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Brucia ragazza, brucia
Il fuoco le penetrò sulla cute e si insinuò nelle ossa con prepotenza. Il viso divenne una maschera di dolore.
Aprii gli occhi di scatto, e fissai il soffitto buio. Rimasi ferma per qualche istante, poi mi misi seduta sul letto. Mi appoggiai alla testiera e mi passai le mani fra i capelli:
era capitato di nuovo. Era ormai qualche anno che facevo strani sogni, e già due notti che continuavo a sognare la stessa cosa. Sognavo dapprima un edificio con delle finestre, poi vedevo delle stanze cupe e una donna che gridava.
Mi spaventavano. Non erano i soliti sogni che una persona fa la notte, era qualcosa che sembrava talmente reale da mettere una paura tale da temere di richiudere gli occhi. Rimasi sveglia per una un'ora almeno. Infine il sonno ebbe il sopravvento e dormii.
La mattina seguente decisi di uscire prima per passare a fare un po' di spesa. Ero in auto quando notai un cartello che interrompeva la strada che ero solita fare, per una alternativa, causa lavori in corso.
Era una strada scoscesa, che passava in mezzo ai boschi. Non l'avevo mai presa prima d'ora. Inserii un CD per farmi compagnia e cominciai a canticchiare le parole di "One of us" di Joan Osborne, quando qualcosa attirò la mia attenzione.
Fermai l'auto e fissai sconcertata quello che c'era oltre il finestrino: quello era l'edificio dei miei sogni.
Lentamente scesi e richiusi la portiera. Mi avvicinai incredula, ma sempre mantenendo le distanze.
Rimasi in piedi a qualche metro oltre i cancelli sbarrati, e continuai a fissarlo. Era una struttura in mattoni, con diverse finestre. Ad un certo punto scorsi il viso di una ragazza e la vidi muovere le labbra.
Mentre stavo cercando di comprendere il labiale, una voce domandò: "Cerca qualcosa?"
Mi voltai di scatto e fissai la persona. Un uomo anziano se ne stava dinanzi a me e mi guardava.
"Lei chi è?", domandai.
"Attilio Diodeo. E lei?"
Feci segno verso l'istituto mentre spiegai che la segnaletica mi aveva imposto quella strada.
"Sa per caso che cos'è questo posto? Fuori non c'è neanche un cartello..."
"Cos'era, vorrà dire. È abbandonato ormai da quasi vent'anni."
"Però alla finestra..."
Non terminai la frase che vedendo l'edificio, mi mancarono le parole. Era completamente malandato. I muri, il tetto, il cancello, il giardino e il cortile: tutto andato in rovina.
"Sono sicura di aver visto una donna alla finestra."
"Sarà stata un'ombra, o un'allucinazione. Questo edificio è stato abbandonato, gliel'ho già detto."
"Cos'era?"
L'anziano mi fissò insospettito.
"Lei non è di qua, vero?"
"Mi sono trasferita da poco."
Lui annuì e disse: "Io ci ho lavorato... è stato un ospedale psichiatrico."
Sentii un brivido percorrermi la schiena.
Annuii. "La ringrazio."
Mi voltai. Stavo per risalire in auto quando mi disse: "Le consiglio comunque di non passare il bosco da sola... non è un bel posto."
"Di solito non lo faccio mai, ma la strada che sono solita fare era interrotta."
Lui mi guardò di traverso.
"Ne è sicura? Io vengo da fuori il paese, e la strada è sgombra."
Deglutii e ricacciai indietro le lacrime quando risposi: "La ringrazio, accetterò il consiglio."
Poi quando ripartii, potei piangere senza che nessuno mi vedesse.
Tornai a casa verso le quattro del pomeriggio, e già cominciava a farsi buio. Quel paese nascondeva qualcosa; qualcosa che andava oltre il buio.
L'edificio in cui ero incappata la mattina stessa non era una coincidenza. Non ci credevo più di tanto alle coincidenze.
Chiusi a chiave la porta di casa e poggiai le chiavi dell'auto sul mobiletto dell'ingresso.
Stavo sfogliando la posta quando udii uno scricchiolio.
Mi bloccai all'istante. Dentro di me capii che sarebbe stato alquanto idiota domandare se vi fosse qualcuno. Se vi fosse stato, non me l'avrebbe di certo detto.
Cercando di non fare rumore, recuperai il cellulare dalla borsa. Stavo per comporre il numero della polizia quando sentii il fuoco invadermi le tempie.
Gridai dal dolore, e il portatile mi cadde a terra.
Negli attimi in cui chiusi gli occhi nella speranza che quel dolore atroce sparisse più veloce della luce, vidi nuovamente l'edificio e la donna gridare. In quell'attimo notai anche una scrivania e una cartella con su scritto MARIANNA MORONI.
Poi il bruciore smise tutto d'un tratto.
Caddi sulle ginocchia e piansi spaventata. Presi fiato e mi precipitai verso lo specchio in bagno. Col dito indice delimitai la parte delle tempie che sentivo lesa, ma non v'era niente.
Tirai un calcio alla lavatrice e gridai: "Merda!"
Non avevo catene, ma in qualche modo mi sentivo in trappola senza sapere da chi, e perché.
L'indomani mattina mi recai al comune del paese.
All'ufficio dell'anagrafe chiesi informazioni su Marianna Moroni, il nome sulla cartella della mia visione.
"Mi rincresce signorina, ma non siamo autorizzati a divulgare questo genere di informazioni", fu la risposta di un addetto.
Uscii dal palazzo e andai a chiedere ai vari negozi, notizie di questa donna, ma non trovai nessuno in grado di dirmi qualcosa.
Verso le undici della stessa mattina, delusa dalla mia indagine finita male, andai a sedermi su una panchina. Scossi il capo e mi massaggiai i muscoli tesi del collo.
"Sta chiedendo alle persone sbagliate..."
Mi voltai e notai una donna anziana seduta poco più in là, intenta a dare da mangiare ai piccioni.
"Sta parlando con me?"
"Se lei sta cercando Marianna Moroni, sì."
"Sa dirmi dove posso trovarla?"
Vi fu una breve pausa.
"Al cimitero."
"È morta?"
"Molti anni fa, quando ancora era una ragazza."
Non le chiesi ulteriori spiegazioni, e la lasciai andare avanti nel discorso.
"I genitori la misero dentro l'ospedale psichiatrico perché erano convinti che parlasse col demonio", fece un pausa accompagnata da una specie di sorriso. "Aveva solo tanta immaginazione, povera ragazza..."
Scosse il capo e rimase in silenzio. Io non persi tempo nel chiederle del perché fosse morta.
"Un incidente, si dice. È caduta dalle scale."
"E i genitori?"
"La madre era distrutta, ha sparato prima al marito e poi si è uccisa."
Chinai il capo e lo rialzai l'istante dopo.
"Quella ragazza deve averne passate di tutti i colori, e non c'era nessuno ad aiutarla", concluse la donna.
Poi si voltò verso di me. "Perché la sta cercando?"
M'inumidii le labbra prima di dirle: "Me ne hanno parlato. La mia era solo curiosità..."
L'anziana annuì.
"Ne stia fuori, ragazza. La gente ricorda tutto perfettamente, ma tiene la bocca chiusa."
Aggrottai la fronte. "Per quale motivo?"
Lei sogghignò, lanciò un'ultima manciata di molliche di pane ai piccioni, e si allontanò.
La sera stessa decisi di recarmi sul posto. Era buio, e sapevo con consapevolezza di essere terribilmente pazza a fare una cosa del genere, ma non volevo più fare quei sogni. Non volevo più aver paura di chiudere gli occhi. Probabilmente negli anni in cui mi ero ritirata in meditazione dopo la morte improvvisa dei miei genitori, avevo sviluppato una sorta di empatia e adesso quella ragazza cercava di comunicare con me per dirmi qualcosa. Dovevo scoprirlo.
Parcheggiai l'auto e raggiunsi l'edificio a piedi. Nella sacca che mi ero portata dietro, disponevo di una torcia e di un coltello da cucina.
Arrivai al cancello e lo scavalcai, con un salto caddi sulle ginocchia, mi riportai in piedi e mi guardai intorno. Il posto era deserto. Con facilità riuscii ad aprire la porta e ad entrare.
Una volta richiusa, osservai l'interno. C'era puzza di naftalina, e le visioni si estesero anche da sveglia. Sotto una luce diversa vidi le corsie d'ospedale e i camici bianchi vagare, delle urla fastidiose colpirmi i timpani. Poi socchiusi gli occhi per mettere a fuoco l'immagine in fondo alla stanza.
Una ragazza dai capelli lunghi correva, venendomi in contro. Me la vidi passare accanto quando udii come un sospiro: "46."
I brividi mi percorsero la schiena fino a raggiungermi le braccia e le gambe.
Poi tutto svanì, e il posto riprese ad essere buio. Salii le scale e mi misi alla ricerca della stanza numero 46. Continuai a percorrere quei corridoi desolati finché finalmente la vidi.
Diressi il fascio di luce della torcia sul pomello. Avevo paura e sudavo freddo. Infine mi decisi.
Il muro presentava diversi segni orizzontali; con le mani li sfiorai e nello stesso attimo, capii cosa fossero. Qualcuno aveva malamente dato una mano di vernice per nascondere la verità, eppure la mia empatia mi fece vivere quegli attimi terribili. Quelli erano forni.
Deglutii più volte, e sentii tanto dolore da aver paura di stare male io stessa.
La torcia illuminò l'interno quando vidi qualcuno di spalle intento a fissare fuori dalla finestra.
Mi avvicinai a piccoli passi, ed esordii dicendo solo: "Ciao..."
Non ricevetti risposta con immediatezza, e allora continuai.
La donna mi fissò: era la stessa del mio sogno, Marianna Moroni. Poi riprese a fissare fuori.
"Pensavano che fossi pazza... ma non era così."
"Perché hai voluto che venissi qua?" le chiesi.
"Devi aiutarla."
Io scossi il capo.
"Di chi stai parlando?"
La ragazza esitò, e nel mentre potei osservarla meglio. Sulle tempie aveva segni evidenti di elettroshock, sulle mani e sulle braccia, segni di bruciature.
"È stato lui."
"Lui chi?"
Poi Marianna gridò, puntando un dito verso il muro: "LUI!"
Fu allora che la testa prese a fischiarmi, e a bruciare.
In quel momento vidi qualcosa che mi paralizzò, e che mi ridusse il cuore e la mente in frantumi.
Vidi l'immagine come una vecchia pellicola di film, che mi mostrò un uomo intento a slegare da un termosifone Marianna, e caricarla dentro uno di quei forni.
"Così imparerai la lezione! Questo è vero fuoco!"
Gridai anche io dal dolore, mentre scorgevo l'identità di quell'uomo. Era più giovane, ma i lineamenti li riconoscevo: quello era il medico del paese, lo stesso che avevo incontrato davanti l'ospedale, appena un giorno fa.
"Brucia ragazza, brucia!" disse divertito.
Quando il dolore fu insostenibile, implorai che tutto finisse, e così fu.
Mi accorsi di essermi accasciata a terra a piangere.
"Mi ha uccisa lui."
"Il dottore?"
Annuì e infine mi disse: "Mi dispiace, ma era l'unico modo. Devi aiutarla."
La fissai piangendo: "Di chi stai parlando?"
"Il dottore l'ha rapita. È nello scantinato."
"Di questo edificio?"
La ragazza spalancò gli occhi e il suo sguardo mi fece gelare il sangue.
Poi si mise un dito davanti la bocca, e sussurrò: "Sa che sei qui, nasconditi!"
Ero terrorizzata, ma dovevo agire per restare viva. Così mi mossi senza far rumore verso lo stanzino vicino.
Poi sentii chiamarmi.
"Melinda?"
Spalancai gli occhi.
"Lo so che sei qui...", continuò la voce. "Sono il dottor Diodeo, non abbia paura."
In cuor mio pregavo perché non entrasse proprio nella stanza dove ero nascosta io, ma qualcosa mi diceva che non sarei stata così fortunata.
Sentii scricchiolare il pavimento e capii che era entrato. Non ci avrebbe messo molto a scoprirmi nello stanzino a fianco.
Per un attimo non udii più nulla e in quel frangente riflettei su due cose: o se n'era andato, o mi stava aspettando.
"Preferisci venire fuori da sola o vuoi che venga a prenderti?", mi chiese.
Socchiusi gli occhi e digrignai i denti. Poi uscii allo scoperto.
Lo fissai negli occhi e mi ricambiò lo sguardo, divertito.
"Non capisco perché voi forestieri veniate sempre a ficcanasare in storie che non vi riguardano..."
"Non riguarderanno me, ma riguardano tutte le persone che lei ha ucciso durante la sua permanenza qui, all'ospedale psichiatrico."
Diodeo continuava a guardarmi sorridendo.
"Tu non sai niente..."
"Dice?"
Vi fu una breve pausa. Poi continuai.
"Peccato per lei che la pensa così, perché io so dove tiene la ragazza..."
"Di che ragazza parla?"
"Non lo so, lei di cosa crede che stia parlando? Di Marianna, di tutte le vittime che ha causato con la sua pazzia, o magari della ragazza che ha rapito e che tiene nello scantinato?"
Il suo sorriso andò affievolendosi.
"Non ficcare mai il naso in cose che non ti riguardano", spiegò scandendo ogni singola parola.
Sorrisi anche se avevo voglia di gridare.
"Tu che ne sai della ragazza?" mi domandò.
Espressi ovvietà.
"È stata Marianna a dirmelo."
"Non dire cazzate, Marianna è morta!"
"Ne è sicuro, dottore?"
Diodeo estrasse un coltello dalla tasca, e puntandomelo contro, disse: "Ti brucerei in un forno, ma al momento non ne è ho a disposizione..."
"Provaci", pronunciai scandendo bene la minaccia.
Poi corsi, e mi richiusi la porta alle spalle, lanciandomi in una fuga all'ultimo fiato. Scesi velocemente le scale mentre sentivo chiamarmi e insultarmi da Diodeo.
I passi facevano eco in quella struttura completamente isolata. Scesi fino allo scantinato, e dietro di me lasciai vecchi mobili e scatoloni di cartone per mettere in difficoltà l'inseguimento di Diodeo.
Arrivata ad un bivio e non sapendo quale prendere, sentii un'aria fresca provenire da sinistra, percependola come un segno.
Mi misi quindi a correre verso quella direzione quando arrivai ad una porta. Era chiusa a chiave così optai per una maniera molto meno elegante, ma decisamente più efficace. Con un calcio la sfondai e in quell'istante vidi una ragazzina accucciata sul pavimento e con gli occhi terrorizzati, fissarmi.
Feci irruzione senza smettere di fissare la porta. I film dell'horror per quanto a volte banali potessero apparire, raccomandavano sempre di guardarsi le spalle in ogni momento, perché il killer non aspettava altro che piantare un coltello nella schiena dell'inseguito.
Cercai di tranquillizzarla mentre la slegavo: "Stai tranquilla. Adesso ti porto via di qua."
Le corde le avevano lasciato i segni di una circolazione errata.
Le domandai: "Stai bene?"
Lei annuì.
"Riesci a camminare, vero?"
"Sì."
"Perfetto", dissi accarezzandole il capo.
La presi per mano e portai un dito alla bocca in segno di fare silenzio. Lei annuì.
Uscimmo dallo scantinato e voltai a sinistra, poi a destra, poi andai dritta e nuovamente a sinistra: non trovavo l'uscita. Continuai a guardarmi intorno quando in fondo al corridoio vidi qualcosa muoversi: una camicia da notte bianca o qualcosa del genere. Fatto sta che la seguii e mi portò verso le scale per l'uscita. Eravamo lì lì per uscire quando Diodeo s'impose davanti, sbarrandoci la strada.
"Stavate già andando via?", fece una pausa e piegò il capo come fanno i cani. "Non siete per niente gentili... io vi ho ospitato e voi non gradite?"
Quell'uomo non era sano di mente e pensai che l'unico modo per salvarci fu quello di stare al suo gioco.
"Il fatto è che si è fatto tardi, e sua mamma l'aspetta per cena."
"Lei ha già mangiato, con me. Gliel'ho preparata personalmente, non è così?" , domandò accarezzandole il capo.
La ragazza pianse e fece per tirarsi indietro quando dissi: "Lo so... me l'ha detto. Ha detto che la cena che le hai preparato era squisita."
Mentre continuava ad accarezzarla e fissarla, mi chiese con una calma lucida: "Cos'ha mangiato?"
Mi si gelò il sangue.
"Che cosa?", domandai.
"Mi hai appena detto che lei ti ha riferito di aver mangiato una cena squisita, quindi saprai anche cos'ha mangiato."
Cercando di mantenere la calma, risposi: "Non mi ha detto che cosa ha mangiato, ma solo che la cena era squisita."
"Tutte balle!!!", urlò allora, prendendosi di prepotenza la ragazza.
Lei gridò.
"Lasciala! Cosa vuoi farle?", urlai io.
"Lo vedrai da te!"
Mentre teneva la ragazza per i capelli, senza sapere bene come agire, mi venne spontaneo estrarre il coltello che tenevo con me e piantarglielo dritto in una gamba.
Diodeo gridò dal dolore e si accasciò. Recuperai la ragazza, e mi misi a correre spinta dalla voglia di sopravvivere a quell'incubo.
Finalmente una volta fuori, mi accorsi di non avere più con me la torcia, e le strade e il bosco erano completamente bui.
Senza mollarle neanche per un istante la mano, la trascinai verso dove sapevo aver parcheggiato l'auto.
"Sali, svelta!"
Girai la chiave, misi la prima e partii diretta il più lontano possibile da quel posto.
Uscii dal commissariato alle cinque del mattino dopo aver raccontato di Marianna Moroni, della ragazza trovata nello scantinato, e di Diodeo. Il tutto, ovviamente tralasciando qualche particolare. Poi mi recai in ospedale per accertarmi delle condizioni della ragazza. Non era un'esperienza della quale avrebbe potuto scordarsi facilmente, ma il tempo e l'affetto della famiglia l'avrebbero aiutata.
Di Diodeo non se n'erano avute più tracce, e tutta la gente del paese continuava a comportarsi come sotto omertà. Di che cosa, non lo so. Forse ciò che salvava quel criminale era il fatto che un suo antenato fosse uno dei fondatori del paese, o forse che fosse un medico, oppure più semplicemente che fosse un assassino senza scrupoli capace di uccidere senza rimorso alcuno.
Non lo sapevo.
Ad ogni modo era ancora in circolazione, e sapevo che non avrebbe smesso con la sua pazzia.
La polizia aveva cominciato le ricerche la mattina stessa, ma avevo come il presentimento che quell'uomo non si sarebbe fatto prendere tanto facilmente. Preparai le valigie decisa a lasciare quel posto. Ero conscia che la mia empatia mi avrebbe accompagnata per molto tempo, e che il cambio di residenza non l'avrebbe lasciata indietro, però ero decisa a voler cambiare aria.
La notte dopo l'accaduto, in sogno mi venne Marianna, che mi ringraziò dell'aiuto che le avevo prestato. Le risposi che non avevo poi fatto molto, visto che Diodeo era scappato, ma lei insistette.
"Hai salvato lei, e hai fatto fallire Diodeo", fece una pausa. "È stata fortunata a trovare te, le hai salvato la vita."
"Lei è stata fortunata a trovare te", le dissi. "Senza il tuo aiuto, Marianna, io non ce l'avrei mai fatta."
Sorrise. Poi scomparve.
Mi svegliai, e per una volta, sorrisi. Infine richiusi gli occhi nel tentativo di addormentarmi. Non l'avessi mai fatto...
"Io ti troverò, e ti brucerò, ragazza..." mi disse la voce di Diodeo.
Spalancai gli occhi di scatto, e deglutii diverse volte. Quell'uomo pensava a me e a come farmela pagare. Mi avrebbe dato la caccia finché non avesse messo in atto la sua vendetta. Adesso lo sapevo, e io mi sarei tenuta pronta.
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