Pensavo che l'autobus non sarebbe più arrivato, lo aspettavo ormai da troppo tempo, e il freddo cominciava ad intorpidirmi le mani, quando ad un tratto lo vidi spuntare da dietro la curva, goffo e impacciato come un serpente dopo la colazione.
Ero l'unico ad attenderlo, mi parve che l'autista si fermasse di malavoglia, ma alla fine fra un gran trambusto di giunture cigolanti lo sbuffo delle porte mi accolse al suo interno.
Era piuttosto affollato, rimaneva in ogni modo un discreto corridoio nella parte centrale che permetteva di attraversarlo per tutta la sua lunghezza, fino a raggiungere il grosso finestrino posteriore dal quale si poteva osservare le auto in coda e i loro timidi sorpassi.
Il colosso non permetteva certo spavalderie, e di ciò mi parve che l'autista fosse consapevole, quando con la coda dell'occhio ne seguiva la traiettoria riflessa nello specchio, per un attimo ebbi la sensazione di vederlo sorridere con una punta di superiorità, mentre guardava quelle piccole auto multicolori schizzare velocemente o incolonnarsi impazienti fino a formare una lunga fila variopinta, immersa nei vapori di quella rigida mattina.
Ricordo che anche da bambino quella era la mia postazione preferita, attraversavo il bus o il tram per tutta la loro lunghezza e mi piazzavo a ridosso del finestrino posteriore con il naso appiccicato al vetro e vedevo la città allontanarsi, sfumata dalla condensa come in un sogno.
Vicino a me sedeva un uomo, non più giovane, con indosso un abito un po' stretto e allacciato di tutto punto, le mani grosse e segnate dal lavoro, segni indelebili ormai, scavati come giunture, parlava tra se, incurante dei presenti, come se fosse protetto all'interno di una bolla di sapone, due anime sembrava vivessero in lui e dialogavano pacatamente su quanto fossero diventate estranee le strade che gli scivolavano davanti agli occhi, quanto non fossero più quelle di un tempo, e anche la città, non era più come la ricordavano, e se ne rammaricavano a vicenda, consolandosi, alzando le spalle in segno di disinteresse verso un mondo che non era più il loro, che non capivano più.
Quelle parole uscivano dalle labbra con due intonazioni differenti, certo, la voce era la stessa, ma le due anime sembrava possedessero una loro personalità, una loro cadenza, una delle due voci mi parve più esile, quasi femminile, forse era la voce di una donna che non c'era più, o che non c'era mai stata, e così, l'altalena fra le due presenze continuava, sommessamente, a volte fatta solo di borbottii incomprensibili.
Mi allontanai da lui, pur seguitando ad ascoltarlo, non volevo farmi risucchiare da quella bolla di sapone, o non volevo farla esplodere.
Un gruppo di Senegalesi, scuri come solo loro possono essere, tentava di raggiungere un equilibrio, fra sacchetti, borse, zaini, e il continuo sussulto del bus che si torceva ad ogni curva, che gemeva ad ogni fermata.
Parlavano, fittamente, forse di terre lontane, d'amori abbandonati, di nuove possibilità, una cascata di parole a me incomprensibili invadeva la parte centrale di quella babele semovente, creando in essa un po' il centro del mondo, vivo e chiassoso.
Giovani ragazze salivano già attrezzate per la cecità, la loro dose nelle orecchie, a tutto volume, alla deriva fra le note, non era possibile guardarle negli occhi, fissi oltre il vetro, non era possibile sfiorarle, lontane, inafferrabili, parevano degli ologrammi.
Un piccolo gruppo di giapponesi sedeva in una fila di tre, inespressivi come delle sfingi, non riuscivo nemmeno ad intravedere il battito delle palpebre, o il ritmo del respiro trovai quella disciplina del corpo insopportabile e inutile.
Accanto ad una delle uscite, accoccolato nel suo cantuccio, c'era anche chi non badava a questa varia umanità, e affondava le fauci nel seno di sua madre, tenendolo con le mani perché non sfuggisse, abbandonato in quell'oblio dolce e rassicurante, e per il momento incontaminato.