morte di un Dio
L'alba, o meglio, quel pallido tepore rossastro stava nuovamente sorgendo. Sentiva già formicolare il sangue vivo e pulsante nelle estremità, mentre il sonno lentamente lo abbracciava. Volse lo sguardo a ovest, dove il cielo scuro era ancora rassicurante e lasciò cadere quei miseri resti. La poltiglia umana scivolò oltre il bordo e rovinò più volte prima di sparire nel buio sottostante. Il pasto non l'aveva soddisfatto, ma doveva accontentarsi di quel poco che riusciva ad arraffare. La terra tremava e bruciava ancora laggiù. Poteva vedere il colore acceso degli ultimi alberi risplendere sotto il cremisi di un sole ancora giovane. Tutto stava lentamente morendo e anche per lui la fine era questione di poco. Poteva rassegnarsi a questa idea? Mai. Viveva ancorato ai ricordi delle gesta di un tempo, quando non era il solo superstite, quando il profumo delle stagioni gli riempiva il cuore sotto quelle squame nere. Era stato giovane anche lui e aveva goduto delle bellezze di quell'età. Le zuffe per l'egemonia, le cacce notturne, il tremore della prima vittima, il sapore dolce del suo sangue caldo. Poi l'abitudine e il dolore avevano reso amaro quel gusto. Il sogno di primeggiare si era infine avverato, anche se le condizioni in cui ora si trovava lo lasciavano schiavo ugualmente del suo stato fisico. Doveva mangiare e procacciarsi il cibo da solo, il privilegio di primo non gli poteva assicurare alcun beneficio ormai.
Così se ne erano andati i suoi fratelli, gli amici e i sottoposti. Chi moribondo nelle lande desolate che bruciavano, chi abbattuto da temibili uccelli di fuoco e chi infine ucciso dai suoi stessi simili per la sopravvivenza. Mai una razza aveva conosciuto sorte più dolorosa. Solo lui aveva deciso di resistere, la sua posizione glielo imponeva. Così anche il pasto giornaliero era divenuto un miraggio, un compito arduo che richiedeva maggiori energie. E lui era stanco, molto stanco. Avrebbe solo voluto riposare un po', chiudere gli occhi e cullarsi nei ricordi, nella falsa illusione che la notte avrebbe riportato in vita il suo vecchio mondo. Il buio era anche peggiore. Gli imponeva di sfamarsi, di scendere dalla sua altura e avventurarsi come una lepre spaurita tra i roghi e le macerie, a cibarsi di cadaveri a rubare come un reietto. Non c'era più anima viva, i villaggi erano deserti e il puzzo di decomposizione permeava l'aria. Antinoo, quello il suo nome, vagava ogni notte di landa in landa, un'ombra scura e minacciosa nel cielo, ma nessuno più poteva temerlo. Talvolta si era riposato in qualche abitazione risparmiata dalla distruzione e rovistando aveva scoperto ricordi di altre vite, momenti riflessi su carta, povere immagini che non sarebbero tornate. Era davvero passato così tanto tempo? Cosa aveva causato una devastazione così diffusa? Forse l'odio di esseri tanto inferiori poteva nuocere a tal punto? Non aveva le risposte a così tanti quesiti, doveva solo attendere che tutto passasse. Forse il forte vento che soffiava avrebbe portato via anche lui assieme ai detriti. Dal masso su cui giaceva accoccolato e mezzo assopito, Antinoo poteva ancora vedere le bellezze di un tempo, i giardini verdeggianti, le vasche di pietra e i giochi d'acqua. Sostare la notte in quei luoghi gli ricordava il piacere sottile delle prime rivolte, il timido gioco delle creature libere, l'inchino devoto dei suoi simili a lui, un re. Ora non restava che fuoco e fuliggine. I boschi erano ammassi di legna arsa, stalattiti annerite che graffiavano il cielo, più nessuna linfa scorreva sotto la corteccia. Perché allora si recava in quei posti? Perché non abbandonare per sempre quelle lande e raggiungere gli altri? Antinoo sapeva perché, era come se anche lui da dentro stesse morendo lentamente, consumato dal nulla.
Era stato toccato una notte. Quando ancora l'incendio non aveva divorato tutto, Antinoo vagava per i boschi cercando un po' di refrigerio per l'anima. Non aveva ancora pasteggiato, presto i sudditi gli avrebbero condotto una vittima. E mentre era assorto nei più dolci pensieri, si accorse di lei. Una timida presenza immobile, immersa nel buio e silenziosa. Avrà avuto pochi anni. Vestiva una tunica scura e lo scrutava immobile. Trasalì come la più spaurita delle creature per poi rendersi conto che tra di loro la bestia era lui. La mano lattea posata sulla sua coda l'aveva pietrificato. Era come se la conoscenza di millenni avesse invaso la sua mente, devastandola. Aveva visto se stesso ancora cellula e la nascita della sua stirpe, quando il mondo era una palla di fuoco informe. Tra tutto quel rutilante susseguirsi di immagini incomprensibili, aveva anche scorto il male che avrebbe divorato tutti. Aveva visto una mano di creta abbattersi al suolo, schiacciando qualsiasi forma di vita, aveva visto la devastazione che sarebbe seguita e aveva compreso che nessuna salvezza era concessa. Nemmeno a un re come lui. Scosso dalle visioni e dalla consapevolezza, Antinoo aveva sollevato il capo per domandare, sapere la ragione di quella fine, ma lei non c'era più. Quella visione apocalittica e terribilmente triste l'aveva abbandonato con la certezza dell'irreparabile. Ecco perché questo terribile dono concesso solo a lui ora lo incatenava a quella rupe.
Il sole del mattino stava sorgendo all'orizzonte. Ora il colore rosso amaranto si fondeva con il furore devastante del fuoco e non si distingueva più alcun confine tra cielo e terra. La distesa terrena si scontrava con un erto ammasso roccioso, la cui squallida altura crollava a precipizio sugli scheletri delle conifere. Nessun rumore lambiva quel luogo, solo pietre e sassi animavano il paesaggio lunare. I raggi violenti e indelicati illuminarono pienamente l'antro di una caverna isolata, i poveri resti umani ammassati a lato e la roccia antistante l'ingresso. Su di essa l'imago di un dio antico pietrificata, gli occhi aperti a scrutare eternamente il creato.
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