C'erano una volta P. e N.
Non ricordavano perché si fossero conosciuti, né quando, né dove. Lui la adorava, glielo aveva confessato dopo aver fatto l'amore, la prima volta... con lei. Era una musa. Lui si nutriva della linfa che riusciva a succhiare dalla sua bocca e le suonava le canzoni. Avevano paura dei pitbull e si abbriacciavano quando non volevano scendere dal tavolo. Temevano di morire staccandosi. Quand'erano in mezzo agli altri, lui la guardava insistente, vivo, trasognato. Lei non era mai riuscita a sostenere il suo sguardo. Era troppo perfetto.
Correvano, andavano dovunque, entravano, uscivano, scappavano, fuggivano a gambe levate, ridendo. Poi si fermavano all'improvviso ma quando gli altri si voltavano a vedere dove fossero rimasti, se n'erano già andati nella direzione opposta. Di corsa. Così non avevano tempo per dirsi "ti amo", parlavano del rock e delle storie di stra-ordinaria follia, in volata, quando riuscivano a respirare. Vivevano nell'inebriante illusione di aver seminato l'oblio.
Un giorno N. è stremata dalla corsa. Strattona il braccio del suo capitano, gli guarda il petto, per la prima volta urla "TI AMO!". Si sente male. Le viene in mente la risata di suo fratello. Vuole tornare a casa.
Venticinque minuti dopo N. e P. sono in stazione, aspettano un treno. Il capostazione sta annunciandone l'arrivo. Un fischio lunghissimo, il suono più ansiogeno e appagante che abbiano mai sentito nei loro 38 anni di vita in due. P. si siede per terra, la testa nascosta tra le braccia, respira a pieni polmoni. N. corre, sale sul treno, si ferma istabile nel corridoio del vagone. Sbam, le porte si chiudono. Un secondo, lei si volta piano. P. sul binario sta già scappando nell'altra direzione.
Questa volta è solo.