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Il Professor Marchesi
Dietro quegli occhiali sottili e rotondi, Marchesi nascondeva tutta la sua personalità. Ti guardava di sbieco, con quel mezzo sorriso vermiglio, le labbra arcuate in un ghigno. Sembrava volesse interrompere i tuoi pensieri e accoccolarsi in qualche meandro della psiche scandagliandone le più remote e torbide intenzioni. Lo chiamavano il Professore per via di quell'aria seria e grigia che lo accompagnava sempre. Alcuni sostenevano che fosse stato in passato docente universitario a Messina. Nessuno però poteva affermarlo con certezza, perché Marchesi non lasciava entrare nessuno, non parlava con nessuno, non viveva con nessuno. Abitava all'ultimo piano di una palazzina dei primi del Novecento, in un quartiere degradato dove le urla di madri apprensive si accompagnavano agli spari dei piccoli delinquenti di periferia. Trascorreva le giornate dietro una tenda pesante, seduto alla sua scrivania di rovere massiccio, intento a scrivere, scrivere e ancora scrivere. Sembrava volesse imprimere su carta le volontà di tutta una vita. Di fronte al suo terrazzino rugginoso uno stuolo di giovani curiosi trascorreva i pomeriggi con la fronte schiacciata tra le sbarre della ringhiera a spiare diligentemente ogni movimento del vecchio. Lui sapeva di essere osservato, anzi ci sperava. Quel contatto a distanza era qualcosa di rassicurante e solido, una specie di lancetta che scandiva il passaggio delle ore, che lo portava serenamente alle ombre della sera. La notte era il momento più terribile dell'intera giornata. Gli occhi fissi al soffitto, a contare le crepe sempre più estese, a segnare il contorno delle ombre mutevoli. Il Professore odiava la solitudine, ma aveva vissuto una vita da emarginato, non si era sposato come i suoi coetanei. Loro ora potevano dividere la malattia con altra malattia, sostenere la propria infermità con altra infermità, forse il loro trapasso sarebbe stato meno amaro. La mattina un caloroso "'O Professò!" riempiva la strada quando di soppiatto strisciava dal centenario portone e si dirigeva spedito verso il bar per il consueto cappuccino delle otto. Sedeva al tavolino più nascosto e sorseggiava con delicatezza dalla grande tazza. Varie figure gli passavano di fronte e sempre con circospetta venerazione si allontanavano appena riconosciuto. Il gestore del bar osservava ormai divertito il ripetersi di queste azioni rituali, scuotendo sconsolato il capo ogni qual volta qualche straniero chiedeva al Professore il giornale. Ecco, questo era un altro rito di Marchesi. Lo sfogliava dall'ultima pagina alla prima, soffermandosi sulla quella degli annunci funebri e strappando quasi sempre un piccolo ritaglio. Nessuno aveva mai indovinato cosa rappresentasse quel gesto, forse un rito scaramantico, forse un monito pauroso per se stesso. Anche in quella situazione il suo volto non mostrava nessuna piega, non un'espressione di dolore o soddisfazione. Uscito dal bar, si incamminava sempre verso il litorale. Il mare infatti era un'altra passione del Professore. C'era chi giurava di averlo visto giornate intere seduto sul bagnasciuga con le mani in mano a sorridere beato. Solo in quei frangenti i pescatori assicuravano di aver visto le labbra inarcarsi e quella espressione corrucciata prendere vita sotto la pelle raggrinzita dal tempo. Era come se il lento e ritmico avvicendarsi di sabbia e mare rilassasse i pensieri di quel vecchio e lo riportasse all'infanzia, ai piaceri autentici della prima età. Dopo la passeggiata il vecchio rientrava, sparendo dentro l'antro oscuro del condominio e la vita riprendeva come sempre là fuori.
Quando un giorno una volante della polizia si fermò di fronte al palazzo di Marchesi, quasi nessuno pensò a lui. Poteva trattarsi di qualsiasi persona e di qualsiasi crimine, di uno stupro, un omicidio, una rapina. Il quartiere non era certo tra i migliori. Non appena gli agenti scomparvero all'interno dell'edificio, un folto gruppo di curiosi si raccolse dalla parte opposta della strada. Il barista appoggiato all'ingresso del locale, davanti uno stuolo di bimbi e donne già con i fazzoletti pronti. Qualche schiamazzo proveniva dagli adolescenti di passaggio che provavano i loro motorini truccati. Ma quando le forze dell'ordine portarono alla luce il Professore ammanettato, la folla si ammutolì. In pochi istanti iniziò la rivolta. "Infami!""Lasciate O' Professò!" "Fate le vigliaccate, quello è innocente" Le donne urlavano e i ragazzi avevano iniziato a lanciare sassi e pezzi di mattone. Due giovani accorsi iniziarono a strattonare Marchesi dalle braccia dei poliziotti finché non ebbero la meglio. Allora il Professore parlò per la prima volta di fronte a loro. "Lasciatemi, devo andare con loro." Il torvo cipiglio sul volto affaticato fece desistere i due e gli agenti si affrettarono a far salire il vecchio. La volante sgommò via rapidamente lasciando la folla senza risposte.
Il giorno successivo al bar c'era un gran vociare confuso e un parapiglia di mani tese e chiuse in pugni, teste scosse e labbra strette. Il giornale riportava in prima pagina la foto del Professore e a caratteri cubitali sotto "Arrestato il boss!". Chi non ci credeva, chi imprecava per non essersi mai accorto di nulla, chi gioiva per la cattura. La folla era un turbinio di emozioni contrastanti, nel tentativo litigioso di trovare anche solo un motivo a quella storia incredibile. Il barista era l'unico che impassibile continuava ad asciugare le tazze e a passare il bancone, pensando che da quella mattina il professore non avrebbe più potuto bere il suo solito cappuccino.
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