racconti » Racconti drammatici » Era mio padre
Era mio padre
Ero molto stanco. Avevo lavorato fino a tardi e arrivai a casa a mezzanotte passata.
Mi mossi nel buio della casa; vi abitavo da abbastanza tempo da orientarmi anche senza luce accesa.
Mi spogliai e andai a lavarmi. Poi m'infilai sotto le coperte.
In quel momento udii un tuono infrangere il silenzio di quella notte, e la donna con la quale convivevo da più di cinque anni, si girò sul fianco e mi salutò.
Ricambiai e mi distesi anche io.
Assonnata mi disse: "Oggi pomeriggio ti ha cercato una donna..."
"Chi era?"
"Ha detto di chiamarsi Linda."
Il mio sguardo si pietrificò, e ringraziai di essere al buio.
"Cosa voleva?"
"Ha detto se potevi fare ritorno giù in Campania. Ha detto che un certo signor Daniele sta per morire. Ha lasciato il recapito telefonico e mi ha detto di riferirti che l'indirizzo è sempre lo stesso."
Deglutii e subito mi mancò il respiro. Rimasi in silenzio finché lei mi domandò: "È qualcosa di grave, è qualcuno che conoscevi?"
Esitai.
"No, tranquilla", continuai ponendomi al lato opposto al suo. "Torna pure a dormire."
In quel momento un lampo m'illuminò il viso, e tutto mi ritornò in mente come un boomerang.
Me ne stavo seduto sulle scale a studiare una poesia quando udii delle grida provenire da casa. Mi precipitai dentro: nell'ingresso papà aveva preso mia sorella per il collo e aveva cominciato a schiaffeggiarla, mia madre gridava di lasciarla andare. Corsi contro mio padre e lo presi per le braccia, ma i suoi muscoli erano più formati di quelli di un bambino di dieci anni quale ero io. Così mi afferrò e mi scaraventò contro il muro.
Quando caddi a terra dolorante, era come se tutto si fosse placato. Cessò tutto, tranne il pianto di mia madre e mia sorella che una abbracciata all'altra, singhiozzavano.
Io avevo i lacrimoni anche se non volevo darlo a vedere.
Mio padre mi fissò spaventato. Poi mi venne in contro e mi tese una mano. Non volevo restituirgli il gesto, ma avevo paura. Così allungai la mano e mi tirò su. Poi mi attirò a se.
"Non succederà più, ve lo prometto..." disse mentre mi accarezzava il capo, e cercando lo sguardo di mia mamma.
Poi pianse. Durante quell'abbraccio sentii una forte fragranza di dopobarba, odiavo quell'odore. Poi guardai mia madre e mia sorella inermi, sul pavimento, che piangevano. E da lì capii che le parole di quell'uomo non erano veritiere, non avrebbe smesso, non sarebbe stata l'ultima volta.
Spalancai gli occhi e un lampo m'illuminò nuovamente il viso. A volte, quando la notte cercavo di prendere sonno senza riuscirvi, pensavo alla mia vecchia vita, la stessa dalla quale ero scappato e alla quale non vi avevo più fatto ritorno.
Mi voltai sul lato e rimasi fermo ad osservare Mirella. Il pensiero di lei mi diede la forza di chiudere gli occhi e di addormentarmi.
L'indomani mattina preparai un bagaglio, e le dissi che sarei dovuto partire per lavoro, ma che sarei stato di ritorno tra qualche giorno.
"Come mai questo viaggio improvviso?" udii dietro di me.
Continuando a recuperare alcune T-shirt dal cassetto, risposi: "Lo sai com'è Fabrizio. Per lui le improvvisate sono all'ordine del giorno."
Vi fu una pausa durante la quale in cuor mio sentii un dolore trafiggermelo. Mi costava dirle una bugia.
"Perché non mi dici cosa sta succedendo realmente?"
Rimasi in silenzio, e lei continuò.
"È qualcosa che ha a che fare con la telefonata di ieri, vero?"
Mi bloccai nella preparazione della valigia, e mi voltai. Se ne stava appoggiata allo stipite della porta. Indossava un fouson beige sotto un pullover bianco.
Chinai il capo senza riuscire a reggere lo sguardo.
"Non è un viaggio di lavoro, non è così?" continuò lei facilitandomi il compito.
Lentamente annuii, stufo di mentire.
"Perché non mi dici la verità, lo sai che di me ti puoi fidare", disse avanzando nella stanza.
Scossi il capo. "Non si tratta di fiducia, ma di qualcosa che ho paura di ricordare..."
Lei prese posto sul letto, in segno di voler ascoltare ciò che avevo da raccontare.
M'inumidii le labbra e sospirai.
"La donna con la quale hai parlato al telefono è la badante di mio padre. Ho smesso di avere rapporti con lui dall'età di sedici anni, da quando mia madre e mia sorella si sono trasferite al nord."
Mirella immobile, continuava ad ascoltare il mio passato, il passato dell'uomo col quale aveva trascorso anni e del quale credeva di conoscere ogni minimo dettaglio.
"Ha smesso di essere mio padre nel momento in cui ha deciso di alzare le mani tutte le volte che ne aveva voglia, su mia madre, su mia sorella e anche su di me."
Mirella mi fissò con lo sguardo vitreo.
"Perché non mi hai mai detto niente?"
"Me ne sono andato via di casa, non l'ho mai più rivisto."
Distolsi lo sguardo e lo puntai su qualcosa che non fosse il suo viso: "Avevo promesso a me stesso che non lo avrei più nominato, che non l'avrei neanche mai più pensato..."
Poi ritornai sui suoi occhi castani.
"Quell'uomo è parte del mio passato e doveva rimanere tale."
Lei annuì. "Ma adesso hai deciso di ritornare laggiù..."
Scossi il capo.
"Non so perché lo sto facendo... una parte di me non vuole andarci, e poi ce l'altra che vuole vedere cos'è diventato..."
Mirella mi si avvicinò e mi sfiorò una guancia col palmo della mano.
Poi mi abbracciò e io inalai il suo profumo delicato alla pesca, per poi piangere sulla sua spalla.
Avevo fatto un biglietto andata - ritorno per Napoli. Scesi alla stazione e con un taxi raggiunsi l'indirizzo che conoscevo bene.
Erano vent'anni che non mettevo più piede in quel posto, e nel vederlo, tutto mi ritornò in mente.
Fissavo quell'abitazione ormai malandata, dietro le sbarre del cancello. Era talmente vecchia che poteva aver messo radici in quel terreno.
Rimasi a fissarla ancora per qualche secondo, poi entrai. Il cancello era socchiuso, così risparmiai di annunciarmi al citofono.
Salii qualche gradino e bussai alla porta. Sulla soglia mi si presentò Linda: la donna che per tutti quegli anni aveva accettato di accudire un uomo violento come mio padre.
Ormai doveva avere settant'anni certi, i lunghi capelli biondi di una volta erano ingrigiti e schiacciati sul capo come spennellati da una tintura oleosa, gli occhi stanchi e il viso scavato.
"Ciao Maurizio..." esordì lei per prima.
"Ciao Linda."
Mi invitò ad entrare. Il cicaleccio, gli aromi, la temperatura della stagione, il rumore del mare... tutto era esattamente come lo ricordavo.
Mi accomodai su un divanetto nero e grigio, mentre lei su una sedia dinanzi a me.
Si sfregò le mani sulle ginocchia mentre diceva: "Come stanno tua mamma e tua sorella?"
Mi mostrai irritato da quella domanda.
"Sono qui per un altro motivo, mi sembra, no?"
Lei chinò il capo, poi riportò lo sguardo su di me.
"È passato molto tempo..."
"Sì, infatti. Perché mi hai chiamato, cosa vuoi?"
"La donna che ha risposto al telefono non te l'ha detto?", fece una pausa. "Di tuo padre..."
"Sì, lo so, e allora?"
"Allora ha chiesto di te. Vorrebbe che tu andassi a salutarlo."
Io annuii e ripetei: "Vorrebbe che io andassi a salutarlo."
"È pur sempre tuo padre."
La fissai, infuriato da quell'affermazione.
"Un genitore non è chi ti fa venire al mondo, ma chi ti sa crescere, chi ti fa sentire amato, non qualcuno di cui aver paura."
Linda rimase in silenzio ed io continuai.
"Tu hai fatto la tua scelta, gli sei rimasta accanto. Io, mia madre e mia sorella ne abbiamo fatta un'altra", feci una pausa. "Come noi abbiamo rispettato la tua, tu rispetta la nostra."
"Non è di questo che si tratta, Maurizio."
"E di cosa?"
Mi fissò con gli occhi stanchi.
"Ormai sta per morire... ti chiede solo di andare da lui, a salutarlo un'ultima volta."
Pensai a ciò che Linda stava dicendo, e poi pensai anche a tutto quello che ci aveva fatto quell'uomo: le botte, le grida, la musica alta per coprire le litigate. No, non l'avrei perdonato.
"D'accordo... andrò a vederlo, ma non a perdonarlo. Avrebbe dovuto pensarci molti anni fa."
Mi alzai. Stavo facendo per andarmene quando mi voltai verso di lei.
"Salvati finché sei in tempo."
Linda sogghignò.
"In tempo..."
Non capii cosa avesse voluto dire, o forse sì. Fatto sta che non le chiesi ulteriori spiegazioni. Alzai i tacchi e mi diressi verso le scale.
Una volta al piano di sopra, raggiunsi la stanza da letto.
Nel farlo rividi la mia famiglia, le urla, gli insulti, le botte, tutto quanto.
Deglutii e aprii la porta.
Mio padre se ne stava nel letto a testa in su. Quando mi avvicinai, notai il crocefisso che teneva in mano.
Smise di sussurrare una preghiera e mi fissò. La malattia l'aveva fatto invecchiare di brutto, ma quello sguardo lo ricordavo bene, quello che una volta mi faceva tremare.
Esitò.
"Sei venuto."
Mi misi a braccia conserte, e continuai a fissarlo inespressivo quando gli dissi: "Sei stato tu a farmi chiamare, no?"
"Non credevo l'avresti fatto."
"Continuo a stupirti, non è così?"
L'uomo non rispose, e dopo qualche secondo, mi chiese: "La mamma e Serena come stanno?"
Rimasi a braccia conserte e con tono calmo, mentre rispondevo: "Tu non le devi neanche nominare. Loro non sono più affar tuo."
Il vecchio annuì e abbassò il capo.
Visto così faceva persino pena. Era lì inerme; ormai non poteva fare del male più a nessuno.
"So cosa vi ho fatto passare."
Spalancai gli occhi.
"Tu sai cosa ci hai fatto passare?"
"Bevevo, allora. Avevo perso il lavoro e le cose non andavano bene..."
"Non ci provare!" gli dissi puntandogli il dito contro. "Questa non è una scusante! Invece di chiuderti in te stesso, di deprimerti e di picchiarci, avresti potuto farti aiutare dalla tua famiglia!"
"Avevo cominciato a bere, è vero, ma ti giuro che..."
Lo interruppi.
"Tu, te le ricordi tutte le volte che bevevi e che ci prendevi a pugni quando ne avevi voglia, sì?"
Lui non rispose.
"Perché noi ce lo ricordiamo bene tutt'oggi."
"Non sono più quell'uomo."
Io annuii.
"Adesso sei cambiato."
"Sì, è così."
Annuii nuovamente.
"E da me che cosa vuoi?"
"Che tu mi rimanga accanto."
Io sorrisi di scherno, irritato ancora una volta da quell'uomo presuntuoso.
"Certo che l'alcool non te l'ha logorato tutto il fegato... un po' te n'è rimasto se mi hai chiamato per dirmi questo", feci una pausa. "Anzi no... non è di fegato che si tratta, ma di egoismo."
Rimase a fissarmi.
"Dopo che hai perso il lavoro questo sei diventato, un uomo arrogante, violento ed egoista."
"Non ti permettere!"
"Perché, se no che cosa fai? Prendi una cinghia, mi riempi di pugni e di calci?", continuai scuotendo il capo. "Non più, caro papà. Non sono più il bambino indifeso di allora."
Lo guardai con ribrezzo e mi voltai per andarmene, ma lui mi richiamò.
"Non te ne puoi andare! Tu appartieni a me, come tua madre e tua sorella! Che ti piaccia o no, non puoi cancellare ciò che siamo stati!"
Mi voltai e lo guardai negli occhi.
"Non rinnego ciò che siamo stati prima della tua follia, questo no, ma la vita che ci spettava davvero ce la siamo ripresa, e non torniamo indietro", feci una pausa. "Noi non ti apparteniamo più papà, che tu lo voglia o no."
Lo fissai un'ultima volta e gli dissi addio. Poi me ne andai e non lo rividi mai più.
12345
un altro testo di questo autore un'altro testo casuale
0 recensioni:
- Per poter lasciare un commento devi essere un utente registrato.
Effettua il login o registrati
Opera pubblicata sotto una licenza Creative Commons 3.0