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Il diario di Lemar
Voltare un'altra pagina della propria vita comporta sempre il rischio di trovarsi di fronte alla terza di copertina; così, quando ci si accorge che la propria storia si conclude, non ci resta che sbirciare oltre la rilegatura, fra i caratteri affossati delle bronzine, se da qualche parte qualcuno abbia scritto il nostro nome.
Proprio a questo punto era arrivato Lemar, restava lì, con la mano quasi rattrappita a serrare fra le dita l'ultima pagina della sua esistenza e ad accarezzare con il mignolo la copertina rigida dove già sapeva; non avrebbe trovato scritto nulla.
Si rigirò il volumetto di cartonato ruvido fra le palme, con il fare distratto di chi non vuole dare a intendere tutta la propria delusione, poi, strabuzzò gli occhi; sulla sua vita non c'era forse il suo nome, ma, appena dietro la copertina brunita e stanca, si distendeva in bella grafia una dedica:
"A tutte le persone cui rimarrà di me il ricordo e un lusinghiero senso d'assenza".
Forse tutto il lercio e la fuliggine che alla sua vista velavano, a volte scempiavano, le pagine del suo diario non erano veramente lì, certo, lui le avvertiva, quasi gli avevano reso impossibile leggere alcuni passi, ma ora, stava maturando la consapevolezza che a "tutte quelle persone" non avrebbero dato fastidio.
In quelle pagine rabbiose e rombanti, fra i tumulti degli inchiostri doveva esserci qualcosa di luminoso; non poteva essere d'aver buttato via tutta una vita nel dolore; non per sé magari ma per qualcun altro, fra le strofe sbiadite, fra le volute e le acrobazie della penna, riposava forse qualcosa che valesse la pena d'esser serbato.
Quelle pagine racchiuse fra un inizio ed una fine, fra le parole "Amo" e "muoio" lui non le avrebbe volute leggere mai più, ma in virtù di quella dedica non bruciò il libro lì dove si trovava.
Passarono un'alba e il tramonto suo figlio prima che a Lemar tornassero le forze per attuare il proprio nuovo proposito. Da qualche parte, oltre i cumuli di pensieri che si era gettato alle spalle strada facendo, ricordava esserci il proprio inizio, quel confine di sé che definì e tracciò ogni altro passo da lui poi intrapreso.
Sarebbe tornato là, dove "quelle persone" avrebbero accolto, se non il suo viso storpiato dal pianto, almeno quel libercolo scritto com'era d'amore per loro.
Così fece e s'avvio a ritroso per quei giorni da cui già una volta aveva stentato a emergere.
La mente passava a lunghe falcate fra le frasche livide dei ricordi più amari, con gli occhi buttati giù per terra a chè non potessero neppur coglier cosa ancora s'agitasse fra le fronde cariche di livore e mestezza.
L'avanzare si faceva via via più pesante ed il passo più stanco.
Alle caviglie s'aggrappava un fango di lacrime e terra, odoroso dell'odore che scava il cuore di chi ha amato una volta e poi mai più.
Nelle orecchie ancora trillava l'eco traditrice di quelle frasi un tempo fiorite in glicini e viburni, quelle menzogne vestite d'erbe estive e fruscianti, d'aceri vermigli e d'umili denti di lupo che col lupo spartivano solo le brame ingorde.
Si fosse scorto il sole, sarebbe apparso morto.
Mentirei se continuassi a raccontare di ciò che Lemar vide lungo il suo ritorno, non che io non l'abbia davanti agli occhi, soffocante come la nebbia, opprimente come solo sa essere il rimpianto; ma non è abbastanza scuro quest'inchiostro per scrivere qui di certe cose.
Infine giunse.
Le mura di quel luogo che un tempo contendevano al cielo l'orizzonte ora erano ripiegate su sé stesse, sconfitte dal tempo e grigie come i vecchi; alle finestre delle case, svestite delle imposte, ondeggiavano come tende carezzate da un vento ormai assente, le sete ed i broccati dei ragni.
Gli occhi si strinsero e scapparono avanti, nella maniera in cui spesso fanno i bambini; lungo le strade, a perdifiato, lo sguardo s'affannava come chi cerca senza trovare qualcosa che sa essere lì... ma che dolore, che rabbia, rabbia, rabbia: la torre, quella più alta, quella su cui poggiava il sole all'ora delle campane festanti, quella che per lui divideva le stelle a metà, giaceva riversa s'un fianco, morente, straziata, spezzata come una stoppa.
Lemar rimase immobile, accarezzava fra le ciglia fradice la sua amante perduta. Quante volte poco prima dei vespri aveva domato la sua impervia maestà, e ogni volta fra una pietra e l'altra lei gli faceva provare il morso, che pareva dovesse spezzargli le dita, e ogni volta, lasciva e voluttuosa come una donna di porto, gli concedeva la sua vetta perché potesse ammirarla, nuda dell'edera, bagnarsi in una polla di sole al tramonto e vestirsi dei toni più caldi d'oro e cremisi.
Dove si trovasse era fin troppo chiaro, il punto di partenza.
Non era scritto nel suo diario, ma la vita di Lemar sarebbe finita ripiegandosi su sé stessa, non alla parola "muoio" ma alla parola "Amo".
A Lemar tuttavia sfuggiva il senso di tutto questo, poi si voltò un istante a guardare di nuovo i suoi ultimi passi e un sorriso gli adombrò il volto, le sue impronte, in un soffice strato di polvere, gli testimoniavano:
"Sei solo, per te, amare o morire si scrive allo stesso modo".
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- Wow.. devo ammettere che ho letto immaginandomi il tutto davanti agli occhi.. hai una buona capacità descrittiva! Very good
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