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Tulipani e farfalle
Si scavava a mano con pale e picconi al fischio della tramontana gelida di metà gennaio, tra blocchi di ghiaccio e cumuli di neve, le mani rosse e le facce paonazze semicongelate.
Celestino si scosse dallo stato di torpore in cui era caduto, affidò i figli ad una vecchia dal viso di cera grigia che sedeva con la testa tra le mani sopra un sasso. Poi cominciò con la sua pala, anche lui, a scavare.
La vecchia coprì con una grande sciarpa i due bambini che osservavano tutto senza stupirsi e senza chiedere, poiché non erano ancora giunti al tempo in cui si distingue il reale dall'apparente, il normale dall'eccezionale, soprattutto quando l'apparente e l'eccezionale assumono una dimensione irreale eppure vera come in quella mattina. In alcuni momenti, a parte il freddo che li infastidiva, sembravano essere contenti di tutto quel trambusto. Il maschietto, fuggendo ogni tanto dalle frange dell'enorme sciarpa, tentava di imitare suo padre raspando la neve dura come marmo con una mazza che qualcuno aveva lasciato là per terra perché inutile allo scopo; la bambina si limitava ad osservare il viso di cera grigia che la sovrastava. La vecchia trasse qualcosa dalla tasca del suo zinale e la donò ai due bambini che la masticarono, lo sguardo dell'uno ora fisso in quello dell'altra.
Volete un'altra mandorla? I piccoli aprirono la bocca e ripresero a masticare. Continuarono ad aprirla finché la vecchia, con un gesto di mani allargate e di spalle appena sollevate, fece capire che non c'erano più mandorle nella sua tasca ormai floscia.
I bambini, ancora seduti sulle sue ginocchia deboli, appagato il loro piccolo stomaco, si volsero a guardare ancora gli spalatori. Lei badava a tenerli ben coperti e riparati, aiutata in questo da qualche debole raggio di sole invernale che incominciava a mitigare l'aria pur sempre freddissima.
Le urla di un uomo che scavava più in là la fecero alzare di scatto. Celestino intanto corse verso i figli, li strinse a sé, toccando e ritoccando quelle testoline piene di riccioli color dell'oro. Non si dovevano impaurire, ora li avrebbe accompagnati dalla comare Olimpia, perché lui doveva scavare ancora. Doveva scavare ancora. I bambini non capirono, ma sotto quei riccioli arruffati si fece spazio il pensiero che andare dalla comare Olimpia era una cosa buona, come sempre lo era stato.
Celestì, qualche novità? disse qualcuno che incontrò mentre si faceva spazio tra le macerie con i figli in braccio. L'uomo abbassò il capo e accennò un no.
Tornò ancora ad affondare con forza e con timore la pesante pala tra la neve i sassi i legni i detriti sputando polvere e rabbia.
Corona, sposa mia, ridammi Maria e Ninuccio e riesci anche tu da là sotto... Corona, Corona...,. si ritrovò a gridare dopo tanto tacere, fammi sentire un lamento, un lamento solo, ché io so tirarvi fuori... tutti e tre... tutti e tre..! Il réfrain di Celestino ora sovrastava il rumore degli spalatori, ora diventava più debole, ora si spegneva sulla sua bocca sporca di polvere e di schizzi di fango, ora si scioglieva in un sussulto.
E intanto quell'aria fredda e irreale non riusciva a paralizzare quei pensieri e quelle speranze che correvano dai muscoli delle braccia a quelli del cuore di quegli uomini.
D'un tratto un gran trambusto.
Un'enorme nuvola di polvere maleodorante, che diventava lentamente una nuova coltre invisibile sulle macerie fumanti, fece spazio alla vettura nera che avanzava lenta per fermarsi poi davanti al primo gruppo degli spalatori che, fermi per un istante, sollevarono le loro pupille dilatate e rosse. Qualcuno scese dalla vettura e annunciò la visita tempestiva e benevola dell'Onorevole: Mentre un piccolo audace prete presta i suoi soccorsi ai nostri sfortunati fratelli in Avezzano, il qui presente Onorevole deputato del Regno d'Italia vuole considerare di persona i danni che la sciagura immane del movimento tellurico ha prodotto nelle vostre terre della Marsica orientale.
Le pupille dilatate e rosse, dopo aver veduto, tornarono a concentrarsi sulle macerie e i muscoli del cuore continuarono a ordinare a quelli delle braccia di colpire la terra. Quanto alle parole udite, gli uomini non ci fecero un gran caso.
Sua Eccellenza l'Onorevole, un omino dall'ossatura lievemente curva sul davanti, dalla piccola testa rotonda e calva proporzionata all'esile corpo attillato in un doppiopetto grigio, scese con sussiego dalla vettura già lordata di polvere grassa e, compressa la bocca con un panno candido sul quale tossiva e sputava, con la mano sinistra accennava gesti che morivano nell'aria. Io vi porto il saluto di Sua Maestà il re e l'abbraccio di Sua Maestà la Regina, ascoltate bene quanto sto per dirvi.
Tutti si fermarono ed appoggiarono le braccia sul legno caldo delle pale.
Il loro aiuto, fin d'ora, è azione concreta nei confronti dei vostri piccoli figli superstiti. La nobiltà abruzzese della città di Pescara, nelle persone delle dame caritatevoli che sono numerose in quel luogo, ha pensato di alleviare il vostro dolore di vedere i piccoli nella neve e nel freddo di questo altopiano, prendendoli in cura presso le loro dignitose, sontuose e confortevoli dimore... Fatta eccezione per qualche aggettivo di troppo, le parole furono comprese dagli uomini e dalle donne che nel frattempo avevano formato un capannello intorno a Sua Eccellenza.
No, no, gridò Celestino, i miei due figli no! Aspettano con me lo scavo per riabbracciare gli altri due e la loro madre. No, loro no!
I piccoli che erano proprio là, accanto alla comare Olimpia, corsero verso il padre e gli si avvinghiarono alle gambe... Papà, papà e sgorgarono le prime lacrime da quei grandi occhi chiari spauriti.
Intanto la faccia di cera grigia tornò sulla scena nell'atto di rovesciare la tasca del suo zinale, prima rivolta verso Olimpia, poi verso Celestino con i bambini sempre avvinghiati a lui.
È il bene vostro, è solo il bene vostro, mormorò qualcuno, qua non c'è più una fetta di pane, un panno di lana, niente, niente più. Vedete, tutti i bambini fanno quello che dice "a Signoria.
Celestino capì. I bambini dovevano andare. Doveva restare solo. Li avrebbe ripresi alla fine di tutto. Alla fine di tutto.
Quando li rivide, dopo sei lunghi mesi, in casa della contessa, avevano visi più rosei, più delicati e più tondi, occhi più grandi e più azzurri che le testoline rasate per evitare epidemie di parassiti mettevano in evidenza, manine più lisce e più piene. Il maschietto indossava degli zuavi bluette ed una camicina color crema, la bambina una gonna di seta color caffè ed un giubbettino ricamato dello stesso colore.
Avanzavano lungo il salone arredato di tappezzeria gialla intorno ai finestroni che aprivano sui pini, sul terrazzo, infine sul mare.
Celestino allargò le braccia ed essi corsero a caderci dentro.
La contessa si chinò, li abbracciò, si asciugò gli occhi. Una governante dall'ampio grembiule bianco offrì dolci e bibite, poi porse all'uomo un pacco già chiuso. Sono gli abitini dei piccoli, le loro calze, le loro scarpe, i cappottini per il prossimo inverno... una bambola di panno, una palla di pezza.
Viaggiarono in treno fino alla stazione di Pescina, dove una carrozza proveniente dal paese che era stato Menaforno era in attesa di riportarli là da dove erano partiti, i bambini per cercare scampo alla tragedia del terremoto, il padre per salvare ciò che solo gli era rimasto.
Non chiesero niente durante il viaggio, eppure parlarono tanto: abbiamo visto il mare, abbiamo fatto il bagno, abbiamo giocato con tanti giocattoli nuovi... le parole fluivano piene di abbiamo.
La parola mamma non venne mai pronunciata. I nomi di Maria e di Ninuccio nemmeno.
Le immagini, serrate in fondo al cuore, erano protette, forse, da un'angoscia che impediva loro di perderle qualora queste avessero preso suono e forma.
Ma nessuno di loro sapeva di ciò. Celestino, non avendo strumenti che gli permettessero di ragionare su teorie circa l'elaborazione del lutto nei bambini, comprese che era giusto, allora, tacere.
Una mattina d'inverno una giovane donna si avvicinò al padre che si apprestava ad accendere il fuoco del camino prima di recarsi nella vicina falegnameria finalmente ricostruita.
Parlami di lei.
Celestino si piegò in avanti ciondolando verso la fiamma incerta a tratti scoppiettante. Poi, senza voltarsi: Vieni di là, in camera.
Tirò il pomo del primo cassetto del comò, trasse un fagotto, sciolse dei lacci sottili di raso color carne, lo aprì.
Adagiò sul letto ancora sfatto un corpetto da donna in lino bianco, in certi punti tagliuzzato, in altri un po' macchiato.
Sullo scollo, tulipani e farfalle in pizzo bianco.
L'uomo vi affondò il capo e finalmente pianse. Pianse a dirotto.
Lo porse alla giovane donna che lo baciò lo annusò lo strinse lo accarezzò... lo fece aderire al suo corpo.
Fu quello che apparve, per primo, il quinto giorno di scavo.
Quella mattina, all'alba, lei lo aveva già indossato. Sapeva che amavo vederglielo sulla carne castigata dai pesanti panni invernali.
La notte, glielo avrei di nuovo slacciato.
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1 recensioni:
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- leggo molta nostalgia nel racconto, comunque molto bello, complimenti

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