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Il professore
Una leggera fitta pioggia si lasciava cadere su strade e case e il giardino sembrava più verde e più vivo; il gatto andò a ripararsi sotto il grande abete centrale, ma non si sdraiò come era solito fare.
Lucrezia si era appena svegliata e, ravviandosi i capelli, guardava attraverso l'ampia vetrata il paesaggio terso sotto l'acqua.
E giacché il rumore della pioggia, quando era così delicato e sottile, la metteva di buonumore, o meglio più in armonia con se stessa, sentì che quella era una buona giornata.
Bevve lentamente il suo caffè, lanciando uno sguardo distratto sugli oggetti sempre uguali della stanza. Tra un poco avrebbe iniziato a provare per il prossimo concerto. Il violoncello, in un angolo, sembrava attendere soltanto di essere preso, come sempre, dalle mani lunghe e bianche della sua musa silenziosa.
Lucrezia amava infatti più ascoltare che parlare e tutto quanto le sembrava armonico era da lei ascoltato di più.
Apprezzava perciò non la sola musicalità che poteva prodursi con una strumentazione, nel caso del suo violoncello dall'incontro delle corde toccate dall'archetto, ma soprattutto quella certa musicalità che sa sprigionarsi, improvvisa, da taluni elementi naturali ben intonati tra loro e sollecitati da nessun evento esterno.
Questa vera, reale musicalità ella sapeva cogliere nella voce umana come in quella della forza dell'acqua di un fiume o del mare in certe ore, oppure, come in quella mattina, nella pioggia di primavera.
Talvolta riusciva a penetrare nella musicalità muta di un atteggiamento o di uno sguardo o di un'intesa o in quella corale di un insieme ben strutturato.
Non ci aveva mai pensato, ma forse faceva musica anche per cercare di riprodurre le sensazioni che a volte non riusciva a catturare negli eventi naturali o nell'animo stesso.
Necessità, voglia di armonie.
Aveva preparato lo spartito e faceva i primi accordi, quando alcuni squilli penetrarono nella stanza ancora non ben insonorizzata.
La telefonata arrivò inattesa.
L'espressione del suo viso, prima sorpresa, si fece poi un poco seria e, infine, un leggero inafferrabile sorriso illuminò i suoi occhi mentre ascoltava l'altra voce. Poi sussurrò alcune parole e chiuse adagio l'apparecchio. Ci mise un po' per iniziare gli esercizi al violoncello e non sentì più la pioggia che continuava a battere leggera sui vetri. Suonò tutto il tempo necessario, attenta, e concentrata sulle musiche. O almeno così sembrava.
Il pomeriggio indossò l'impermeabile bianco leggero, mise un biglietto con poche righe sul piccolo scrittoio, chiamò un taxi e scese in strada.
La pioggia era quasi cessata. Un po' d'azzurro si faceva spazio tra le nuvole. Ma non ci fece caso.
Arrivò in Piazza del Popolo alle cinque in punto, si guardò intorno un momento, poi entrò alla svelta da Canova.
Il professore sedeva già nella sedia chiara del salottino alla sua sinistra e quando Lucrezia entrò egli si diresse verso di lei come era solito fare nei tempi passati per salutarla. Ma ora non aveva con sé niente degli spartiti o dei libri da consultare come allora.
Evitarono di guardarsi troppo alla ricerca dei segni del tempo trascorso in quei vent'anni, a volte così in fretta a volte così lentamente per entrambi.
Bevvero il solito caffè, sempre ben dolce Lucrezia, sempre amaro il professore e si parlarono con i toni pacati delle loro voci e si ascoltarono attenti.
Alle sette precise uscirono e ognuno riprese la sua strada, allontanandosi tra la folla multicolore verso opposte direzioni.
Non si sa se quel giorno si siano dati appuntamenti precisi, ma Lucrezia continuò a recarsi in Piazza del Popolo ogni pomeriggio di quella primavera piovosa e sempre il professore stava in quell'angolo del salottino interno del caffè Canova ad attenderla.
Parlavano a lungo degli anni degli studi, delle scelte artistiche di Lucrezia, del Conservatorio, ora che era lei ad insegnarvi, degli allievi, dei problemi degli artisti, delle solite strutture carenti...
Nulla dicevano di sé, né riguardo ai fatti accaduti per tutto quel tempo, né riguardo al presente.
Un accenno fece solo il professore quando disse di averla rivista tre o quattro settimane prima al concerto di Villa Parisi, dove aveva ritrovato altri allievi di quegli anni... Marta, che aveva sposato l'imprenditore ricco intorno al quale aveva da sempre intessuto trame segrete della cui bontà si andava convincendo senza troppi intoppi mentali tra un prendere e un lasciare... Nanni e Tina, che si erano decisi a convivere perché annoiati degli altri... Alessandro, che inseguiva il fantasma di Marta che si materializzava in rapporti intimi con gli amici comuni sotto i suoi occhi miopi...
Non parlarono degli eventi capitati a se stessi forse per caso, forse per un inconfessato desiderio comune ad entrambi di non contaminare con le loro rispettive realtà i pensieri e le parole o semplicemente perché a nessuno dei due ciò interessava davvero.
Quando uscivano, il professore poggiava il suo braccio sulla spalla di Lucrezia, con gli stessi discreti modi con cui, pur chiamandosi per nome, si davano del lei. Questi due atteggiamenti risalivano al tempo passato e perciò non vennero disattesi, come le stesse frequentazioni del caffè Canova erano la testimonianza di quel filo sottile e invisibile che però non si era mai spezzato.
Ogni tanto sia Lucrezia che il professore erano stati rivisitati dalle immagini di un tempo, mentre sfogliavano vecchi spartiti, ma non erano riusciti a catturarle.
Il legame viveva al di sopra di loro.
La realtà delle due esistenze aveva dimostrato di privilegiare fatti più vicini al comune sentire che alle loro stesse capacità.
Un successo arrivato tardi e nessun legame duraturo per il professore. Pochi amici, un successo inseguito, amori transitori per Lucrezia. Ma un profondo sentire la vita e il riprodursi di essa nell'arte apparteneva ad entrambi.
Così passò la primavera e con l'inizio dell'estate gli incontri divennero più brevi e meno frequenti.
Un pomeriggio si salutarono.
Il professore sarebbe partito quella sera stessa per Santa Marinella, dove avrebbe trascorso l'estate, ogni tanto tornando a Roma.
Lucrezia, dopo un breve viaggio in Olanda, aveva l'impegno di un paio di concerti.
Non si sa che cosa accadde da quel momento, ma di certo si sa che Lucrezia e il professore non si videro mai più.
Di ritorno dal viaggio la donna ritirò la posta arrivata nel frattempo e tra i tanti opuscoli e inviti notò una busta vergata da una grafia non sconosciuta.
Il professore fuggiva dinanzi ad un sentimento che rischiava di essere contaminato dall'usura del reale, dalla quotidianità che lo stava a poco a poco alimentando, dalla sensualità che pretendeva di coesistere e che ne avrebbe poi deciso la fine.
Lucrezia capì e parve sollevata.
Si era salvato un amore nato prima nelle loro menti che nei loro cuori e che perciò non si era mai concretizzato.
L'emozione intellettuale aveva avuto la meglio.
Mai ella chiese notizie e mai ne ebbe.
Ogni tanto scende a Piazza del Popolo, entra da Canova, va nel salottino alla sua sinistra e sorseggia il suo caffè.
Non aspetta nessuno.
Sa che la natura stessa, con le sue segrete armonie, ma anche con le sue leggi forse inspiegabili forse contraddittorie, così ha deciso.
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